La bolla dell’AI sull’orlo dell’esplosione. Gli USA si ritirano dall’Asia per risolvere i guai a casa?
OttoParlante - La newsletter del Marru (8/09/25)
di Giuliano Marrucci
La costruzione di un Nuovo Ordine Globale non è un pranzo di gala. Ed ecco, così, che dopo aver passato un’intera settimana a celebrare le magnifiche sorti e progressive della leadership cinese – che tra SCO, parate, Power of Siberia 2 e chi più ne ha più ne metta, ha raggiunto una serie straordinaria di traguardi storici – è bene iniziare la settimana con una lunga disamina di tutti i dubbi e di tutti i nodi insoluti che rimangono da sciogliere; e mettetevi pure comodi, perché l’elenco è decisamente lunghino e, vista la mole, probabilmente anche un po’ caotico.
Il punto di partenza migliore è il dibattito che è nato su X tra alcuni degli osservatori (e sostenitori) più attenti e lucidi dell’ascesa del Nuovo Ordine Multipolare: a dare il via è stato il solito Arnaud Bertrand (se non lo fate già, seguitelo su X: in assoluto uno dei profili più informativi e interessanti dell’intera piattaforma) che, partendo da un articolo su Politico, ha lanciato la più stimolante delle provocazioni: “Gli USA”, afferma, “si stanno effettivamente ritirando dall’Asia”. La riflessione nasce dalle indiscrezioni sull’ultima bozza della nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono: Il piano del Pentagono dà priorità alla patria rispetto alla minaccia cinese, titola con enfasi Politico; e questo “segna un netto distacco dalla prima amministrazione Trump, che puntava a scoraggiare Pechino”.
Secondo l’articolo, appunto, “Una bozza della più recente Strategia di difesa nazionale” porrebbe “le missioni nazionali e regionali al di sopra della lotta contro avversari come Pechino e Mosca”; “Un cambiamento radicale rispetto alle recenti amministrazioni”, sottolinea Politico, “incluso il primo mandato del presidente Trump, durante il quale lo stesso documento definì Pechino il più grande avversario degli Stati Uniti”. L’aspetto divertente è che, oggi come durante il Trump 1.0, il responsabile del documento è sempre lo stesso: Elbridge Colby. Per chi segue Ottolina, una vecchia conoscenza: ne avevamo parlato qui ormai 3 anni fa, in occasione della pubblicazione del suo libro Strategy of denial, che avevamo definito il Mein Kampf degli USA. Secondo Arnaud la motivazione è chiara: “Ora che è al potere ha accesso a informazioni di intelligence reali, e deve aver capito quando sarebbe stato vano ogni sforzo.
Al di là del documento” prosegue poi ancora Politico, “il cambiamento è già in atto”; “Il Pentagono”, infatti, “ha attivato migliaia di soldati della Guardia Nazionale a supporto delle forze dell’ordine a Los Angeles e Washington, e ha inviato diverse navi da guerra e caccia F-35 nei Caraibi per intercettare il flusso di droga verso gli Stati Uniti”. L’idea sarebbe, sostanzialmente, quella di “esortare gli alleati ad assumersi maggiori responsabilità per la propria sicurezza”, ma invece che sfruttare questa chiamata alle armi per concentrare tutte le forze sul fronte del Pacifico, piuttosto, per “concentrare gli sforzi più vicino a casa”: “Il fatto è che”, commenta Arnaud, “si possono negare le realtà strutturali solo per un certo periodo, ed è assurdo aspettarsi di poter proiettare il proprio potere indefinitamente a 11.000 chilometri da casa, nel cortile di nazioni che ci superano sempre di più in tutti i parametri che contano. Agli occhi della storia, Trump non sarà senza dubbio ricordato per aver reso l’America di nuovo grande, ma potrebbe esserlo per aver reso l’America di nuovo realistica, costringendola ad accettare il suo posto come una potenza tra tante”.
Una prospettiva che non convince il buon Thomas Fazi: “Il problema principale di questa analisi”, scrive rispondendo su X, “è il presupposto che una singola amministrazione statunitense sia realmente in grado di attuare una grande strategia coerente, in particolare una che metta in discussione l’immensa attrazione gravitazionale della radicata inerzia imperiale americana”; “Proprio come Trump si è dimostrato incapace di disimpegnarsi dall’Ucraina, a prescindere dalle sue inclinazioni personali, trovo difficile credere che possa progettare una svolta strutturalmente significativa lontano dall’Asia”. Il punto fondamentale, continua Fazi, risiede proprio “nella natura stessa del regime politico-economico americano. A differenza di Cina o Russia, dove le catene di comando politiche sono relativamente centralizzate e coerenti, gli Stati Uniti sono un regime frammentato e internamente contraddittorio, legato a una serie di interessi radicati e contrastanti – finanziari, militari-industriali, aziendali-tecnologici, burocratici, ecc. Questa molteplicità di soggetti con diritto di veto, unita all’assenza di un consenso nazionale vincolante, rende la formulazione e l’attuazione di una strategia a lungo termine estremamente difficile”; “Onestamente non vedo come un sistema del genere possa essere in grado di smantellare deliberatamente il più grande impero militare della storia, e di farlo in un modo che consenta una transizione pacifica degli Stati Uniti verso un ruolo non imperiale nell’ordine internazionale. In altre parole”, conclude Fazi, “sfuggire alla trappola di Tucidide si rivelerà, temo, quasi impossibile”. Quello dell’inevitabilità o meno della trappola di Tucidide è, ovviamente, il tema per eccellenza e chi segue Ottolina l’ha visto dibattere innumerevoli volte, e ha anche visto cambiare nel tempo l’orientamento: 3 anni fa, con l’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina, davamo per scontata l’inevitabilità dell’allargamento del conflitto; poi, col tempo, gli USA hanno preso talmente tante batoste che siamo diventati più ottimisti, fino a supporre che forse la Cina, per la prima volta, la trappola di Tucidide era riuscita ad evitarla, come abbiamo provato ad argomentare in questo video qua.
Sul Pivot to homeland, la ritirata degli USA di Trump dalla proiezione globale al giardino di casa, torna anche sul suo profilo Substack il buon Simplicius che, già dal titolo, si chiede se si tratti davvero di “un colpo mortale ai neoconservatori” oppure, “semplicemente”, di “imperialismo riconfezionato”. Particolarmente indicativo sarebbe questo post pubblicato da Trump su Truth sabato scorso:
“Sembra che gli USA abbiano perso India e Russia a favore di legami più profondi e oscuri con la Cina. Possano avere un futuro lungo e prospero insieme!”, della serie moriremo, ma non di noia. Razionalizzare le uscite di Forrest Trump può rivelarsi sempre piuttosto avventuristico; un’ipotesi piuttosto realistica, però, può sempre essere quella che piace ai cantori della guerra di civiltà dell’Occidente contro il resto del mondo de noantri – leggi Sallusti, Scodinzolini, Molinari, Rampini e compagnia cantante: vista l’inerzia degli alleati USA, Trump prova in tutti i modi (anche i meno garbati) a darci una bella sveglia. Non volete cambiare passo per contrastare l’Asse del Male? Pazienza; gli USA non hanno niente da temere: siamo protetti da un Oceano e abbiamo tutto quello che ci serve. Ci basta rimettere un po’ ordine in casa, giardino compreso, ed ecco che ci si spalancano di fronte altri secoli di benessere; voi, invece, i nemici ce li avete dietro casa e sono pronti a ingoiarvi in un solo boccone. Fate voi.
L’ostentazione del Pivot to homeland è ogni giorno più forte: la settimana scorsa, l’amministrazione Trump prima è tornata a incendiare il fronte venezuelano e, poi, ha fatto un salto di qualità su quello interno con lo Stato federale che, dopo la California, dichiarava guerra anche a Chicago.
“Amo l’odore della deportazione al mattino”, parafrasa Apocalypse Now sul suo profilo Truth; “Chicago sta scoprendo perché lo abbiamo ribattezzato Dipartimento di GUERRA”. A meno che non sia impazzito, o che – come professano i sovranisti per Trump – dietro alla facciata da tycoon turbo-capitalista non nasconda un’anima socialista, sembra piuttosto evidente si tratti di un bluff.
Perché l’ipotesi che gli USA possano rinunciare alla loro proiezione globale senza una rivoluzione sociale e un cambio dei rapporti di classe all’interno del Paese sia una gigantesca puttanata, abbiamo provato ad argomentarlo decine di volte; e, per continuare a garantirsi questa proiezione, l’unica possibilità che hanno è collaborare ancora di più con gli alleati, non meno: L’America da sola non può competere con la Cina, titolava ieri il New York Times, ma con i nostri alleati non c’è gara.
La riflessione è affidata nientepopodimeno che a l’ex vicesegretario di Stato di Biden Kurt Campbell e al vicedirettore per gli affari con la Cina del Consiglio per la Sicurezza Nazionale Rush Doshi: “Per la prima volta nella loro storia moderna”, ricordano, “gli Stati Uniti si trovano ad affrontare un rivale, la Cina, che è in vantaggio nella maggior parte degli aspetti critici del potere, e la sola capacità nazionale americana potrebbe non essere sufficiente per raccogliere la sfida”; “La Cina ha il doppio della capacità produttiva, producendo molte più automobili , navi, acciaio e pannelli solari rispetto agli Stati Uniti e oltre il 70% delle batterie, dei veicoli elettrici e dei minerali essenziali del mondo. In ambito scientifico e tecnologico, la Cina produce più brevetti attivi e pubblicazioni più citate degli Stati Uniti. E militarmente, possiede la flotta navale più grande del mondo, con una capacità di costruzione navale stimata oltre 230 volte superiore a quella americana, e si sta rapidamente affermando come leader nelle armi ipersoniche, nei droni e nelle comunicazioni quantistiche”. “Stiamo entrando in un’era in cui la vera misura del primato americano sarà la capacità di Washington di costruire quella che chiamiamo scala alleata: il potere di competere a livello globale in tandem con altri Paesi nei settori economico, tecnologico e militare”; “Da soli, gli Stati Uniti saranno più piccoli rispetto alla Cina secondo molti parametri importanti. Ma insieme a economie come Europa, Giappone, Corea del Sud, Australia, India, Canada, Messico, Taiwan e altre, non c’è concorrenza. Questa coalizione rappresenterebbe più del doppio del PIL cinese al netto del potere d’acquisto, più del doppio della sua spesa militare, sarebbe il principale partner commerciale della maggior parte dei Paesi del mondo e rappresenterebbe metà della produzione manifatturiera globale contro un terzo della Cina”. “L’obiettivo non è contenere la Cina – un obiettivo impossibile -, ma bilanciarla. Solo attraverso le partnership possiamo proteggere le nostre basi industriali comuni, il vantaggio tecnologico e la capacità di scoraggiare la Cina”: “Ciò significa non trattare più gli alleati degli Stati Uniti come soggetti dipendenti sotto la nostra protezione, ma come partner nella costruzione congiunta del potere, mettendo in comune mercati, tecnologia, capacità militare e capacità industriale”; ma “il presidente Trump sembra muoversi nella direzione opposta”.
E’ esattamente il senso di quanto affermato da Mattarella sabato a Cernobbio, tra una ricostruzione fantasy del ruolo pacifico e benefico dell’Europa e l’altra, alla platea dei Prenditori riuniti per il Forum Ambrosetti: “Contro i regimi autocratici”, ha dichiarato, “c’è bisogno dell’Europa”
A questo giro, però, Mattarella non si è limitato a provare a convincere il giardino ordinato a stare unito contro le minacce della giungla a suon di buoni sentimenti natalizi; ha messo sul tavolo la carta che l’Europa potrebbe – e dovrebbe – giocare per portare Forrest Trump a più miti consigli: servono “regole che riconducano al bene comune lo straripante peso delle corporazioni globali”, che definisce addirittura “nuove Compagnie delle Indie, che si arrogano l’assunzione di poteri che si pretende che Stati e organizzazioni internazionali non abbiano a esercitare”.
Venerdì l’Ue aveva annunciato una multa da poco meno di 3 miliardi di euro nei confronti di Google per aver violato le norme antitrust, favorendo i propri servizi pubblicitari digitali; ha inoltre ordinato al colosso tecnologico statunitense di porre fine alle sue “pratiche di auto-preferenza” e di porre fine ai “conflitti di interesse” lungo la filiera della tecnologia pubblicitaria. La risposta di Trump non si è fatta attendere: “Vogliono prendere soldi che altrimenti andrebbero in investimenti e lavoro negli USA. I contribuenti statunitensi non lo tollereranno” e “la mia amministrazione NON permetterà che queste azioni discriminatorie continuino”. “Dovete restituirgli quel denaro!”.
Giovedì scorso alla Casa Bianca è andato in scena una specie di remake della cerimonia di insediamento di Trump a gennaio, quando a partecipare all’incoronazione, in primissima fila, si riunì tutto il gotha della nuova aristocrazia tecno-feudale: invitati a cena da Donald e Melania Trump, i principali CEO delle “nuove Compagnie delle Indie”, come le ha definite Mattarella, hanno fatto professione di fede incrollabile nel governo del tycoon. La ragione è semplice: intorno all’AI c’è una bolla speculativa che, in confronto, quella delle dotcom di fine anni ‘90 era una giacchettata. Come ricorda l’Economist, “Dall’uscita di Chat GPT nel 2022, il valore del mercato azionario americano è aumentato di 21 trilioni di dollari”, più di quanto non capitalizzino tutte le borse europee messe assieme, e neanche di poco, e “Solo 10 aziende, tra cui Amazon, Broadcom, Meta e Nvidia, rappresentano il 55% di questa crescita”. E non solo: “Nella prima metà dell’anno”, insiste l’Economist, “il boom degli investimenti IT ha rappresentato l’intera crescita del PIL americano; dall’inizio dell’anno, un terzo dei capitali di rischio occidentali è andato alle aziende di intelligenza artificiale”. Tutto questo fermento è perché in molti sostengono che “trasformerà l’economia” tanto quanto la Rivoluzione Industriale; altri, addirittura che “i luminari dell’intelligenza artificiale non sono solo alla ricerca delle decine o centinaia di migliaia di miliardi di valore“ che la tecnologia potrebbe aggiungere alle loro aziende, ma sono “in una corsa per creare un Dio digitale”. Ma, nonostante tutte le aspettative più fantasmagoriche, “UBS rileva che la generazione di fatturato fino ad oggi è stata deludente”, come con le dotcom, pari pari. All’epoca, internet avrebbe dovuto rivoluzionare tutto: i capitali accorsero in quantità spropositata, ma non esistevano modelli di business sostenibili. Le aspettative messianiche e i conti concreti andavano in direzione opposta, e la bolla esplose! “Un recente studio condotto da ricercatori del Massachusetts Institute of Technology”, sottolinea l’Economist, “conclude che il 95% delle organizzazioni sta ottenendo zero rendimenti dagli investimenti nell’intelligenza artificiale generativa”; “Se Dio non dovesse arrivare”, conclude l’Economist, “la caduta sarà brutale”. In queste condizioni, le brutte notizie non sono permesse: se c’è da andare in ginocchio alla Casa Bianca per strappare un ulteriore deregulation, si farà; l’importante è che Donnie bastoni gli alleati che si azzardano ad aggiungere altre criticità in questa situazione instabile, a partire dall’Unione europea. Donnie ha poche alternative a prestarsi al gioco: uno scoppio della bolla AI, con ogni probabilità, rappresenterebbe la mazzata finale.
La Golden Age promessa da The Donald fa fatica a procedere: come ricorda l’economista Sheremeta Roman su X ((1) Roman Sheremeta 🇺🇸🇺🇦 su X: “The U.S. economy is in real trouble — just look at the latest jobs report. With 300+ million people, the U.S. historically added about 150,000 jobs a month, roughly in line with population growth. 1/n https://t.co/XfbwJLJPS0” / X), infatti, “Con oltre 300 milioni di abitanti, gli Stati Uniti storicamente hanno creato circa 150.000 posti di lavoro al mese, più o meno in linea con la crescita demografica”; “A maggio si sono registrati solo 19.000 nuovi posti di lavoro, il dato più basso da decenni al di fuori della pandemia. Giugno: -13.000, catastrofico. Luglio: 79.000, di nuovo ai minimi storici”. “La risposta? Licenziare il capo dell’Ufficio di Statistica del Lavoro e nominare un sostituto fedele. Non è servito a nulla. Il nuovo capo ha riportato solo +22.000 ad agosto, e ha rivisto al ribasso ulteriormente giugno e luglio. Le perdite maggiori? Il settore manifatturiero, proprio dove i dazi avrebbero dovuto riportare posti di lavoro“. “La scusa? Stiamo costruendo un numero record di fabbriche. Eppure anche l’edilizia è in calo”.
Mi sto rendendo conto che ero partito per bilanciare l’entusiasmo dei giorni scorsi con qualche brutta notizia dal fronte del Nuovo Mondo Multipolare; non ho fatto che approfondire aspetti che sottolineano la crisi USA: bias psicologico? Oppure dove guardi guardi, alla fine, il risultato è sempre quello? Per una sana dose di pessimismo riequilibratore, vi lascio un paio di link che sollevano un po’ di dubbi sulle reali intenzioni “multipolari” dell’India: qui c’è un bell’articolo dell’ex diplomatico indiano Bhadrakumar e qui la notizia del vertice BRICS dove Modi ha deciso di non andare. E se vi è piaciuta questa mega-rassegna, condividete l’articolo a più non posso e aderite alla nostra campagna di sottoscrizione su GoFundMe e su PayPal.
Buona settimana a tutti!