«Perché l’Iran non può avere armi nucleari e Israele sì?»
di Emmanuel Todd
Dal Giappone, l’antropologo francese analizza la questione nucleare iraniana e i doppi standard occidentali
L'autore de «La sconfitta dell’Occidente» sfida i pregiudizi occidentali sull’Iran. Con una lettura controcorrente, Emmanuel Todd sostiene che, come il Giappone, anche l’Iran potrebbe dotarsi di armi nucleari senza destabilizzare la regione. Lo studioso avverte che l’approccio unilaterale di Israele e degli Stati Uniti distorce la percezione e ostacola la comprensione del Paese erede dell’Impero persiano, che vanta oltre 2.500 anni di storia.
l punto di vista di un esperto su un tema di attualità.
Quella che segue è la traduzione in italiano di un’intervista rilasciata di recente in Giappone. Il fatto di esprimermi regolarmente in Giappone su questioni geopolitiche (da almeno 20 anni) mi ha aiutato a sviluppare una visione del mondo de‑occidentalizzata, una coscienza geopolitica non narcisistica. Come si vedrà, è stata la mia riflessione di lunga data sull’eventuale acquisizione dell’arma nucleare da parte del Giappone a portarmi a un atteggiamento piuttosto sereno di fronte alla questione iraniana.
Le democrazie europee non vanno bene. Non possono più essere descritte come pluraliste per quanto riguarda l’informazione geopolitica. La possibilità di esprimermi sui grandi media giapponesi mi ha permesso di sfuggire al divieto che in Francia pesa su qualsiasi interpretazione non conforme alla linea occidentalista. Le reti di Stato (France‑Inter, France‑Culture, France 2, France 3, La 5, France‑Info eccetera) sono agenti particolarmente attivi – e incompetenti – del controllo dell’opinione geopolitica.
Approfitto di questa occasione per esprimere la mia gratitudine al Giappone, Paese che mi ha permesso di restare libero. Senza la protezione di Tokyo, i cani da guardia allevati a Parigi sarebbero probabilmente riusciti a farmi passare per un agente di Mosca. Ringrazio in particolare il mio amico ed editore Taishi Nishi, che ha realizzato e curato questa intervista comparsa su «Bungei Shunjū», nel numero dell’agosto 2025.
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Il 13 giugno, Israele ha lanciato un attacco preventivo contro l’Iran, bombardando installazioni nucleari e conducendo un’«operazione di decapitazione» contro alti ufficiali militari e scienziati. Poi, il 21 giugno, le forze americane hanno a loro volta colpito le installazioni nucleari iraniane con missili Tomahawk e Bunker Busters.
Non solo l’Iran, ma anche la Cina, la Russia e il Segretario generale dell’Onu hanno denunciato una «violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, nonché un attentato alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Iran». Eppure, in Occidente, le reazioni non sono state così intense come lo sono state per gli attacchi su Gaza. È forse perché molti condividono l’argomento sostenuto dagli Stati Uniti e da Israele, secondo cui l’Iran non dovrebbe possedere l’arma nucleare. Penso che la maggioranza dei giapponesi la pensi in modo analogo.
Tuttavia, ritengo che l’armamento nucleare dell’Iran non costituisca un problema specifico. Al contrario, penso — come per il Giappone — che sarebbe preferibile che l’Iran si dotasse dell’arma nucleare. Se c’è una lezione storica da trarre sulle armi nucleari, è che il rischio di una guerra nucleare nasce dallo squilibrio. La situazione del 1945 ne è l’illustrazione perfetta: gli Stati Uniti, allora unica potenza nucleare al mondo, poterono usare quest’arma su Hiroshima e Nagasaki.
Al contrario, non vi fu guerra nucleare durante la Guerra fredda. Dopo la Seconda guerra mondiale, le grandi guerre indo‑pakistane si esaurirono quando entrambi i Paesi si dotarono dell’arma nucleare: da allora, sebbene si verifichino scontri armati occasionali, non si arriva più a una guerra totale.
Oggi le tensioni regionali si esasperano in Asia orientale e in Medio Oriente. Un Giappone non nucleare si trova di fronte a una Cina e a una Corea del Nord nucleari; in Medio Oriente, solo Israele possiede l’arma nucleare. In altre parole, si è creato un «disequilibrio nucleare» che genera instabilità. Proprio come la bomba nelle mani del Giappone contribuirebbe alla stabilità regionale in Asia orientale, la sua acquisizione da parte dell’Iran funzionerebbe da forza di dissuasione contro le derive di Israele e contribuirebbe alla stabilità del Medio Oriente.
Pregiudizi e accettazione del nucleare
Circa 20 anni fa, quando parlai per la prima volta dell’armamento nucleare del Giappone, la reazione dei giapponesi fu interessante. Per riassumere i commenti vari, veniva fuori qualcosa del genere: «L’armamento nucleare del Giappone è irrealistico! Però è simpatico sentire un occidentale che osa dire che anche il Giappone avrebbe il diritto di possedere l’arma nucleare».
L’intellettuale francese tipico è probabilmente convinto, senza rendersene conto, che il possesso dell’arma nucleare da parte della Francia non sollevi particolari problemi morali. Noi, occidentali, saremmo in quanto tali razionali, ragionevoli e degni di fiducia. I non‑occidentali non possono beneficiare di questa qualifica a priori. Ma perché, in fondo, l’Iran non potrebbe avere l’arma nucleare se Israele la possiede? Qui si annida un formidabile pregiudizio contro l’Iran, Paese non occidentale.
Se non vedo un problema particolare nel fatto che il Giappone o l’Iran possano avere la bomba, è perché credo che, fondamentalmente, giapponesi e iraniani condividano la stessa «umanità» non suicida dei francesi. Ho studiato la «diversità del mondo» attraverso le differenze nelle strutture familiari, cercando di sfuggire, spero, al disprezzo occidentalista verso le grandi civiltà del mondo.
Oggi, il rifiuto di vedere la diversità culturale del mondo è divenuto la grande debolezza dell’Occidente. La sua sconfitta nella guerra in Ucraina deriva da una cattiva valutazione della reale potenza della Russia, la quale a sua volta proviene da un ridicolo sentimento di superiorità occidentale. L’Occidente commette lo stesso errore nei confronti dell’Iran.
Ecco la visione dominante dei media occidentali riguardo all’attacco contro l’Iran: all’inizio Donald Trump esitava. Voleva la pace e aveva avviato negoziati con l’Iran, ma di fronte alla loro impasse avrebbe cambiato idea, galvanizzato dai successi militari spettacolari di Israele. Ma Trump ha davvero esitato?
Maurice Leblanc, autore di Arsène Lupin, fa dire al suo eroe, a cui talvolta mi ispiro: «Se tutti i fatti che possediamo concordano con un’interpretazione che ne facciamo, è molto probabile che questa interpretazione sia quella giusta». Se partiamo dall’ipotesi che «l’esitazione di Trump fosse una menzogna», allora gli eventi seguono la loro logica reale.
Alla testimonianza della direttrice dell’intelligence nazionale americana, Tulsi Gabbard, secondo cui «continuiamo ad analizzare che l’Iran non fabbrica armi nucleari. La Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, non ha approvato la ripresa del programma nucleare interrotto nel 2003», Trump ha replicato il 17 giugno: «È falso. Sono sul punto di avere l’arma nucleare», rigettando così l’analisi dei suoi stessi servizi di intelligence.
La vigilia dell’attacco, Trump ha dichiarato che avrebbe deciso «entro due settimane, tenendo conto della possibilità di negoziati imminenti con l’Iran». Era solo un’ammuina. E l’attacco a sorpresa è riuscito. Dopo dodici giorni di combattimenti, Trump ha ottenuto che Israele e l’Iran accettassero un cessate il fuoco, presentandosi come un «mediatore di pace». Ma tutto questo è una farsa. Gli Stati Uniti erano coinvolti nel piano d’attacco fin dall’inizio.
Crociata americana
L’esercito israeliano conta circa 23.000 americani e il 15% dei coloni in Cisgiordania (circa 100.000 persone) è statunitense. L’ossessione patologica degli Stati Uniti per Israele è evidente nel libro del Segretario alla Difesa, Pete Hegseth, American Crusade (La Crociata americana), pubblicato nel 2020. Guardate la copertina del libro: una foto dell’autore dall’aria «macho» che tiene la bandiera americana e salta all’occhio il fatto che non appare la persona adeguata a guidare il Dipartimento della Difesa della più grande potenza mondiale.
Ecco cosa si legge nel capitolo su Israele: «La linea del fronte dell’America, la linea del fronte della nostra fede, è Gerusalemme e Israele. Israele è il simbolo della libertà, ma ancor più la sua incarnazione vivente. Israele è la prova, sulla linea del fronte della civiltà occidentale, che la ricerca della vita, della libertà e della felicità può trasformare una regione martoriata e offrire un livello di vita senza pari in Medio Oriente. Israele incarna l’arma della nostra crociata americana, il “cosa” del nostro “perché”». «Fede, famiglia, libertà e libera impresa. Se amate queste cose, imparate ad amare lo Stato d’Israele e trovate un posto in cui combattere per lui».
Ecco l’uomo che, in quanto Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, ha guidato l’attacco contro l’Iran. Quale sarà l’efficacia a lungo termine di questa operazione militare, il cui obiettivo dichiarato era distruggere le installazioni nucleari? La Corea del Nord, che è riuscita a sviluppare il suo programma nucleare, non è stata attaccata dagli Stati Uniti e oggi è considerata una potenza nucleare di fatto. Questo attacco non farà che rafforzare la motivazione dell’Iran a ottenere l’arma nucleare, senza eliminarla mai. È controproducente.
La realtà più profonda è che Stati Uniti e Israele non avevano un obiettivo di guerra razionale. Si è trattato di un’azione impulsiva, una ricerca della violenza mossa dal gusto della guerra, insomma, dal nichilismo. La guerra stessa era lo scopo della guerra. Non possiamo fare a meno di pensare che, feriti dalla sconfitta contro la Russia in Ucraina, gli Stati Uniti abbiano voluto mantenere il loro equilibrio psicologico attaccando un Paese più debole. Si rallegrano di un’«operazione lampo impeccabile», definizione ripresa dai media. Ma i posteri probabilmente la consegneranno ai libri di storia come un evento paragonabile all’attacco a Pearl Harbor: un successo iniziale che poi trascinò il Giappone nel baratro.
La mia relazione personale con l’Iran
Anche se, prima della guerra in Ucraina, ho pranzato due o tre volte all’ambasciata russa, non ho mai avuto rapporti personali con diplomatici russi. Le mie opinioni sulla Russia sono ricostruzioni intellettuali a partire dai testi. Con l’Iran è diverso. Ieri a mezzogiorno stesso ho pranzato e trascorso tre ore e mezza con l’ambasciatore iraniano in Francia.
Il mio rapporto personale con l’Iran è cominciato verso il 2005, al tempo in cui Mahmoud Ahmadinejad, un populista puro e duro, era presidente. Mentre sonnecchiavo nel mio ufficio dell’Institut National d’Études Démographiques (Ined), ricevetti una telefonata dall’ambasciata d’Iran: «Qualcuno vorrebbe incontrarla». La mia prima reazione fu la paura, poi la curiosità prevalse. Andai all’ambasciata e fui rassicurato dal fatto che una funzionaria indossava un elegante foulard Burberry.
Incontrai il chargé d’affaires che mi disse: «Signor Todd, non ho idea di chi lei sia, ma il traduttore del suo ultimo libro mi ha chiesto di consegnarle una copia dedicata della versione farsi di Après l’Empire». Io risposi: «Meraviglioso» e chiesi: «Avete quindi concordato con il mio editore Gallimard i diritti per la traduzione?». Mi rispose: «Non era necessario. L’Iran non è firmatario delle convenzioni internazionali sul diritto d’autore» (in altre parole, l’avevano tradotto senza preoccuparsi dei diritti).
Cominciai a parlare con questo diplomatico, che aveva una formazione storica, un confronto proseguito più volte nei mesi successivi. Finì che portai all’ambasciata iraniana giornalisti che conoscevo e che lavoravano per France‑Inter, Libération o Le Nouvel Observateur. Fu per me un’esperienza unica: capitava che mi riportassero a casa tardi la sera dopo una discussione animata su una macchina dell’ambasciata. Uomo prudente, tenevo informato un amico all’Eliseo delle mie avventure da James Bond intellettuale.
I media occidentali sono pieni di pregiudizi sull’Iran, del tipo «le donne sono molto discriminate», «le donne sono perseguitate», «l’Islam sciita è più minaccioso dell’Islam sunnita». Con il pretesto che si tratta sempre di Islam, i nostri media sono ciechi di fronte alle differenze tra sunniti e sciiti, tra arabi e iraniani.
Donald Trump e Benjamin Netanyahu hanno dichiarato che «l’attacco all’Iran mirava al cambio di regime», arrivando a suggerire l’assassinio della Guida Suprema Khamenei, come se fosse possibile. Questa dichiarazione totalmente irrealistica dimostra che non hanno alcuna idea di che cosa sia l’Iran.
Il regime libico crollò con la morte di Muhammar Gheddafi, e il regime iracheno implose con la sconfitta militare di Saddam Hussein. Ma questi due Paesi, come spesso accade nelle nazioni arabe, possedevano soltanto un sistema politico fragile. L’Iran – persiano nel cuore e in larga parte, sebbene non esclusivamente, sciita – è una società fondamentalmente diversa. Se l’ayatollah Khamenei fosse assassinato, è molto probabile che lo Stato iraniano non crollerebbe.
La differenza tra arabi e persiani
I Paesi arabi sunniti si caratterizzano per la forza della rete di parentela patrilineare. Il clan patrilineare è spesso più potente dello Stato, il che rende per definizione difficile la costruzione di uno Stato. Quando uno Stato perdura, come l’Arabia Saudita, il Paese della casa dei Saud è dominato da un clan. Al contrario, l’Iran, erede lontano del grande Impero persiano, ha ereditato una tradizione e una storia di costruzione statale che risalgono a 2.500 anni.
La differenza tra gli arabi sunniti e l’Iran sciita si manifesta anche nello status delle donne. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla questione del velo. In Iran il tasso di iscrizione delle donne all’università supera quello degli uomini. L’indicatore congiunturale di fecondità, che cala con l’aumento dell’alfabetizzazione femminile, è attualmente di 1,7 figli per donna in Iran, quasi identico a quello della Francia (1,65).
Perché? Diversamente dai Paesi arabi sunniti vicini al «centro» del Medio Oriente, l’Iran, posto in «periferia», ha conservato alcune caratteristiche dell’homo sapiens arcaico, che era egualitario nei rapporti tra i sessi e nucleare nella struttura familiare (è il «conservatorismo delle zone periferiche»). In questo senso, è un po’ più vicino all’Europa che al mondo arabo. La tendenza nucleare dell’Iran si manifesta anche nella successione. A questo proposito esiste un libro meraviglioso, privo di pregiudizi e d’ideologia, di Noel Coulson: Succession in the Moslem Family (1971).
Immaginiamo, ad esempio, il caso di un uomo deceduto che lascia come eredi il fratello, la moglie, la figlia e la figlia del figlio. Secondo il diritto sunnita, il fratello riceve un quinto, la moglie un ottavo, la figlia la metà, e la figlia del figlio un sesto. Secondo il diritto sciita, il fratello non riceve nulla, la moglie un ottavo, la figlia sette ottavi e la figlia del figlio nulla. Il diritto sciita è perciò più favorevole alle donne.
Immaginiamo un altro caso: un uomo muore lasciando come eredi il figlio del figlio e la propria figlia. Secondo il diritto sunnita, il figlio del figlio riceve la metà e la figlia l’altra metà. Secondo il diritto sciita, il figlio del figlio non riceve nulla e tutto va alla figlia.
Coulson conclude così: «Contrariamente al diritto sunnita, che si fonda sull’idea di famiglia estesa o di gruppo tribale, il diritto sciita si basa su una concezione più ristretta del gruppo familiare, una concezione nucleare che include i genitori e i loro discendenti diretti [i figli].»
Paesi arabi a struttura tribale versus Iran a struttura nucleare. Qual è la conseguenza di questa differenza? Mentre i Paesi arabi hanno difficoltà a costruire Stati ed eserciti moderni, l’Iran lo fa con successo. Il cinema iraniano, riconosciuto a livello mondiale, è il frutto di questo terreno culturale e sociale. Questo carattere nucleare spiega tanto l’ordine quanto il disordine nella società iraniana. Il disordine ha permesso a Israele di assassinare personalità iraniane; il potenziale d’ordine rende però vane queste operazioni.
Il successo notevole di questi omicidi è stato attribuito all’eccellenza del Mossad e all’incompetenza dei servizi di intelligence iraniani. Eppure è proprio perché la società iraniana non è tribale ma di tipo nucleare che l’infiltrazione del Mossad e dei suoi collaboratori è stata possibile. Tuttavia, uccidere qualche militare o qualche scienziato non destabilizzerà l’Iran, poiché esiste un’organizzazione statale moderna che non è fondata su legami personali. I morti vengono rimpiazzati. In altre parole, per quanto brillanti sul piano tattico, l’operazione di decapitazione è priva di senso sul piano strategico.
Che cosa è stata la Rivoluzione iraniana?
Se l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, si sbaglia così tanto sull’Iran odierno, è soprattutto perché non ha ancora compreso il senso della Rivoluzione iraniana del 1979. Per gli Stati Uniti, in particolare, la presa degli ostaggi all’ambasciata americana è diventato un trauma che impedisce qualsiasi comprensione serena dell’evento. Eppure il nome ufficiale dello Stato nato da quella rivoluzione è proprio «Repubblica islamica d’Iran». È stata una rivoluzione democratica. Per il suo carattere democratico ed egualitario, si può considerare la Rivoluzione iraniana una cugina della Rivoluzione francese e della Rivoluzione russa.
Lo storico britannico Lawrence Stone aveva sottolineato il legame tra alfabetizzazione e «rivoluzione». In Francia, verso il 1730, il tasso di alfabetizzazione degli uomini tra i 20 e i 24 anni superò il 50%; nel 1789 scoppiò la Rivoluzione francese. In Russia, tale soglia di alfabetizzazione venne raggiunta intorno al 1900 e la rivoluzione russa ebbe luogo nel 1905 e nel 1917.
In Iran, la soglia del 50% di alfabetizzazione per i giovani maschi venne superata intorno al 1964. Quindici anni dopo, scoppiò la Rivoluzione iraniana e la monarchia venne rovesciata. Verso il 1981, il tasso di alfabetizzazione delle giovani donne superò a sua volta il 50% e verso il 1985 la fecondità cominciò a calare.
La Rivoluzione iraniana fu certamente una rivoluzione religiosa, ma lo fu altrettanto la rivoluzione puritana in Inghilterra, guidata da Oliver Cromwell. Nella misura in cui queste due rivoluzioni hanno rovesciato la monarchia in nome di Dio, esse sono paragonabili. Si può dire che lo sciismo iraniano, come il protestantesimo inglese, abbia portato avanti una sorta di rivoluzione religiosa di sinistra.
Questa rivoluzione è stata possibile perché lo sciismo porta con sé una visione secondo la quale il mondo è un luogo di ingiustizia e deve essere trasformato. Mentre la dottrina sunnita è – per così dire – «chiusa», la dottrina sciita è «aperta»: possiede una tradizione di contestazione che, diversamente dall’Islam sunnita, valorizza il dibattito.
Una sera, durante una cena molto distesa con sei diplomatici iraniani, il mio amico Bernard Guetta ebbe l’audacia di chiedere loro per chi avessero votato alle ultime elezioni presidenziali. Ognuno aveva votato per un candidato diverso. Si misero a discutere animatamente. Sono stato testimone di questa cultura in cui tutti discutono con tutti.
La pressione americana è controproducente
Il regime politico iraniano è certamente repressivo: il numero di candidati autorizzati alle elezioni presidenziali è limitato e, lo scorso anno, ci sono state circa 900 esecuzioni capitali, metà delle quali per fatti legati alla droga. Ma, a mio parere, la pressione americana ha deformato il regime iraniano. «Il problema è che la minaccia americana rafforza costantemente i conservatori in Iran» mi ha detto un diplomatico iraniano. Essa mette al loro servizio il sentimento nazionale. Lungi dal favorire la democrazia in Iran, l’azione americana ne intralcia lo sviluppo.
C’è un altro punto che i media occidentali, concentrati sugli spettacolari bombardamenti compiuti dai bombardieri di punta americani e israeliani, trascurano. L’aspetto più significativo dell’ascesa militare dell’Iran non è il nucleare, ma la produzione di missili balistici e di droni. L’Iran ha deliberatamente rinunciato a una forza aerea costosa per puntare sullo sviluppo di missili balistici e di droni a basso costo. Questa politica di difesa asimmetrica, intelligente e determinata, ha funzionato straordinariamente bene. Il sistema di difesa antiaereo israeliano è stato letteralmente logorato da 12 giorni di guerra.
Il Giappone, precursore dei Brics
Come è stato possibile? Ne La sconfitta dell’Occidente avevo attribuito la futura vittoria russa e la sconfitta certa degli Stati Uniti nella guerra in Ucraina al più alto numero di ingegneri formati dalla Russia. Anche l’Iran forma un numero considerevole di ingegneri. Tra gli studenti stranieri che conseguono un dottorato negli Stati Uniti, la percentuale di iraniani che scelgono discipline di ingegneria è eccezionalmente alta (il 66%, contro il 35% per la Cina e il 39% per l’India).
L’ambasciatore iraniano con cui ho pranzato ieri ha sottolineato che la formazione degli ingegneri è un progetto pianificato ed eseguito dai governi che si sono succeduti. Di fatto, le università iraniane sono cresciute in modo spettacolare dopo la rivoluzione, privilegiando la formazione di ingegneri.
L’Iran è entrato a far parte dei Brics. La Russia, la Cina e l’Iran, pur molto diversi fra loro, condividono lo stesso ideale di «sovranità nazionale». È interessante notare che, pur essendo solidali, rispettano la sovranità gli uni degli altri.
Al contrario, Trump, che vede i Brics come un nemico, calpesta la sovranità e la dignità dei suoi stessi «alleati», trattandoli come protettorati o vassalli, cercando di trascinarli in guerre insensate. In Europa, che ha rinunciato alla propria autonomia nei confronti degli Stati Uniti, non solo la Francia e il Regno Unito, tradizionalmente bellicosi verso la Russia, ma anche la Germania del nuovo governo Merz, aumentano le spese per la difesa e cercano di impegnarsi maggiormente nella guerra in Ucraina. Il Giappone non dovrebbe allinearsi a questa tendenza europea.
Nella prefazione all’edizione giapponese de La sconfitta dell’Occidente ho scritto: «La sconfitta dell’Occidente è ormai una certezza. Ma resta una domanda: il Giappone fa parte di questo Occidente in rotta?». Il Giappone, in virtù della sua civiltà singolare, non è forse destinato a far parte di un mondo diversificato e non occidentale come quello dei Brics? Il Giappone fu il primo Paese a sfidare la dominazione occidentale; in questo senso la restaurazione Meiji (regno che nella seconda metà dell’Ottocento trasformò il Giappone in una potenza moderna, anticipando un modello di sviluppo autonomo e non occidentale, ndr) potrebbe essere vista come un precursore dei Brics. Sono convinto che, cercando nella letteratura dell’era Meiji, si troveranno testi che affermano che, per proteggere il Paese, servono ingegneri.
Articolo originale pubblicato su https:https://substack.com/inbox/post/173092763? (traduzione dal francese a cura di Krisis).
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Emmanuel Todd, nato nel 1951, è uno storico, sociologo e antropologo francese di fama internazionale, noto per aver previsto per primo, con anni di anticipo, il collasso dell’Unione Sovietica e la crisi finanziaria del 2008. Tra i suoi libri pubblicati in Italia: L’illusione economica (Marco Tropea Editore, 2004), Dopo l’impero (Marco Tropea Editore, 2003), L’incontro delle civiltà (con Youssef Courbage, Marco Tropea Editore, 2009) e Breve storia dell’umanità (leg Edizioni, 2019). La sconfitta dell’Occidente, in corso di traduzione in diversi paesi, è il suo ultimo libro.