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Filosofia prêt à porter

Un pensiero che non vuole più essere inattuale

di Carlo Formenti

0 89967«Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose» recitava Eraclito, non a caso fra i filosofi più amati da Marx. Ma mentre Marx inquadrava il detto nella cornice del pensiero dialettico, pensando alla guerra di classe, più che alla guerra in generale, il pensiero ermeneutico ricama su questo frammento presocratico (come su molti altri) per estrarne tutt’altro, dal momento che il conflitto antagonistico è stato espulso dall’orizzonte dei temi “politicamente corretti”. E dal catalogo della correttezza politica è stata espulsa anche la vocazione alla inattualità del pensiero, visto che gli autori inattuali tendono a coltivare visioni utopistiche che oggi vengono automaticamente associate ai campi di sterminio.

In un bell’articolo pubblicato sul sito di Micromega http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/30/filosofia-del-ritiro-ritiro-della-filosofia/?fbclid=IwAR2pbt022V8vXY5SxTtSlzWp-zFjTa-qNXfOxvLxhwZAUoPALcNsHxGwN-o Yuri Di Liberto utilizza, per definire questa svolta antipolitica che accomuna larga parte del pensiero contemporaneo, la categoria di "filosofia del ritiro": «non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione potere=totalitarismo, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente; o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo “schizo”».

Concordo sul fatto che non si tratta di un progetto filosofico univoco, visto che attraversa un ampio ventaglio di correnti accademiche (postmodernismo, postrutturalismo, postcoloniale, postumano, ecc.) le quali, nondimeno, condividono l’appartenenza a quella (pseudo)rivoluzione epistemologica che viene generalmente identificata con la cosiddetta svolta linguistica delle scienze sociali, con quel fenomeno culturale, cioè, che ha avuto la sua culla in alcuni dipartimenti delle università francesi e, in una fase successiva, nordamericane (con una fitta trama di rimbalzi e contaminazioni reciproche fra le due sponde dell’Atlantico).

Svolta, aggiungo, che non è il frutto di una “illuminazione” di alcune menti innovatrici ma, come suggerisce Di Liberto, è il riflesso di una temperie politico ideologica che ha coinvolto la maggioranza degli intellettuali marxisti (soprattutto francesi), sconvolti dalle “rivelazioni” sugli orrori del socialismo reale e prontamente pentitisi, per evitare di essere accomunati all’onta di Jean Paul Sartre, imputato di avere impersonato il ruolo di “utile idiota” al servizio del regime stalinista. Una volta stabilito – come sosteneva Hannah Arendt e come i pentiti in questione ritengono inconfutabile - che il progetto emancipatorio della rivoluzione socialista si trasforma inevitabilmente in totalitarismo, «l’unica prescrizione che vale, scrive Di Liberto, è quella di ritirarsi dall’ordine dato, rifuggire qualsiasi mira di potere, ripulirsi del fascismo che ciascuno di noi ha dentro di sé, non credere più ad alcuna guida partitica. Si tratta di una tendenza post-marxista che, agitando lo spauracchio di Stalin, ha prodotto vari elogi del ritiro, immanentismi pigri, apologie dell’inoperosità ecc.».

Questo ritiratismo filosofico, aggiunge, si basa su due postulati: qualsiasi presa di potere è foriera di totalitarismo, e l’unica azione rivoluzionaria è la resistenza-ritiro. «La parola d’ordine è ritirarsi, creare concatenamenti desideranti, combattere il fascismo che è dentro di noi, non-fare, diventare inoperosi. Il ritiratista è costantemente impegnato a indicare il fascismo degli altri e a mondare il proprio (…). Il fascismo storico diventa secondario rispetto al fascismo posturale, quello che hanno un po’ tutti, anche senza saperlo».

Noto, per inciso, che questa concezione paradossale del fascismo come categoria della mente individuale, soggettiva, oltre a inflazionare la definizione, privandola di senso (l'etichetta si estende a macchia d’olio fino a comprendere, oltre alla totalità dell’elettorato di centrodestra, l’intera popolazione maschile, bianca, eterosessuale, politicamente scorretta, a meno che non venga riscattata dall’appartenenza a un qualche tipo di “differenza” militante), è il carburante di un dispositivo colpevolizzante che inibisce qualsiasi volontà di lotta per attribuire potere politico ai soggetti che dal sistema vigente ne sono esclusi.

Il ritiratismo è alla radice della fobia nei confronti dello Stato, del partito e del potere politico in generale, mette sul banco degli imputati tutte le ipotesi verticaliste che imbrigliano le relazioni orizzontali del desiderio (sull’ideologia orizzontalista rinvio al libro di Onofrio Romano La libertà verticale, Meltemi editore). I primi a subire la condanna sono, ovviamente, il marxismo (soprattutto nella variante leninista) e il freudismo (ma anche Lacan finisce sotto accusa nell’Anti Edipo di Deleuze e Guattari). «Il marxismo e il freudismo, scrive Di Liberto, sono accusati di rinchiudere o di escludere il desiderio: in un caso il desiderio delle masse si svilisce nel partito, in Lenin, nella guida, nel programma; nell’altro esso perde le sue potenzialità creatrici, costruttive, venendo riportato forzatamente nel letto di Procuste del triangolo mamma-papà-figlio/a».

Come si vede, l’attenzione si concentra qui soprattutto su Deleuze e Guattari, ma credo la si potrebbe estendere a molti altri, a partire da Antonio Negri e dagli intellettuali post operaisti che contaminano marxismo e ritiratismo. Nel caso di costoro l’orizzontalismo assume una peculiare coloritura ideologica: l’esaltazione delle singolarità, della moltitudine come reticolo che le interconnette e che può fare a meno del comando capitalistico in quanto capace di auto valorizzarsi, di auto gestire la produttività del lavoro sociale, è la chiave di volta di una visione che annuncia l’avvento del “comunismo del capitale”, di un livello tale di sviluppo del general intellect incorporato nel sistema digitalizzato delle macchine da consentire la transizione diretta e pacifica a un più avanzato modo di produzione.

La metafora del rizoma serve a immaginarizzare questo sogno di una rivoluzione senza conflitto. Purtroppo, nota ancora Di Liberto, l’assimilazione dei modelli di business di imprese come Google, Uber e Facebook a questo modello funzionalista fa sì che, del connessionismo filosofico, rischi di non rimanere altro «se non una versione romanzata del neoliberismo delle piattaforme».

Questo accenno a una visione romanzata chiama in causa lo stile della filosofia ritiratista (e che io, per ragioni che spiegherò più avanti, preferisco definire filosofia prêt a porter), uno stile fatto di metafore, immagini suggestive, astrusi neologismi, arditi giochi di parole, calembour, facile, brillante, scorrevole, finalizzato a creare l’illusione della profondità mentre sarfa sulla superficie delle parole. Uno stile che evoca un “convitato di pietra” che occhieggia sullo sfondo dell’articolo in questione, e al quale l’autore accenna solo di sfuggita e, se ben ricordo, in un’unica occasione: mi riferisco, ovviamente, a Michel Foucault, re indiscusso del genere letterario che viene qui posto sotto accusa.

Ecco perché, la seconda parte di questo intervento è dedicata all’ultimo numero della rivista Micromega, interamente centrato sul pensiero di Foucault. Il numero prende avvio da una lettera aperta del direttore della rivista Paolo Flores D’Arcais al filosofo Roberto Esposito, seguita dalla replica del destinatario. Lo spunto polemico è l’uso (o meglio l’abuso) della categoria di biopolitica nel dibattito che la crisi pandemica ha innescato anche nella comunità filosofica. Flores D’Arcais ed Esposito svolgono il ruolo, rispettivamente, di critico radicale e di apologeta del pensiero foucaultiano, mentre una dozzina di altri autori sono convocati a dire la loro. Nelle pagine che seguono, non mi occuperò tuttavia delle letture “biopolitiche” della crisi pandemica (che del resto anche molti autori usano come pretesto per parlar d’altro) e prenderò spunto, oltre che dal dialogo fra Flores D’Arcais ed Esposito, dagli articoli di Carlo Sini, Carlo Galli e Maurizio Ferraris. Non perché gli altri non contengano elementi interessanti, ma perché questi mi sono sembrati quelli più utili per la nostra discussione.

Il tono della requisitoria di Flores D’Arcais è a dir poco duro. Come rileva uno scandalizzato Esposito, la definizione teorica che Foucault e i suoi allievi danno della biopolitica viene liquidata come un’invenzione, un’elucubrazione, una fantasia onirica, un vaniloquio, un’allucinazione, un sabba di astrazioni. Questi giudizi si infittiscono nei passaggi in cui D’Arcais esprime tutta la sua irritazione nei confronti dello stile letterario di Foucault (ma è l’intera opera di questo autore che viene ridotta a puro esercizio di scrittura, per cui la condanna dello stile fa tutt’uno con la condanna dei contenuti scientifici, peraltro giudicati inesistenti).

Ma veniamo alle critiche di merito. Non ho qui lo spazio, né l’estro, di seguire Flores D’Arcais nella fitta serie di argomentazioni che corroborano la sua requisitoria, quindi mi limito a sintetizzarne alcuni passaggi. Mi pare di poter dire che il nocciolo fondamentale consista nell’attacco alla tesi foucaultiana secondo cui, a partire da una certa fase della storia moderna (difficile da stabilire, perché Foucault, scrive Flores D’Arcais, si contraddice più volte in merito alla datazione di tale origine, anche se sembra prevalentemente orientato a collocarla nel Seicento), si sarebbe prodotta una transizione dalla sovranità, intesa come il diritto di dare la morte, alla biopolitica, in quanto potere che nutre la propria forza incrementando la salute e la felicità dei sudditi.

Flores D’Arcais ironizza su quest’ultima definizione, ricordando come solo nella seconda metà dell’Ottocento il potere politico abbia iniziato a preoccuparsi della salute – se non della felicità – dei sudditi appartenenti alle classi subalterne, decidendosi finalmente a interferire sulla “libertà” della classe imprenditoriale e a fissare qualche limite allo sfruttamento bestiale del lavoro in generale e di quello minorile in particolare. Dopodiché contesta l’idea stessa che si possa fissare un inizio relativamente recente delle pratiche politiche che si occupano della salute e del benessere dei cittadini, e sostiene, citando ad esempio il potere imperiale romano, che il potere che gestisce la vita è sempre esistito. Foucault vede discontinuità laddove non esistono, incalza Flores D’Arcais, mentre appare incapace di riconoscerle laddove sono evidenti: vedi la tesi secondo cui la Rivoluzione Francese non avrebbe marcato una vera discontinuità con la logica dell’Ancien Regime, in quanto il filosofo francese considera entrambe come articolazioni del medesimo regime biopolitico.

Il punto è che il cosiddetto metodo genealogico – o archeologico che dir si voglia – non è una alternativa alla ricerca storica scientifica, è una sequenza di costruzioni immaginarie, di suggestioni letterarie che di scientifico non hanno nulla, né pretendono di averlo, visto che Foucault liquida il razionalismo illuminista e il moderno metodo scientifico come “dispositivi”, pratiche discorsive che non servono a interpretare la realtà ma bensì a costruire “regimi di verità”.

Ma è soprattutto sulla concezione foucaultiana del potere che si puntano gli strali di Flores D'Arcais: è infatti qui, sostiene, che si annida la contraddizione che sfugge a tutti quei fan di sinistra di Foucault che si illudono di riconoscere nel suo pensiero un'intenzione rivoluzionaria. Da un lato, Foucault sembra nutrire una vera e propria fobia nei confronti di tutte le forme di gerarchia che limitano la libertà dell’individuo. A partire dal potere dello Stato, di cui contrabbanda addirittura l’estinzione (Flores D’Arcais cita in proposito il seguente passaggio: «lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc.»). Oppure si scaglia contro il potere medico (esponente di quei “poteri tecnici” che sono gli unici a stimolare la sua attenzione critica) che si impone all’individuo che questi sia o meno malato (Flores D’Arcais annota ironicamente che lo si potrebbe considerare il santo patrono dei No Vax - con allusione piuttosto chiara a certe esternazioni “complottiste” di Agamben sull’uso “biopolitico” della pandemia ).

Dall’altro lato, questa vis polemica non si traduce – al contrario di quanto sostengono i suoi adepti post sessantottini – in un progetto di “assalto al cielo”. Al contrario: per Foucault la lotta al potere è parte dell’esercizio del potere. Nei suoi “dispositivi” non si intravede alcuna via di uscita dalla auto riproduzione circolare della logica del potere, per cui, scrive Flores D’Arcais, egli attribuisce alla stessa categoria «lo sfruttamento capitalistico e le lotte delle “forze che resistono” a detto potere». E ancora: «le lotte in tal modo diventano un ingranaggio dialettico del dominio». Detto lapidariamente: Foucault è un venditore di fumo che spaccia un’ideologia conservatrice, se non reazionaria.

Passando alla replica di Esposito, mi pare si possa affermare che la sua arringa difensiva, almeno in certe parti, va quasi più a beneficio della vasta comunità dei suoi seguaci che del maestro. Il testo è altrettanto lungo e articolato di quello dell’accusatore per cui, anche in questo caso mi limiterò a evidenziarne quelli che ritengo i nodi più interessanti. Il primo è quella che definirei una risentita rivendicazione della onorabilità dell’imputato a fronte dei sanguinosi insulti rivoltigli da Flores D’Arcais. Non si tratta così, scrive il nostro, un “classico” del pensiero moderno che, udite udite, è uno dei due più grandi filosofi del 900 assieme ad Hannah Arendt (con un colpo di bacchetta magica i varti Wittgenstein, Lukacs, Heidegger, Bataille, Husserl e altri si vedono declassati a esponenti del pensiero minore del secolo XX).

Ma perché Foucault sarebbe un classico? Curiosamente Esposito, prima di sostanziare l’affermazione dimostrando la rilevanza del suo contributo al pensiero universale, si avvale dell’argomento della “chiara fama”: Foucault è un classico perché chiamato a insegnare al Collège de France, nonché tradotto e studiato in tutto il mondo con centinaia di monografie e migliaia di saggi a lui dedicati. È possibile che tutti si sbaglino, si chiede Esposito? Forse, risponde, ma è statisticamente (sic!) improbabile: «mi pare fuori questione che qualcosa di esso si sia accampato nel cuore della contemporaneità, sia entrato in sintonia con la sensibilità contemporanea». È vero che ciò può essere liquidato come un fenomeno di moda, riconosce, ma anche la moda, scrive, è una «modalità del tempo».

Apro una parentesi di approfondimento su quanto appena citato. L’accostamento Foucault-Arendt è cruciale. Esposito è infatti da tempo impegnato a costruire una “filosofia dell’impolitico” di cui il concetto di immunità rappresenta l’approdo finale. Si tratta di un percorso che ha l’obiettivo di neutralizzare la concezione schmittiana del politico come tracciamento del confine amico/nemico, visione che Esposito considera distruttiva (la traduzione politica della metafora biologica del sistema immunitario serve a evidenziare gli effetti negativi di un eccesso di aggressività nei confronti dei fattori esterni che minacciano i confini del sistema, siano essi nazionali, sociali, etnici, religiosi o altro).

Neutralizzare il conflitto antagonistico significa però liquidare l’intera eredità della moderna filosofia politica, da Machiavelli ai giorni nostri. Ed è esattamente quanto Esposito ha tentato di fare nelle sue opere, avvalendosi tanto del concetto foucaultiano di biopolitica quanto del concetto arendtiano di totalitarismo. Non va dimenticato che Arendt esaltò la rivoluzione americana rispetto a quella francese, nella quale Marx e Lenin vedevano una sorta di prologo della rivoluzione socialista, laddove la Arendt le addebitava di essere stata piuttosto il prologo del totalitarismo novecentesco.

Altro inciso. L’arringa esordisce con una esibizione di orgoglio istituzionale: il maestro insegnava al Collège de France, e molti dei suoi allievi non sono da meno (Esposito si abbandona a un vezzo narcisistico ricordando di essersi meritato «la fortuna di insegnare alla Scuola Normale Superiore»). A parte questa nota di colore, vagamente dissonante rispetto allo spirito anti istituzionale e antigerarchico di Foucault, il quale difficilmente avrebbe evocato la propria auctoritas a sostegno delle sue idee, ciò che balza agli occhi è lo “spirito di corpo” che traspare da questa risentita difesa di una comunità accademica.

In effetti, in questo botta e risposta fra Flores D’Arcais ed Esposito, la posta in palio va al di là delle intenzioni dei due protagonisti: si tratta qui di una questione di egemonia culturale. La “filosofia del ritiro” – di cui il paradigma biopolitico è parte integrante – ha infatti ereditato le postazioni egemoniche che, almeno fino alla fine degli anni Settanta, erano appannaggio degli accademici marxisti e post marxisti che operavano nei dipartimenti delle scienze umane.

Con una differenza cruciale: quella egemonia era un prolungamento in ambito universitario dell’egemonia che la “vecchia” sinistra esercitava sulle classi subalterne e su consistenti settori della società e delle istituzioni politiche. Viceversa questa egemonia è sostanzialmente rinserrata nelle mura di alcuni ambiti universitari (dove, dar retta a quanto dicono alcuni giovani ricercatori che non appartengono al clan, viene difesa con un accanimento in cui gli interessi corporativi si sommano all’odio settario nei confronti di chi non appartiene alla grande famiglia postmodernista) e riesce a proiettarsi all’esterno solo su quegli strati di classe media “riflessiva” che si identificano con ciò che resta di una nuova sinistra sempre più emarginata dalla sinistra liberista.

Questa inversione del rapporto fra accademia e società rispecchia la torsione che le filosofie del ritiro hanno impresso al concetto gramsciano di egemonia. Una torsione che traspare chiaramente laddove Esposito replica alle accuse di Flores D’Arcais in merito al carattere contraddittorio del discorso foucaultiano (vedi sopra) e al suo ridursi a esercizio di stile letterario.

Da un lato, Esposito non nega le contraddizioni che punteggiano il percorso teorico di Foucault, che peraltro considera un tratto comune a ogni grande pensatore, e che ritiene vitali in quanto contornano delle “brecce” del sistema teorico dalle quali possono fuoruscire fecondi percorsi di arricchimento del paradigma. Dall’altro lato, rivendica l’efficacia (la performatività) della ricchezza e della creatività letteraria di un discorso che procede per metafore, sottigliezze, esercizi di stile. Questo perché, argomenta, siamo di fronte a una teoria che non va valutata come un banale contenitore di significati, bensì in quanto pratica produttiva di determinati eventi.

In breve: il concetto di egemonia è qui strettamente associato a quello di performatività, l’egemonia non si fonda, gramscianamente, sulla capacità di “dare voce” alla lotta di soggetti di classe sprovvisti di strumenti culturali, né si propone di tradurre in discorso una materia sociale fatta di “verità”, di meri dati di fatto, ma si riduce a chiacchiera capace di produrre “effetti di verità”. La lotta di classe lascia il posto al duello fra retori, al gioco fra avversari che si riconoscono reciprocamente, disinnescando le spiacevoli conseguenze dell’inimicizia politica.

Vengo a Carlo Sini, il quale esordisce rilanciando l’interrogativo se la biopolitica possa essere considerata come un fenomeno di moda. Nel rispondere prende le distanze sia da Flores D’Arcais che da Esposito. Al primo obietta che, definendolo tale, si finisce per avvalorarne l’interesse, dando così ragione a Esposito, il quale rovescia l’accusa in prova del fatto che il paradigma in questione si è insediato nel cuore della contemporaneità ed è entrato in sintonia con la sua sensibilità. Al secondo replica che «non c’è affatto da pensare che in una moda oggi straordinariamente diffusa debba necessariamente esserci qualcosa di buono». Con ciò, precisa, non intende dire che la biopolitica si riduca a un fenomeno di moda culturale, tuttavia aggiunge che non è possibile ignorare la marea di sciocchezze che vengono fatte circolare con la copertura del “marchio”, per cui, continuerei io sostituendomi a di Sini (e forzandogli la mano) si potrebbe dire che, mentre i discorsi di Foucault e dei suoi migliori epigoni appartengono a una haute couture della cultura filosofica, quelli della legione di epigoni minori – per tacere delle estemporanee traduzioni dei militanti della nuova sinistra – scadono al livello di un mediocre prêt-à-porter.

Riguardo alla polemica Sini si schiera con Esposito su due punti: 1) condivide l’idea che il discorso filosofico non è un contenitore neutro di messaggi bensì una pratica produttiva di determinati eventi; 2) riconosce a Foucault ha il merito di avere scosso la sovranità del soggetto, dimostrando che «l’uomo non può darsi nella trasparenza sovrana e immediata di un cogito» (personalmente, non vedo come gli si possa attribuire il primato esclusivo di tale “scoperta”, visto che i “maestri del sospetto” – Marx, Nietzsche e Freud – lo hanno di gran lunga anticipato).

Dopodiché rovescia contro Foucault – con una specie di mossa di judo – gli effetti nichilistici del suo concetto di verità: «Se il procedimento archeologico non può giustificare la sua “verità” allora ciò di cui parla ripete nell’oggetto ancora se stesso. Questo Foucault lo sa ma si rifiuta di applicarlo davvero anche a se stesso». Infine problematizza i concetti foucaultiani di corpo, vita, nuda vita, dei «corpi viventi assoggettati al potere». Ma questa è una discussione che ci porterebbe lontano dai temi che mi propongo qui affrontare, per cui passo oltre.

L’articolo di Carlo Galli è forse quello che affronta più di petto le implicazioni politiche del discorso foucaultiano: ammesso che la realtà non è un oggetto pienamente descrivibile da un soggetto, né l’esito pratico di un fare razionale, bensì il prodotto di poteri in lotta, e ammesso che ciò che conta sono gli esiti di verità e potere dei diversi dispositivi storici, la loro interna conflittualità, e appurato infine che la “genealogia” non mette a nudo l’origine del potere, ma il fatto che esso ha sempre direzioni ed effetti, che include ed esclude, quale lezione politica trae Foucault da tutto ciò?

Foucault, argomenta Galli, «è un pensatore francese in rivolta contro lo Stato sovrano, contro il soggetto sovrano, contro la nazione sovrana, contro la ragione sovrana»; «Una ribellione che si manifesta anche attraverso una volontà di épater con paradossi, esagerazioni, improvvisazioni, sofisticherie, provocazioni. Se a ciò si aggiungono una certa arroganza intellettuale, sostenuta da una intelligenza brillantissima, le numerose frettolosità d’interpretazione di fatti e pensieri (…) e soprattutto la trasformazione – che in molti foucaultiani si è acuita – del suo pensiero in una dogmatica scolastica, in una clavis universalis onniesplicativa, in un gergo oggetto di compiaciuto “consumo vistoso” (a proposito del degrado della haute couture in prêt-à-porter N.d.A.) allora l’insofferenza di alcuni (…) è ben spiegabile…»

Al netto dell’insofferenza innescata dalle caratteristiche appena elencate, dove va a parare la “rivolta” foucaultiana? Da nessuna parte, risponde Galli, perché nel Foucault politico «c’è una fissità dello sguardo che sembra fargli pensare che il controllo della vita sia l’unica preoccupazione del potere, e che gli fa collocare sullo sfondo altre logiche di potere (economiche, concettuali e categoriali, politico strategiche: l’autonomia del politico) e altri poteri, quelli sociali, che non sono sempre in sintonia con il potere biopolitico». Così nel suo pensiero «le lotte di classe, i poteri costituenti, le rivoluzioni, le catastrofi degli ordinamenti sembrano ridursi a diagrammi monodimensionali, all’automovimento di funzioni epistemico-potestative di cui i soggetti reali (Stati, classi, popoli, individui) sono solo l’espressione»

Come spiegare allora la fortuna della vulgata foucaultiana fra i militanti dei movimenti sociali post sessantottini? Semplicemente con il fatto che la narrazione foucaultiana ventila una possibilità di resistenza individuale al potere (vedi slogan come il personale è politico), consentendo a chi imbocca questa via di evitare la durezza della lotta collettiva per conquistare il potere, e non solo per limitarlo. Ed è da qui che nasce il rischio, (in realtà è ben più di un rischio!) che la filosofia critica di Foucault possa rovesciarsi «in un’illusione di critica, in a-criticità, in un assecondamento involontario di un trend, quello del neoliberismo individualistico, che nega la rilevanza dell’agire strategico strutturale».

Concludo con una lunga citazione dal contributo di Maurizio Ferraris che mi pare sintetizzi perfettamente il senso di questo excursus sulla filosofia del ritiro, o sulla filosofia prêt-à-porter. Scrive Ferraris: «La dialettica signoria/servitù, in quanto figura costituiva dei movimenti rivoluzionari (…) si basava sul presupposto che lo schiavo avrebbe avuto la meglio. Oggi succede esattamente il contrario. Si postula che le forme della signoria (…) vincano sempre, più o meno come il banco nei casinò, e che l’unico compito della riflessione di sinistra consista nel versare qualche lacrima sugli sconfitti, o addirittura non piangere affatto, atteggiandosi a esprits forts (…). Dalla figura della signoria e della servitù siamo passati a un’altra, la coscienza infelice. La biopolitica di Foucault è un esempio insigne di questo atteggiamento, e non è forse un caso che abbia tutt’ora un numero così’ ampio di seguaci (…). Va detto a onore di Foucault che lui, personalmente non è mai stato di sinistra, che politicamente era giscardiano, e che questo lo si vede molto chiaramente nell’ammirazione che riserva alla tecnocrazia».

Comments

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giorgio
Saturday, 02 January 2021 10:41
Finalmente qualcosa di utile e istruttivo sulla strada di demistificazione delle banalità ,perlopiù filosofiche, che appaiano nell'intimo programmatico, ancorchè per alcuni ancora inconsapevole, questi filosofi agli opinionisti televisivi e ai giornalai che con quelli, sempre più spesso, si scambiano i ruoli
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