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Il Grande Studio

di Pierluigi Fagan

webhomes complex to simple3Abbiamo una missione, siamo chiamati a plasmare la Terra.
Novalis

Nella Prefazione del mio recente  libro[1], scrivevo “Tale grande studio era orientato ad un punto di fuga, il concetto di complessità”. Per un errore nel processo di revisione delle bozze, quel “grande studio” è venuto fuori minuscolo, invece doveva essere maiuscolo. Messo così, in effetti, è abbastanza ridicolo, uno studioso non può certo dire che il suo studio è “grande”. Doveva esser maiuscolo perché si riferiva al Dà Xué (大学, Grande studio), titolo di uno dei quattro libri attribuiti a Confucio[2] . Come recita la breve bio dell’autore di questo spazio di riflessione, quindici anni fa mi sono ritirato a “confuciana vita di studio” ed il Dà Xué è considerato appunto il dao (la Via) della conoscenza dell’antico Maestro cinese, coevo di Solone e Talete, del Buddha storico e delle Upanishad, della probabile  compiuta redazione dei canoni dell’Antico Testamento in quel di Babilonia, quella irripetibile stagione che il tedesco Karl Jaspers chiamò “Età assiale”[3].

Quindici anni fa infatti smisi di lavorare e mi immersi nello studio. In effetti all’inizio mi misi semplicemente a leggere con agio ma, capitando proprio su i Dialoghi di Confucio (Kong zi), presi a studiarli leggendo altro di lui, molto su di lui, sul suo periodo storico, la cultura della Cina antica, il seguito del suo pensiero detto “confucianesimo”[4] un canone tutt’altro che unitario il cui corso arriva sino alla Cina contemporanea e che ha una riconducibilità relativa al Maestro storico.

La differenza tra leggere e studiare passa primariamente attraverso il tempo che si ha a disposizione. Nello studio, un Autore, un fenomeno, un concetto, una cultura, un fatto storico, viene contestualizzato nel tempo e nel luogo, si indagano i nessi che lo compongono e lo collegano ad altro sia nella sincronia che nella diacronia. Già di per sé, questo modo di conoscere pone l’oggetto come un complesso, cioè un intrecciato assieme (cum-plexus).

Nelle sue Lezioni di Storia della Filosofia[5], Hegel liquida Confucio con un breve accenno in cui però si sente di dover dar questi giudizi: “Non è plausibile attendersi da lui profonde ricognizioni filosofiche”, ed ancora “Probabilmente il De Officiis di Cicerone è meglio di tutte le opere confuciane” per poi arrivare al suggerimento che forse era meglio non tradurlo in occidente: “la sua è una morale ordinaria e prolissa. Una raccolta di prediche morali c’insegna di più e meglio”. Scatta qui la differenza tra impianti interpretativi ed intenzioni a priori, sia Leibniz che Kant, ad esempio, pare avessero provato molto interesse nello studio dell’antica cultura cinese e forse dello stesso Confucio. Nietzsche, addirittura, apostrofò Kant come “il cinese di Konigsberg” dato il perno del concetto di reciprocità che la Ragion Pratica condivide con l’intero pensiero etico del cinese.  Se Hegel cercava in Confucio il “senso filosofico” secondo la definizione data implicitamente dallo stesso filosofo di Stoccarda, è ovvio sia rimasto deluso. Nel mio piccolo invece, mi incuriosì scoprire cosa aveva detto il fondatore della radice di una tradizione di pensiero tanto rilevante per la secolare cultura cinese, una cultura  fluente e non a strappi e rivoluzioni come quella occidentale. Confucio mi appassionò proprio perché mi dischiuse i panorami di un pensiero altro, un pensiero fondato su tutt’altre impostazioni, fini e metodi rispetto al nostro. Dopo di lui, più volte tornai al pensiero cinese o alla loro storia, proprio perché i cinesi sono per noi come i marziani, altra materia  vivente simile alla nostra ma radicalmente diverse per forma, quindi sostanza. “Altro” apre ad un nuovo territorio in cui non c’è il giudizio immediato di mi piace o non mi piace, ma l’immedesimarsi nel baricentro di uno spazio mentale e geo-storico diverso dal nostro. F. Jullien è forse l’occidentale che più ha scavato in questa alterità, restituendoci molte belle pagine di ricognizione su queste altre forme del pensiero umano[6].

Il Grande Studio del Maestro Kong, era una esortazione a mettere in relazione potere e popolo, individuo e società, mente e corpo, riflessione ed azione, attraverso il continuo sforzo a sviluppare conoscenza di tutte le cose, non a fini contemplativi ma pratici.

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Pochi giorni fa ho computo sessanta anni e sono quindi quindici anni che mi sono votato a questa “vita di studio”. Proprio oggi ho terminato il millesimo saggio di questa seconda stagione della mia vita, ero un lettore pesante anche prima ma lavorando non si può studiare, prendere appunti, scrivere su sollecitazione, seguire percorsi di indagine. Per qualche magia dell’intelletto, o forse solo del suo inconscio, il millesimo libro di questo quindicennio è stato proprio il bellissimo “Le Vie della Seta” del world historian Peter Frankopan[7]. Da Confucio alla Vie della Seta sembra esserci un nesso ma in verità non è così diretto, Frankopan non scrive specificatamente o solo della attuale BRI cinese o di quella di Marco Polo, ma di tutte le trame di relazione che hanno intessuto la storia del mondo. Però forse un nesso c’è, appunto, la relazione. Noi esseri umani ed ogni altra cosa dell’universo materiale ed immateriale, abbiamo sempre questa doppia posizione dell’essere in sé ed al contempo, essere in una trama di relazioni. Se non fossimo un in sé, non ci sarebbe trama di relazioni in quanto mancherebbe ciò che le forma, se non fossimo in relazione non esisteremmo, né noi, né ogni altra cosa.

Da qui la constatazione, poi la convinzione che mi son fatto ed è ormai diventato un mio apriori, che ogni cosa che è (ripeto, tanto nell’universo materiale che in quello immateriale, nel naturale come nel culturale), è al contempo una trama di relazioni tra parti che forma un in sé a sua volta immerso in una trama di relazioni.  Questa descrizione coincide con quella di sistema. Un sistema è una trama di varietà in relazioni che dà vita a qualcosa che ha più omogeneità interna di quanto non abbia col suo esterno. A sua volta, ogni sistema è dentro un altro sistema ed ha relazioni con altri sistemi, lui, quelli di cui è composto e quello maggiore di cui è parte. Ogni sistema quindi risulterà Uno se lo guardiamo da fuori e Molteplice se lo indaghiamo nel suo dentro ma poi sarà uno dei molteplici anche nel suo fuori visto che risulterà sempre in relazione con altro. Anche la nostra posizione rispetto all’oggetto o al fenomeno è una relazione. Ogni sistema è chiuso quel tanto che lo differenzia da ciò che non è nel suo in sé, ed al contempo più o meno aperto visto che ha interrelazioni con altri ed altro fuori di sé. Tali considerazioni si possono catalogare in quella forma della filosofia che si occupa proprio delle “cose che sono in quanto sono”, definita da Aristotele nei famosi libri centrali della Metafisica[8] “filosofia prima” (“prima” non perché più importante ma perché viene per prima occupandosi dell’oggetto da cui parte qualsiasi riflessione) e battezzata “ontologia” (discorso su ciò che è) molti secoli dopo dai tedeschi[9] . Ciò che ho desunto in via prioritaria da questi anni di studio è la pertinenza di una ontologia sistemica[10]. Tutto risponde alla descrizione di un sistema. L’intera tradizione filosofica occidentale si è molto appassionata a definire l’essere in sé ma molto meno ad indagare la sua natura relazionale che ne è caratteristica consustanziale. Una ontologia sistemica obbliga a pensare l’oggetto come Uno e Molteplice, in sé ed al contempo in relazione ad altro.

Ma se la cosa è fatta a sua volta di molte cose ed è connessa a volte causativamente (partecipa alle cause di altre cose e ne è partecipata) ad altre cose, come possiamo indagarla? Veniamo qui ad un punto che è oggetto di un’altra branca dell’indagine filosofica, oggi chiamata non senza problemi “epistemologia” mentre sempre i tedeschi che avevano battezzato l’ontologia, la chiamavano “gnoseologia” (A.G. Baumgarten), discorso sulla conoscenza.  Su questo umano tendere alla conoscenza (Aristotele, Metafisica), c’è da rilevare il punto che segna la svolta moderna, quella impressa da Galileo Galilei, Descartes, Bacone ed altri. In particolare Galilei, osservava che non si può conoscere questi complessi intrecciati assieme in cui tutto si muove e cambia. Con l’olismo che aveva contraddistinto il pensiero umanistico-rinascimentale che pure aveva tentato una emancipazione dai sistemi di pensiero medioevali di tipo religioso, non si andava molto lontano. Teorizzò quindi la necessità di isolare la cosa  dal suo contesto per poterla ridurre ad oggetto dato, solo così si sarebbe potuto cercare di penetrarne i segreti, magari scomponendola nei suoi costituenti primari. Non solo per questo ma anche in sua conseguenza, la conoscenza umana che già aveva storica metafora nell’albero, prese ad arborizzati sempre più in discipline e sottodiscipline, ognuna con un suo statuto, un suo metodo, una sua tradizione più o meno cumulativa, un suo vocabolario concettuale. Dal XIX secolo, la conoscenza umana (con impostazione razionale) si è tripartita in tre famiglie: quella scientifica, quella umanistica e quella in mezzo che ha sempre una qualche versione dell’uomo per oggetto ma aspira a mutuare parti del metodo scientifico tanto da volersi definire “scienze umane o sociali”.

Ma se torniamo all’ontologia, difficile è collimare la natura intrecciata (complessa) dell’essere con la nostra impostazione disciplinare che taglia verticalmente l’essere a seconda dei suoi presupposti di oggetto e metodo. Una stessa cosa, ad esempio l’uomo, ci apparirà individuale ma anche sociale, razionale ma anche irrazionale, altruista ma anche egoista, buono ma anche terribile, irrelato o tramato, singolare o plurale, universale o particolare, naturale o culturale e tante altre schizofreniche dicotomie indecidibili[11]. Questo motore della diade è nella nostra mente, sebbene noi la si proietti sull’oggetto. Data l’unità (quantomeno esterna e provvisoria) dell’oggetto vien allora da domandarsi: chi mai riunirà tutti questi sforzi conoscitivi monodimensionali quando la cosa ci sembra almeno quadri se non pluri-dimensionale?[12] Sembra allora che la dicotomia epistemica moderna tra olismo e riduzionismo ci porti ad un flipper indecidibile in cui rimbalziamo di continuo tra Uno e Tutto. Tutto è Uno, ogni Uno è un tutto ma fatto di parti e relazioni, se ci torna utile strapparlo alla sua trama per mettercelo davanti disponibile alla nostra visione limitata e ravvicinata lo si indaghi, ma poi ci si ricordi di rimetterlo a posto ovvero nel suo contesto fatto di relazioni con altre cose. Questo ci porta nei dintorni di una epistemologia pluralista alla Feyerabend, un “anything goes”[13], tutto serve per accerchiare la sfuggente cosa in sé che non penetreremo mai. Poco saggio passare dieci secoli a pensare che l’uomo è un frammento di Dio e poi altri cinque a pensare che è al contempo un oggetto e soggetto scientifico, quando è -forse- tanto dell’uno quanto dell’altro ma molto altro ancora. La stessa legittimità che diamo alle decine di discipline in cui abbiamo frazionato lo sforzo conoscitivo, i risultati dei loro sforzi, ci dicono che la cosa la si può e la si deve indagare sotto i più svariati aspetti[14]. Una gnoseologia complessa quindi rifiuta la dicotomia e la integra in una relazione continua  tra micro e macro che punta alla sintesi. Ci si domanda però di nuovo: chi tenta le sintesi?

Le sintesi non le tenta nessuno, si teorizza non si possano fare, si sconsiglia qualunque studioso ad imbarcarsi nell’avventura. I vaghi appelli alla multi-trans-inter disciplinarietà, per altro non così frequenti, rimangono lettera morta. Vi sono visibili e ben controllati steccati che impediscono lo studioso disciplinare ad impicciarsi di ciò che dicono i colleghi della disciplina accanto, severe punizioni, ostracismo accademico ed editoriale, infine condanna con collocamento nel purgatorio degli “eclettici”, degli arruffoni del “metodo”, se non dei tuttologi accusa ignominiosa di vaghezza presuntuosa. In termini di conoscenza, non può certo esistere il tuttologo, ma il complessologo sì (per quanto bisognerà cercargli un nome meno orrendo). Si tratta solo di incrociare i tanti tagli conoscitivi verticali dello specialismo disciplinare con un cartesiano asse della conoscenza orizzontale, quella che spllucca in tutta le altre, una conoscenza di conoscenze[15]. Ovviamente se la prima forma di conoscenza, quella specialistica oggi totalizzante  ha relazione inversa tra ampiezza dello sguardo e precisione, la seconda avrà a sua volta la stessa inversione al contrario per cui non si pone il problema se è meglio l’una o l’altra, sono semplicemente complementari (ovvero in relazione) e quindi non possono risiedere nella stessa mente ma nel dialogo tra più menti. Al generalista servono gli specialisti così come a questi servirebbe ogni tanto buttare un po’ il naso fuori per capire come altri interpretano lo stesso oggetto o il contesto o quali schemi generali di pensiero si forgiano nelle altre discipline e molto altro che può potenziare i loro schemi di pensiero.  Nel tempo, l’insieme dell’umana conoscenza avrebbe un valore aggiunto, il tipico risultato complesso del totale maggiore della somma delle parti[16].

Purtroppo però,  a parte alcune meritorie istituzioni sparse in giro per il mondo e comunque più eccezioni che regole e tendenzialmente limitate alle scienze dure[17], la moltiplicazione della conoscenza per somma e relazione dei risultati di più discipline è decisamente avversata. Non ha se non vaghe teorizzazioni, alcuna pratica se non limitata a discipline adiacenti, avversata in linea di principio da una serie di considerazioni epistemologiche di varia provenienza ed intenzione. Errando nel sapere come detto per le centinaia di testi di questa mia seconda vita da studioso, saggi vari di una trentina di discipline “dalla fisica alla metafisica”, mi sono reso conto di alcune cose: 1) diverse discipline risentono di come concepiamo alcune cose trasversali che diventano apriori (ad esempio come concepiamo il tempo), molti schemi mentali si ripetono in campi diversi sebbene in ogni campo vengano nominati diversamente (hanno anche forme parzialmente diverse ma più di variazione che di sostanza)[18]; 2) c’è più relativa propensione al dialogo inter-disciplinare nella scienze dure che in quelle umane e nel pensiero umanistico in generale; 3) mancano manuali delle discipline non ad uso degli specializzandi ma di utilizzo orientativo più generale[19]; 4) mancano terribilmente sintesi di sintesi pluri-disciplinari e questo è un fallimento specifico dei filosofi; 5) pensiero nuovo non significa necessariamente leggere autori nuovi o sparare a raffica concetti nuovi, ma anche rileggere daccapo quelli vecchi, il nuovo decisivo è -a volte-  nei sistemi di pensiero che danno nuove interpretazioni, più che nelle singole idee (e si consiglia, se possibile, rileggere i testi e non solo le interpretazioni poiché queste risentono del contesto storico decisivamente) ; 6) se da una parte occorre incentivare la fertilizzazione incrociata tra discipline, dall’altra occorrerebbe vigilare maggiormente sulle trappole nascoste nelle false analogie.

Molti filosofi ed anche molti fisici, hanno più volte ri-frequentato quel giardino delle delizie che è la raccolta dei frammenti dei cosiddetti Presocratici[20]. In quella collezione c’è quasi l’intero campionario delle idee di base del pensiero occidentale dalle battaglie sull’essere ed il divenire, le intersezioni tra logica e linguistica, l’atomo e la cosmologia, la base delle forme politiche ancor oggi vigenti, i dubbi sulle facoltà interpretative, il significato della vita e della buona vita in particolare. Con quei mattoni si possono ancora costruire case mai prima viste ed abitate. Più che produrre nuovi mattoni occorrerebbero nuovi architetti e poi architetti-muratori che si sporcano con la calce di costruzione come invocava il Marx che rifletteva su Feuerbach.

Gli oggetti macro come l’uomo, il mondo umano, il mondo naturale, le molteplici interrelazioni tra mondo naturale ed umano, necessiterebbero con priorità di questo sguardo ampio e generale, propedeutico poi all’approfondimento. Soprattutto oggi che ad esempio gli storici si sono accorti che la Storia del mondo andrebbe scritta astraendoci per quanto possibile dalla nostra tradizione euro-centrica e qualche manuale di filosofia cinese o araba comincia a comparire o considerando non la globalizzazione economico-finanziaria ma la più semplice e tendenziale internazionalizzazione dell’umanità e delle forme culturali delle varie civiltà o laddove l’economia si pensa fuori della natura, della storia, della geografia, della demografia ed anche un po’ dal ben più modesto senso comune, per non parlare delle periodiche scomuniche imperialistico-culturali che reciprocamente si minacciano scienziati ed umanisti quando parlano dell’uomo. Il bello è che sono tutti uomini che attingono alle stesse forme della mente umana,  così che se il filosofo Platone invocava una preparazione geometrico-aritmetica, il fisico  Schrodinger si dichiarava debitore del pensiero pre-socratico[21]. Si dovrebbero vietare queste proiezioni delle divisioni gnoseologiche sull’ontologia, sono insensate rispetto al mistero dell’essere.

Insomma, la battaglia per l’apertura di questo fronte della conoscenza orizzontale richiesta non dalle aziende o dalle istituzioni (mal gliene incolga) ma dalla conoscenza stessa, è difficile, richiede tempo, ha bisogno praticamente di tutto non per affermarsi ma solo per mettere al mondo la sua prima, fragile, forma di vita. Questa conoscenza orizzontale fatta dalle discipline adiacenti (inter) a quella che frequentiamo di più, fatta dalla stessa collezione di più discipline (multi) ed a volte rapita dal seguire qualcosa di omogeneo che sembra solcare più discipline (trans), dovrebbe costituire un patrimonio altro con cui mettersi in relazione quando si riemerge dalla oscurità dei nostri singoli approfondimenti disciplinari.

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Nel mio Grande Studio di questi quindici anni si è venuta così a formare quella che potremmo chiamare  una filosofia della complessità, fondata come detto su una ontologia sistemica ed una epistemologia o gnoseologia anarchica e pluralistica in senso x-disciplinare. Gli articoli che scrivo discendono da questa impostazione anche se hanno poi oggetti limitati nello spazio e nel tempo. Per una precisa scelta di libera condivisione  dei saperi, quella distribuzione di conoscenza che dovrebbe esser presupposto base di ogni democrazia, ecco anche la scelta di provare (non sempre riuscendoci per limiti dell’Autore) ad esprimersi in modo quanto più comprensibile mi riesce. La gergalità esoterica è tipica dei recinti disciplinari di chi non parla ai suoi simili ma al collega-concorrente, problema che io fortunatamente non ho, avendo smesso di avere colleghi-concorrenti da quando ho smesso di lavorare o dipendere per l’esistenza da istituzioni che mi mantengono dandomi i confini entro i quali si ha l’agognato e necessario “riconoscimento”[22]. A volte è necessario avvalersi degli strumenti concettuali esoterici, ma più spesso ci si dovrebbe ricordare che fine della conoscenza dovrebbe esserne la condivisione, almeno in questo seguo il testamento platonico del mito della caverna.

Vorrei così concludere dopo aver abusato della pazienza delle lettrici e dei lettori con questo scritto di autobiografia intellettuale del tutto gratuito, ma forse anche utile per sapere cosa ha in testa colui a cui dedicate il vostro tempo di lettura, che è pur sempre prezioso tempo di vita, citando tre pensieri già espressi meglio di me, da altri. Molti cercano di inventare di continuo  nuovi concetti, a me basta il più parsimonioso riciclo di quelli già dati, il divertimento e la sfida è metterli in relazione tra loro per fare nuovi sistemi di pensiero poiché quelli sono a base di una ontologia della conoscenza. L’unità base della conoscenza umana è il sistema mentale o immagine di mondo, che ha sostanza naturale e culturale, oggetto-sistema affascinante su cui ricerco da anni e su cui prima o poi mi deciderò a scrivere più in profondo.

Il primo pensiero è una dichiarazione di fede politica. La si trova nelle Storie di Erodoto[23], roba del circa 440 a.C. molto prima di Platone ed Aristotele. Il Greco ci riporta una ipotetica quanto forse improbabile discussione tra Persiani, lì dove fa la sua prima comparsa quello che poi verrà chiamato “trilogos politikos”, il dibattito sul governo dell’Uno, dei Pochi e dei Molti. Otane è colui che propugna il governo dei Molti o più precisamente l’isonomia, sviluppa le sue argomentazioni ma infine esce battuto dalla discussione e decisione comune che vuole la monarchia. Si ritira così dalla competizione per chi dovesse esser eletto re dichiarando: “(Io) non intendo né comandare, né esser comandato”. Questo rifiuto di quello che chiamo principio di gerarchia, mi è profondamente consono, da sempre ed è base della mia seconda più profonda passione intellettuale che è politica e non contemplativa.

Il secondo è la famosa apertura del primo libro della metafisica di Aristotele, lì dove il Greco annuncia, che “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere”. Molto tempo dopo, con lo sviluppo delle idee di Darwin, si è notato che effettivamente l’uomo è l’animale più generico possibile (l’aveva notato anche Marx, se ricordo bene), ovvero apparentemente il più  a-specializzato tra tutte le specie[24]. Apparentemente, perché in effetti la specialità adattativa dell’essere umano è la conoscenza. Facendo deduzioni, induzioni ed abduzioni e scambiandocele tra noi, siamo sopravvissuti a tutti i climi e le stagioni, a tutti i predatori e le scarsità, diventando una specie universale al pari dei batteri ma con molta più complessità. Il nostro tendere al sapere è genetico, è il nostro punto di forza, è la nostra essenza in quanto fine, anche quando il fine è nella ragion pratica, ciò attraverso cui ci siamo adattati così bene.

Il terzo invero non è una citazione ma la messa in relazione tra le prime due citazioni-pilastri. Il mio sogno ideale, idealismo alla Ernst Bloch del “principio speranza”[25] a cui tendere senza mai giungere, è che tra secoli o millenni, i successori arriveranno a distribuire equamente tra loro la conoscenza dopo averla complessificata di molti gradi, in modo da decidere tra loro consapevolmente come vivere assieme tra loro, tra loro e gli altri, tra tutti e l’arancia blu di cui siamo tutti effimera esistenza che improvvisamente compare, vive come può e poi scompare. Vivere in accordo al cambiamento continuo e perenne, modificando noi ed il nostro mondo umano e sociale ma anche responsabilmente quello naturale, avendo un fine condiviso, questo è il senso forse più ampio che si dovrebbe dare alla missione di Novalis.

Se si ha questo senso di appartenenza alla specie ed alla sua Storia, consegue l’impegno di noi minuscola frazione, a riflettere su come aiutarla a realizzare i suoi sogni, realizzando così anche i nostri.


Note
[1] P. Fagan, Verso un mondo multipolare, Fazi editore, 2017; p. 14
[2] I quattro libri di Confucio, UTET, 2003; traduzione di F. Tomassini
[3] K. Jaspers, Origine e senso della storia, Mimesis, 2014
[4] M. Scarpari, Il confucianesimo, Einaudi, 2010
[5] F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, 2009; pp. 69-70
[6] Tra i suoi molti libri, riassuntivo il recente: F. Jullien, Essere o vivere, Feltrinelli, 2016
[7] P. Frankopan, Le Vie della Seta, Mondadori editore, 2017
[8] Aristotele, Metafisica, Bompiani, 2000. Libri VII (Zeta), VIII (Eta), IX (Theta).
[9] Esordio del termine ai primi del ‘600, definitivamente posto da C. Wolff nel 1729.
[10] La sistemica dà poi vita ad una euristica ed ad una cultura propria che attraversa orizzontalmente le varie discipline mostrando se non delle costanti, dei pattern ricorsivi propri di tutte le nature sistemiche (forme di natura o di cultura a cui non si possa applicare l’ontologia sistemica, non ne ho trovate).
[11] Sulla indecidibilità delle dicotomie della ragion pura, lucido rimane il Kant della Dialettica trascendentale della prima Critica.
[12] Classico e delizioso sul problema delle dimensioni l’E. A. Abbott di Flatlandia, Adelphi, 1993
[13] P. Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, 1991
[14] Diceva Aristotele che “l’essere si dice in molti modi”.
[15] E. Morin, La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, 1989
[16] Se ne parla in questo articolo, citando una dichiarazione di M. Foucault che non conoscevo ma che ben illustra questa possibile ricollocazione del filosofo generale come indagatore dei contenuti e dei metodi di tutte le conoscenze: (Qui)
[17] Il più noto è il Sante Fe Institute nel New Mexico di cui è stato presidente Geoffrey West del quale segnaliamo il di recente uscito “Scala” per Mondadori, 2018. West si interessa in particolare delle leggi di crescita, vita e decrescita dei sistemi adattivi complessi nelle varianze di scala. Il testo è uno dei tanti esempi della possibile “scienza della complessità” (che è a sua volta un di cui della più ampia cultura della complessità detta anche “terza cultura”) che ruota intorno ai concetti di emergenza, entropia, sistema adattativo, retroazione, non linearità, auto-organizzazione, resilienza.
[18] Ad esempio: si cambia di continuità o a salti? Alle volte sembra dell’uno, altre volte come nella meccanica quantistica o nelle scariche dei neuroni (spike) o nel Cambriano indagato dal paleontologo S.J.Gould o nella svolta storica detta “rivoluzione”, dell’altro. Se introducete però nel discorso una ontologia sistemica, potrete ricondurre talvolta i due modi ad un unico processo in cui è la somma cumulativa di qualcosa che porta alla soglia della modificazione radicale e repentina da cui “emerge” il nuovo stato.
[19] Se considerate l’ambiente naturale come fornitore dell’energia che dà vita ad ogni processo economico che per altro la degrada irreversibilmente vi comparirà l’economia termodinamica e biologica di N. Georgescu Roegen; se aggiornate il registro antropologico non ancora sviluppato ai tempi d Marx con tutte le varie forme economiche embedded e non disembedded come quella che chiamiamo “capitalismo”, vi verrà fuori K. Polanyi; se leggete non solo i comportamenti economici degli individui o delle classi sociali ma anche l’influenza delle strutture di cui è fatta la vita sociale (struttura ha parentela con sistema), vi verrà fuori la scuola istituzionale americana.
[20] I Presocratici (Diels, Kranz), Laterza, 2004
[21] E. Schrodinger, L’immagine del mondo, Bollati Boringhieri, 2001. Nella Universale BB si segnalano opere con accenti o interessi esplicitamente  filosofici di M. Planck, A. Einstein, N. Bohr, mentre nel Saggiatore se ne trovano di W. Heisenberg, tradizione oggi rinverdita anche dal nostro C. Rovelli con uno dei suoi primi libri su Anassimandro. A dire che certe volgari recenti usciti di fisici che proclamano la “fine della filosofia” ed il trionfo della scienza sono segno della decadenza dei tempi. Così per il pari rifiuto a priori di certi contributi scientifici per molti umanisti dalla dotta ignoranza.
[22] Ancora Confucio distingueva tra gli antichi che studiavano per sé, mentre i suoi contemporanei sembravano più interessati ad impressionare gli altri (Dialoghi, XIV, 24). La conoscenza è potere e dà potere e lo studioso che ne ottiene pezzi pur sempre insufficienti, dovrebbe decidere cosa farne con maggior responsabilità etica.
[23] Erodoto, Le Storie, UTET, 2006; vol. I, pp. 565-571 (80,1 – 83,1)
[24] Ci riferiamo alle dotazioni naturali individuali ovviamente. Nelle forme di vita associata, l’uomo replica ed evolve di molti gradi le specializzazioni attraverso i sistemi di divisione del lavoro come quelle degli insetti eusociali (si veda il E.O. Wilson de “La conquista sociale della Terra”, Cortina editore, 2013). E’ questa contraddittoria posizione dell’animale auto-cosciente (l’uomo non è una formica) che si fa parte quasi-meccanica di un super-organismo sociale impersonale a determinare il dominio del principio di gerarchia, ed ahinoi, molte pagine tragiche del registro storico.
[25] E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, 2005 

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michele castaldo
Tuesday, 23 April 2019 19:46
Egregio estimatore di Ernst Bloch,
non passeranno secoli o millenni che il moto modo di produzione capitalistico entrerà in una crisi profonda per le sue leggi di funzionamento. Purtroppo l'uomo non arriverà a a distribuire equamente per propria coscienza etica, ma perché sarà posto di fronte alla necessità di doverlo fare: hin Rhodus hic salta! Speriamo che non sia troppo tardi.
Quanto alla sua tesi di fondo - almeno così mi è parso di capire - di una interrelazione sistemica del e nel modo di produzione capitalistico, la trovo interessante anche (o forse soprattutto) perché tutti si adoperano a fare proposte sul che fare, mentre lei propone di capire innanzitutto quello che abbiamo sotto i piedi in che senso si muove.
Taglio con l'accetta e dico: il capitalismo è un movimento storico dell'uomo con i mezzi di produzione; è complementare in un unicum in cui tutto si tiene o niente si tiene.
Che gli operai - contrariamente a quello che pensava Marx e tutti i suoi epigoni - guardano al capitale/capitalista come i girasoli guardano il sole da cui sanno di dipendere.
Michele Castaldo
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