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filosofiainmov

La sfida di un socialismo democratico per il XXI secolo

di Giorgio Fazio

93Introduzione

Il dibattito sulla crisi della sinistra è in corso da anni, così come da anni sono sotto gli occhi di tutti le tendenze che certificano questo declino, basti analizzare a questo proposito gli andamenti elettorali della maggior parte dei partiti socialisti e socialdemocratici europei degli ultimi anni. Tuttavia, quando si entra nel vivo del confronto attorno alla diagnosi di questa crisi e alle terapie per uscirne, emergono ancora letture contrastanti e dissensi di fondo, che investono la questione stessa del senso di una sinistra oggi: quale deve essere la sua funzione nelle società contemporanee, quali le pratiche che devono caratterizzarla, quali i suoi soggetti di riferimento, i suoi programmi, le strategie per invertire la rotta di questa parabola di declino.

Sono tutte questioni molto complesse, che rinviano, in ultima istanza, alla questione della cultura politica della sinistra. È oggi tesi ampiamente condivisa quella secondo cui all’origine dell’attuale crisi della sinistra – e quindi, anche, della scarsa qualità dei suoi ceti politici e della sua perdita di radicamento tra i ceti popolari – ci sia lo smarrimento, dopo l’89, di una cultura politica critica di riferimento, capace di dare anima e identità alla sinistra, senso della sua missione storica e normativa, nonché credibilità e attrattività. Con cultura politica di riferimento intendo qui, in termini molto ampi, un orizzonte culturale e valoriale capace di orientare l’azione politica concreta, di indicarle senso e direzione, di discernere interessi e soggetti a cui riferirsi in via primaria, di leggere da un punto di vista determinato (per esempio, quello dei ceti subalterni) le trasformazioni sociali del proprio tempo, ma anche di qualificare lo stile dell’azione politica, di strutturare un campo politico e un’identificazione simbolica, di mobilitare impegno, passioni e immaginazione, di dare forma, articolazione politica e una rappresentazione capace di egemonia a bisogni, istanze, sentimenti di malessere e rabbia sociale.

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petiteplaisance

L'epoca degli sradicamenti

di Salvatore Bravo

Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti

Niobe 298x300L’epoca dello sradicamento, ovvero della vita fuori dalla storia, sia della coscienza che della comunità in cui la vita fiorisce. Per capire la profondità esiziale dello sradicamento globale può esserci d’ausilio Hegel con la Fenomenologia dello Spirito: le figure che si susseguono nell’opera rappresentano il percorso di radicamento della coscienza, i passaggi ed il travaglio per nascere a forme di vita sempre più consapevoli.

Il travaglio della coscienza è la storia del radicamento, della consapevolezza, del baricentro che si sposta dal fuori al dentro, e del suo disporsi verso e nella comunità. La prima figura è la coscienza, lo stadio più primitivo è la certezza sensibile in cui il soggetto giudica l’oggetto non posto dal soggetto, ma soggetto animato di vita propria.

 

Gegenstand ed obiectum

È il trionfo dell’obiectum sul Gegenstand. Lo sradicamento opera a favore della certezza sensibile e dunque dell’obiectum, mentre nel Gegenstand è la coscienza a porre la realtà, a conoscerla per trasformarla. Con l’integralismo dell’obiectum, il soggetto vive fuori di sé, è alienato, si inginocchia dinanzi all’oggetto non riconoscendolo come sua creazione. Lo sradicamento globale è il regno della certezza sensibile, il soggetto è spettatore nel turbine degli eventi che si concretizzano dinanzi a lui, e che fatalmente deve servire. L’asservimento globale è dunque sradicamento. Fenomeno complesso e poliforme, talvolta difficilmente riconoscibile, poiché in modo semplicistico è associato ai migranti, flusso ininterrotto di viaggiatori senza meta per il globo, odissea senza patria, senza ritorno. E dunque anche l’atto del partire è privo di densità emotiva e storica: non si parte da nessun luogo, per lo sradicato tutti i luoghi sono non luoghi, sono soste nel transito perenne.

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criticamente

"Transizioni". Un saggio sulla filosofia che cambia

di Alessandro Melioli

Federico Sollazzo (cura), Transizioni. Filosofia e cambiamento. In movimento con Heidegger, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Habermas, Wittgenstein, Gramsci, Pasolini, Camus, goWare, 2018

al di la del deserto 126593La prima immagine che mi sovviene accostandomi alla lettura dell’opera curata da Federico Sollazzo è di stampo sportivo. La transizione, nel gergo calcistico o cestistico, «rappresenta una fase intermedia di gioco nella quale si altera la condizione che si aveva nella fase iniziale per dare luogo ad un nuovo equilibrio» (così ad esempio su “Scienze motorie” online). Il fatto interessante è che tale concetto si può applicare soltanto a sport nei quali non esistono ruoli fissi, ovverosia dove determinati giocatori sono preposti unicamente alla fase difensiva e altri a quella offensiva, ma solo nei sistemi totali nei quali ogni soggetto si ritrova a compiere entrambe le fasi. Potremmo definirli sistemi liquidi. La transizione è diabasis ed è sempre preceduta da una sorta di periagoge, cioè di conversione del possesso palla ad opera di uno o più individui, i quali, con un gesto singolare nel rispetto delle regole del gioco, inter-rompono uno schema che stavano subendo per imbastire una nuova manovra che possa portarli ad una meta condivisa. Ma è ancora possibile una diabasis di questo tipo nel mondo attuale? Oppure la consapevolezza che «l’autentico soggetto del gioco non è il giocatore, ma il gioco stesso» [p. 84], come insegna Gadamer in Verità e metodo, non lascia spazio a sortite?

Credo che tali interrogativi possano rendere bene l’idea di fondo che muove l’opera curata da Federico Sollazzo. Transizioni. Filosofia e cambiamento è infatti un volume collettaneo, una raccolta di otto saggi di otto autori diversi. È innanzitutto una vetrina per giovani filosofi già in grado di offrire riflessioni di livello. È un lavoro di squadra; e, come in ogni squadra che si rispetti, ognuno esprime un punto di vista singolare alla luce dei propri ambiti di ricerca in vista di un fine comune.

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petiteplaisance

Tecnica e cultura classica

di Salvatore Bravo

La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole

Algoritmo 1Il Prometeo scatenato

La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Il capitalismo assoluto ha reso tale scissione prassi quotidiana. La tecnica divenuta strumento dell’integralismo economico, per potersi affermare senza che vi siano “ostacoli epistemologici,” ha reso la coscienza umana ed il simbolico presenze superflue della storia. Il mito della tecnica con i suoi dogmi vive e si espande a livello globale mediante la mitizzazione della stessa. Ogniqualvolta sono presenti difficoltà di ordine politico relative alla comunità, l’orientamento generale è il volgersi a professionisti della tecnica, i quali rispondono con l’ausilio delle macchine. Le previsioni economiche sono demandate ad economisti, i quali leggono ed interpretano proiezioni stabilite da algoritmi. L’onnipotenza si radica nell’astratto, nella scissione. L’assenza della mediazione politica comporta il delinearsi di “comunità” che piegano le ginocchia ed il capo dinanzi al nuovo “ipse dixit”: ciò fa del capitalismo assoluto – con le sue straordinarie potenzialità tecniche – un nuovo medioevo. I nuovi clerici che parlano in nome della nuova divinità non sono che l’espressione del trionfo della tecnica. I detentori del potere sono egualmente dominati, quanto lo è la comunità passivizzata ed alienata. La tecnica – senza la mediazione simbolica – trasforma l’intera comunità rinserrandola nella «gabbia d’acciaio» in cui l’oscurità – presenza impalpabile, ma onnipresente della tecnica – diviene l’essere, il fondamento pernicioso a cui gli schiavi non vogliono rinunciare. Non tutti gli schiavi sono in una eguale condizione. I possessori dei mezzi di controllo vivono una comoda condizione alienata, il loro privilegio li allontana dagli effetti della divinità di cui sono i tragici servitori.

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poliscritture

Il realismo di Danilo Zolo

Stralci

di Pietro Costa

Questi stralci selezionati da un saggio di Pietro Costa pubblicato su Jura Gentium vogliono essere un omaggio a Danilo Zolo, uno studioso scomparso ieri. Non l’ho mai incontrato. Ricordo di aver letto qualche suo scritto sui vecchi Quaderni Piacentini. O, più recentemente, diversi suoi articoli critici ai tempi della Guerra del Golfo (1990-1991) e una sua bella discussione con Antonio Negri al momento della pubblicazione di Impero (2003). Negli ultimi anni ho cercato di tener d’occhio il lavoro suo e dei collaboratori della sua rivista on line, ma non sono riuscito a leggere i suoi libri più importanti. Il suo nome per resterà quasi certamente nella mia lista dei libri “da leggere”. Non credo, però, di dovermi scusare con nessuno di questo. Sono come tanti in una condizione che non mi permette studi sistematici e approfonditi, ma ciò non mi ha mai impedito di individuare nel bailamme del mass media e delle mode gli studiosi di rilievo e di leggere almeno vari loro testi più brevi. Può un simpatizzante di Marx o delle “fisime comuniste” di Fortini e che ha appena pubblicato il ricordo partecipe di Giorgio Riolo sul marxista Samir Amin apprezzare Zolo? Senz’altro. Il rigore di certi studiosi anche accademici va sempre riconosciuto e anche chi si nutre di utopie, apparentemente irrealizzabili, impara parecchio da un realista come Zolo. Ringrazio Toto Beat per l’immagine d’apertura copiata dal suo profilo FB. [E. A.]

danilo zolo1 420x2951.

Chi entrasse in contatto, anche superficialmente, con la riflessione filosofico-giuridica e filosofico-politica sviluppata da Danilo Zolo nell’ultimo ventennio, non esiterebbe a ricorrere, per caratterizzarla con una formula riassuntiva, alla categoria del ‘realismo’. Per giungere a questa conclusione il lettore non avrebbe bisogno di particolari acrobazie ermeneutiche: è l’autore stesso che quasi in ciascuno dei suoi interventi impiega il termine ‘realismo’ (e i suoi derivati) per indicare sinteticamente il proprio schema teorico di riferimento. Nel suo più impegnativo contributo all’analisi della democrazia contemporanea – Il principato democratico – l’intenzione di delineare una teoria realistica viene programmaticamente indicata già dal sottotitolo dell’opera1 e in Cosmopoli2 – l’opera che apre la lunga serie di scritti dedicati alla filosofia del diritto internazionale – fino dalle prime pagine viene dichiarata l’appartenenza alla tradizione del realismo.

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azioni parallele

Guerra alla metafisica

di Leonardo Caffo

1ce3c6854fae4eda83bfe4d77d0a944cQuello che è più importante è che il punto di vista ecologico conduce ad interpretare ogni relazione sociale, psicologica, naturale, in termini non gerarchici. Per l’ecologia non si può comprendere la natura se ci si pone da un punto di vista gerarchico. Inoltre, essa afferma che la diversità e lo sviluppo spontaneo, costituiscono dei fini in sé, che devono essere rispettati per se stessi.
(Murray Bookchin)

La distinzione standard tra metafisica e ontologia, anche quando viene messa in crisi1, caratterizza la prima come lo studio delle qualità dell’essere (che cosa sono le cose che sono) e la seconda come l’analisi delle quantità dell’essere (che cosa esiste). In questi due diversi approcci dovrebbe essere racchiuso tutto ciò che della struttura del reale possiamo sapere (e non sapere)2 attraverso qualche metodo di accesso (epistemologia) e le entità che vengono evidenziate sono classificate generalmente come “oggetti”3 o, più classicamente, come “individui”4. L’approccio generale che ne emerge è basato sull’idea che il mondo sia un presupposto degli individui e che ognuna di queste entità sia analizzabile in modo monadico; basandomi su un’intuizione classica di Lamarck vorrei tuttavia argomentare in favore della tesi che chiamerei “Guerra alla metafisica”, secondo cui il mondo è il prodotto degli “oggetti” più che un suo presupposto. In questa direzione credo sia necessario introdurre la parola “ecologia” alla coppia ontologia e metafisica come strumento essenziale per questa guerra filosofica.

Iniziamo svincolando, con le dovute difficoltà del caso, l’ecologia dalle sue connotazioni morali e rimaniamo sul piano puramente concettuale: l’ecologia risponde, seguendo la falsariga già tracciata, allo studio delle relazioni dell’essere (che cosa esiste “tra” ciò che esiste).

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tysm

Sartre, Recalcati, la fine delle ideologie e l’autobus 37

di Maria Teresa Fenoglio

Beauvoir Sartre Che Guevara 1960 CubaPer celebrare gli 80 anni della uscita di una delle più note pubblicazioni di Sartre, il romanzo “La Nausea”, Recalcati si esprime, nelle pagine di Repubblica (2 agosto 2018) a favore dell’incontro con la specifica realtà dell’Altro, in tutta la sua concretezza esistenziale, polemizzando con le ideologie umanistiche che ci allontanerebbero da un incontro conturbante.

“Ci vuole un tremore, una vertigine, uno squarcio per riaprire i nostri occhi di fronte alla Cosa informe dell’esistenza”. Proseguendo afferma: “Sartre sferra dei colpi mortali ad ogni forma di retorica umanistica: l’umanitaresimo comunista, socialista, cattolico, insomma ogni filosofia dei valori si schianta contro la Cosa dell’esistenza che la nausea rivela bruscamente nella sua pura contingenza. Una marmellata di buoni sentimenti rischia di nutrire la cultura dei diritti e dei valori cosiddetti universali.” E poi continua dicendo che “l’infima particolarità dell’esistenza” viene sublimata in forme ideologiche (Recalcati sembra identificarle tout court con quelle di destra) che, negando l’alterità, portano alla xenofobia. La conclusione è la seguente: “Perseguendo il valore assoluto dell’Uomo, lo sguardo dell’umanesimo retorico perde di vista la singolarità degli uomini”. Rimango profondamente turbata dai salti concettuali di Recalcati, dalle citazioni di un libro così profondo e significativo per la sua epoca, “La Nausea” di Sartre, decontestualizzato e utilizzato in relazione a scenari del tutto mutati; sconcertata infine da conclusioni che sembrano condurre artatamente il lettore al rigetto di ciò che, in parole più plebee e sicuramente meno accattivanti e colte, viene chiamato “buonismo”.

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Note filosofiche sulla politica

di Mario Quaranta

Una recensione di Mario Quaranta. L’avvincente lettura del libro «Scritti con la mano sinistra» di Mario Vegetti che, per sostenere l’attualità del discorso filosofico, mette in campo alcune cruciali questioni

The Egyptian Museum in TuriMario Vegetti ha pubblicato in questo breve volume i suoi scritti di politica nel senso che egli attribuisce al termine: scritti marginali rispetto alla sua attività professionale, e “a sinistra” per indicare la sua collocazione politico-culturale, fondata sulla sua “convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa i nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte”. Nella prima parte – Tra filosofia e politica (1981) –, sono selezionati scritti su problemi filosofici che scaturiscono dalla politica: nell’intervento Per un lavoro filosofico, Vegetti si sofferma sulla discussione dell’eclissi delle ideologie, della crisi della ragione, ritenute non più in grado di fornire “sistemi unitari di spiegazione del mondo”. Attraverso di esse, al vecchio razionalismo si è sostituito il “pluralismo dei segmenti della ragione”, che necessariamente sono locali, strumentali. Alla radice di queste posizioni c’è, secondo Vegetti, l’idea di una fine del marxismo e della tradizione hegeliana e, più in generale, della fine o addirittura dell’impensabilità di una rivoluzione capace di compiere un rinnovamento radicale del mondo.

Di fronte alla crisi della ragione, i filosofi si sono perlopiù dedicati alle diverse pratiche di indagini specialistiche come la sociologia, la politologia, la psicologia e via dicendo. In questo modo, però, per Vegetti la filosofia rischia di diventare un residuo storico, specie nel momento in cui prevale la razionalità scientifica come modello esplicativo della realtà. A suo giudizio, invece, occorre riconoscere che ci sono problemi che richiamano la radicalità d’indagine e la globalità di risposte che può dare solo la filosofia.

Per sostenere l’attualità del discorso filosofico, Vegetti mette in campo alcune cruciali questioni attraverso l’analisi del lessico filosofico che adoperiamo. È il caso delle categorie di sviluppo e di lavoro, presenti in vari ambiti di pensiero, come nel marxismo. La prima categoria ha prodotto una forte giustificazione del mutamento come fine in sé, consentendo di connettere scienza, tecnica, economia, società, e gli stessi valori in un plesso unitario.

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pierluigifagan

La crisi dell'estetica trascendentale occidentale

di Pierluigi Fagan

gott unbewiesen zu nennenKant, iniziava la sua indagine sulla ragione umana[1], premettendo l’analisi sulle forme della mente entro le quali si ambientano poi tutte le altre funzioni. Le chiamò -estetica-, dal greco àisthesis che significava “sensazione” e -trascendentale- ovvero che si danno prima ancora di farne esperienza, sono apriori, sono condizioni di possibilità per tutto il resto. L’ET quindi indagava proprio le forme a priori che permettono la collocazione mentale di quegli oggetti e fenomeni di cui poi facciamo esperienza sensibile. Queste forme, secondo il nostro, erano due: la spazio ed il tempo. Queste due forme sono nella nostra mente. Kant visse mezzo secolo prima di Darwin e quindi non poteva dedurre che queste forme fossero il portato dell’evoluzione, ma oggi sappiamo che sono presenti in noi perché ci danno la possibilità di entrare in relazione con ciò nel quale siamo immersi. Ai fini pratici, poco importa disquisire se queste forme esistono oggettivamente fuori di noi o meno, se esiste davvero lo spazio e proprio così come ci sembra che sia -sappiamo ad esempio, con la fisica quantistica, che dello spazio si danno altre forme oltre a quella che sperimentiamo sensibilmente- o se esiste il tempo, tema su cui molti fisici si appassionano in seguito ai portati della relatività einsteniana. Prendiamo atto che così funziona la nostra mente, “come se” davvero la realtà in cui siamo immersi rispondesse a queste forme che ci aiutano a percepirla per poi -in essa- orizzontarci ed agire.

Detto ciò sul piano generale ed impersonale, trasferiamoci al piano sociale ovvero storico e culturale. A priori le forme di spazio e tempo sono scenari del possibile, a posteriori queste forme pluri-possibili, hanno preso alcune inclinazioni discriminanti, alcune forme determinate dalla storia e dalla cultura che, cumulandosi, fanno la nostra mentalità. E’ quindi una corruzione del trascendentale puro, è un apriori in cui la forma pura si declina con quella acquisita nella storia.

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ilcomunista

Essenza e forma nell'introduzione alla fenomenologia hegeliana

di Stefano Garroni

hegel1 - Nella Vorrede (prefazione) di un’opera filosofica, si crede erroneamente –così nota Hegel[1] - di poterne indicare l’essenza (intesa come lo scopo, che l’A. si è prefissato; il rapporto, in cui si trova la sua trattazione rispetto ad altri lavori, che hanno affrontato lo stesso argomento ed, in fine, il risultato a cui l’opera è pervenuta), contrapponendola, tale essenza, allo sviluppo, che la ricerca ha seguito per giungere ai suoi risultati. Ma ciò, avverte Hegel, non è confacente rispetto alla natura della cosa (cioè, l’essenza della filosofia) ed è, perfino, contrario allo scopo (dunque, la messa in chiaro di codesta essenza).

Richiamandosi, di fatto, anche ad un orientamento, che fu dello scetticismo antico, e continuando a riflettere sulla Vorrede di un’ opera filosofica, Hegel chiarisce che offrire un’informazione storica a proposito della tendenza e della posizione (che caratterizzano la filosofia in questione), del (suo) contenuto generale e dei (suoi) risultati, oppure prender le mosse da un insieme ordinato di asserzioni ed assicurazioni, assunte e proposte senz’altro circa il vero[2], “non rappresentano il modo adatto di esporre la verità filosofica.”

Insomma, ciò su cui Hegel vuol richiamare l’attenzione è che, partendo dall’essenza stessa della filosofia –che consiste nell’includere entro di sé il particolare-, si inferisce erroneamente che sia proprio nello scopo e nei risultati finali[3], che quell’essenza si mostra più chiaramente, relegando, invece, ai margini, perché inessenziale, “lo sviluppo dell’indagine”, che ha condotto a quello scopo e a quegli esiti.

Un analogo errore vien commesso anche riguardo la scienza (Hegel fa l’esempio della biologia), quando si crede che conoscere scientificamente equivalga a conoscere “parti separate dei corpi” –le quali, però, proprio perché così indagate, “risultano prive di vita” ed è chiaro che, fissa questa angolatura, la ricerca continua di una conoscenza più dettagliata del particolare non può far uscire dal limite di impostazione iniziale.[4]

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sinistra

La feconda lezione di Ludovico Geymonat

di Eros Barone

Rigore scientifico, coraggio civile e spirito critico di un pensatore non conformista

Geymonat e Dal PraSoltanto nell’amore e nella morte non si può fingere. Chi nell’amore cerca di fingere, può illudersi di amare, ma non ama. Chi sta morendo non finge più, perché “ciò che diranno gli altri” ormai non lo interessa… L’amore e la morte hanno dunque, davvero, qualcosa in comune, come ritennero molti poeti. Hanno in comune quello stato d’animo di “ebbrezza”, per cui l’individuo rinuncia totalmente a voler “apparire ciò che non è”; per cui comprende l’inutilità di persistere nella finzione, la vanità di ogni giudizio che non sia fondato sulla pura realtà.

Ludovico Geymonat, I sentimenti.1

Lo scopo di questo articolo è sia quello di mostrare in che senso Ludovico Geymonat occupi un posto importante nella cultura filosofica italiana del ’900, sia quello di delineare la figura di un intellettuale non conformista e di un pensatore influenzato dal marxismo.

Geymonat nasce a Torino nel 19082 ; presso l’università subalpina segue, oltre alle lezioni del grande logico e matematico Giuseppe Peano, i corsi di due filosofi positivisti, Erminio Juvalta e Annibale Pastore; nello stesso ateneo si laurea dapprima in filosofia (1930) e poi in matematica (1932), ponendo le premesse di quella fusione critica tra le due discipline che farà di lui un filosofo matematicamente dotato ed un matematico filosoficamente dotato.

Per il giovane studioso rigore e coraggio rappresentano i caratteri distintivi di una scelta di vita che lo porterà, all’inizio degli anni ’30, ad assumere, in filosofia, una posizione critica verso il neoidealismo italiano e, in politica, all’abbandono dell’università, causato dal rifiuto d’iscriversi al partito fascista.

Emerge fin da queste prime prove filosofiche e politiche un connotato della sua personalità d’intellettuale non conformista: lo stretto legame fra la teoria e la prassi. Un legame che nell’Italia di allora, per un giovane che proveniva da quella borghesia intellettuale per cui l’opposizione al fascismo era una scelta morale prima ancora che politica, era destinato a configurarsi come una testimonianza etica ed una protesta nobile ma impotente, giacché solo con la Resistenza potrà esplicarsi in un’azione politica e sociale.

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alfabeta

Profanazioni del potere

di Massimo Filippi

1 0KIPWctJkrJ3e UlVNntnANel saggio Elogio della profanazione, Agamben sostiene che la profanazione «disattiva i dispositivi di potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato». Uno degli spazi confiscati dal potere – forse lo spazio più importante da un punto di vista politico – è proprio quello del potere stesso. Da qui l’impegno profuso da molt* pensatori e pensatrici per erodere la sacralità del potere, per non pensarlo più come un’essenza che può essere detenuta o conquistata, ma come un rapporto di forze distribuito e in continua rimodulazione, a cui tutti, volenti o nolenti, partecipiamo. Il potere, insomma, non è qualcosa di separato dalla vita né si esercita su di questa esclusivamente secondo un vettore che va dall’alto al basso. Al contrario, esso si forma e va a formare insiemi di relazioni dinamiche senza le quali la vita semplicemente non esisterebbe. Il potere e la vita sono immanenti, tanto che chi continua a separare la vita dal potere compie, più o meno consapevolmente, un’operazione di spoliazione della vita, un’operazione che la rende nuda, ancor più disponibile alla presa di un potere che, spogliato della sua complessità, non può che (s)opprimerla.

Foucault rappresenta senza dubbio uno degli snodi principali in cui la profanazione del potere ha iniziato a consumarsi. E questo appare più evidente che mai nel recente Il potere. Corso su Michel Foucault (1985-1986) /2, volume che raccoglie la trascrizione delle 11 lezioni tenute da Deleuze tra gennaio e aprile 1986, nell’ambito di un corso – la cui prima parte è uscita in Italia nel 2014 e la cui terza e ultima deve ancora essere pubblicata – dedicato a una minuziosa e delicata analisi della riflessione dell’amico appena scomparso.

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filosofiainmov

La Politica al tempo dei Robot

Si dà ancora un “Principio speranza”?

di Bruno Montanari

legeros Mural Graffiti 530pPerché ho ricordato il titolo di un famoso testo di Ernst Bloch? Per una questione seria che balza immediatamente agli occhi: quella dell’ampliarsi della forbice sociale dipendente dal modo in cui l’operare dell’attuale capitalismo, che definirei sinteticamente tecnologico-finanziario, va configurando il mondo del lavoro. Il che significa avere di fronte agli occhi la “condizione umana”, divenuta strutturalmente precaria, di una marea di umanità che è sottopagata, marginalizzata o del tutto emarginata, che non è più in grado di vivere dignitosamente il suo “oggi” e di concepire un futuro come una possibilità della vita.

Comincio con il ripetere ciò che viene tritato ogni giorno da tutti i media: che la Sinistra è in crisi ovunque in Europa, che “destra” e “populismi” sono in crescita e che ricevono il consenso da quelle aree della società che un tempo votavano “a sinistra”. Ciò che tuttavia occorrerebbe chiedersi è se termini che hanno una loro storia culturale ed una loro forte incisività storico-politica conservino ancora oggi un significato che attragga l’interesse pratico della gente comune. Direi di no; mi sembra, invece, che costituiscano uno stereotipo della comunicazione mediatica, incapace di fatto di colpire la sensibilità politica dell’ambiente cui si dirigono. Prova ne sia l’alto astensionismo elettorale (non solo italiano) che altera l’effettività rappresentativa di qualsiasi percentuale partitica. A tal proposito, c’è da chiedersi se, in un siffatto contesto di astensione dai processi elettorali, non sia il caso e proprio al fine di confermarne l’indispensabilità, di introdurre un quorum per la loro validità.

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il rasoio di occam

Le insidie della felicità. Note su “Storia economica della felicità”

di Nicolò Bellanca

In Storia economica della felicità (il Mulino, 2017), Emanuele Felice ha ricostruito la storia attraverso cui si è venuta creando una frattura fra sviluppo economico e felicità, progresso economico e dimensione etica. Ma che cosa è la felicità e come la si può conseguire attraverso la politica?

felicità12Molti di noi, fin dai banchi di scuola, sono stati affascinati dalle letture di storia per gli interrogativi di fondo che esse evocano, raccontano e talvolta provano a spiegare: cosa distingue l’Homo sapiens dagli altri animali? Perché l’Occidente ha dominato il mondo nel corso degli ultimi secoli? Quali sono le determinanti profonde di grandi cambiamenti come la Rivoluzione agricola o quella industriale? Perché una collettività ha successo o declina? Le disuguaglianze erano maggiori una volta, oppure lo sono adesso? La storia ha una direzione? Le persone sono diventate più collaborative, più etiche, più felici con il trascorrere del tempo?

Negli anni recenti, simili questioni sono state affrontate da importanti scienziati sociali. Mi limito a ricordare tre libri che hanno suscitato estesi dibattiti; volutamente, menziono gli slogan riassuntivi mediante cui queste opere complesse vengono, di solito, ricordate. I destini delle società umane è il sottotitolo originale del libro nel quale Jared Diamond sostiene che la geografia fisica, in definitiva, spiega l’evoluzione culturale e la crescita economica di alcuni popoli rispetto agli altri.[1] Breve storia dell’umanità è il titolo originario del libro di Yuval Harari, nel quale si enfatizza l’abilità, specificamente umana, d’immaginare simboli, come la moneta o lo Stato, che esistono soltanto intersoggettivamente, ma che consentono la cooperazione tra estranei: tu ed io non ci conosciamo, ma accettiamo di scambiare con la stessa moneta o di obbedire alle stesse leggi.[2] Infine, Daron Acemoglu e James Robinson affermano, in un libro sottotitolato Le origini del potere, della prosperità e della povertà, che il successo delle collettività umane dipende dal carattere inclusivo delle loro istituzioni politiche ed economiche, dove per “inclusività” intendono la capacità di rispettare la libertà e i diritti delle persone.[3]

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consecutiorerum

Teleologie senza Spirito?

Sui deficit politici della filosofia della storia di Honneth

di Marco Solinas*

14 300x300Riagganciare direttamente la dimensione morale alle dinamiche delle lotte sociali, e viceversa, superando così l’economicismo imperante in larga parte della tradizione filosofico-politica di orientamento socialista, per poi spingersi verso l’adozione di una prospettiva immanentista sempre più radicale nella quale la normatività viene interamente ricostruita dalla dinamica del progresso storico: sono questi alcuni dei tratti di fondo che caratterizzano lo sviluppo del progetto teorico complessivo di Axel Honneth, dalla sua nascita a oggi. Un progetto il cui cuore pulsante è rappresentato dalla attualizzazione della concezione etica della lotta per il riconoscimento di Hegel, interpretata quale motore morale delle lotte sociali, e quindi del progresso storico.

Il baricentro della nuova teoria critica è stato così rispostato su un asse neo-hegeliano. Se infatti già Habermas aveva ripreso la teoria del riconoscimento del giovane Hegel per conferire un fondamento intersoggettivista alla sua reinterpretazione dell’imperativo categorico in chiave di agire comunicativo, l’immanentismo di Honneth punta a bypassare completamente quel costruttivismo kantiano volto a fondare la moralità su procedure formali. Riprendendo la concezione hegeliana della Sittlichkeit quale dimensione che ingloba, superandola, la Moralität, Honneth ritiene infatti di poter dedurre, o meglio ricostruire in modo immanente i criteri per valutare la correttezza e legittimità della dimensione normativa dallo sviluppo storico. La normatività viene così ri-ancorata o meglio calata direttamente e interamente nel flusso del divenire storico. Non si tratta, quindi, di limitarsi all’invero già ambizioso obiettivo di ricostruire la dimensione morale che anima dall’interno la nascita e lo sviluppo delle lotte sociali riconducibili al framework del riconoscimento, superando il quadro economicista fondato sulla categoria di interesse, come Honneth si sforzava di mostrare in Lotta per il riconoscimento, con un andamento per diversi aspetti affine a quello gramsciano[1].