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Prove di quarta sponda

di Augusto Illuminati

Nuova Padania Berlusconi Gheddafi NonleggerloNella purtroppo vana attesa che una brigata internazionale africana venga a liberare il nostro Paese dal sottosviluppo e dalla dittatura di Ubu-papi, il ceto politico italiota sta elaborando il lutto della declinante intesa con Gheddafi e preparando una qualche mossa per tutelare le fonti energetiche e interdire la partenza dei migranti dalle sponde africane. Le probabili esagerazioni sul numero dei morti (stranamente mai mostrati in foto, neppure in zone da giorni ormai liberate) e le sparate allarmistiche sul numero dei migranti (anch’essi finora mai visti approdare) sembrano configurare un viluppo di pretesti con cui giustificare un’operazione “umanitaria”, in stile Haiti, se non Irak o Jugoslavia. Varianti più o meno dure di una shock doctrine, una politica dell’invenzione e gestione dei disastri, secondo la terminologia di Naomi Klein, delega alle ex-potenze coloniali per conto degli Usa, sempre più interessati a riprendere in mano direttamente (Egitto) o indirettamente il Nord Africa, sottraendolo ai cinesi e usandolo per riguadagnare influenza sull’intrattabile Israele. La ricattabilissima Italia di Berlusconi e Frattini sarebbe l’ideale per togliere la castagne dal fuoco, affamata com’è di gas e petrolio, compromessa con il trattato di amicizia, autostrada costiera e bunga bunga...

Senza contare la sua esposizione materiale a un eventuale flusso di immigrazione e la sua esposizione politica al fallimento del cattivismo leghista nei confronti del medesimo: insomma, anche se gli sbarchi non dovessero assumere proporzioni “bibliche”, gli italiani sarebbero perfetti per creare dissidi in Europa, inchiodati come sono a una demagogia di difesa dallo straniero per ragioni elettorali e di pancia. Già adesso litighiamo con la Ue per gestire 6.000 tunisini!

Affondati il Papi e il suo scudiero Frattini nella vergogna del recente ossequio al Colonnello, nel teatrino dei pupi è la volta dei “duri”–il ghignante La Russa (che scambierà l’usuale mimetica con la sahariana dei bei tempi andati) e il torvo Maroni, attento a eventuali ricambi di leadership che la realtà biologica e giudiziaria potrebbero rendere inevitabili. Non trascuriamo il fatto che opzioni interventiste cominciano a riscuotere consensi bi-partisan e che la polemica contro l’istrionismo gheddafi-berlusconiano ha già rivelato (dal Giornale a Repubblica) velenose tonalità razziste e di rimpianto coloniale. E un partito americano sta sempre in agguato dietro le attese di un “ritorno alla normalità” post-berlusconiano.

Con prevedibili difficoltà. In primo luogo la sindrome Somalia, cioè la frammentazione in unità sub-statuali tribali invece che in ringhiose sovranità nazionalistiche pronte a supportare ingerenze straniere. In secondo luogo, l’effettiva presenza di una tradizione profetico-integralista (sunnita) che già diede del filo da torcere al colonialismo italiano (brutto precedente per tentazioni neo-coloniali). In terzo luogo, la vulnerabilità degli apparati di estrazione e trasferimento di gas e petrolio, che rende molto rischioso (soprattutto per l’Europa) un controllo dall’alto del territorio ­–la carta vincente (all’inizio) di altre offensive “umanitarie”. Inoltre, pur essendo quella libica più guerra civile che rivoluzione in stile tunisino o egiziano, come potrebbe risultare tollerabile, nel contesto mediorientale e maghrebino di oggi, un esplicito intervento militare dall’esterno? Ancora: mentre il punto d’appoggio delle operazioni Usa in MO e Balcani erano i “buoni” albanesi o croati o kurdi (ma alla fine si rivelarono essere gli sciiti supportati dall’Iran –una bella fregatura!), nel caso libico i “buoni” nemici di Gheddafi sono proprio la componente cirenaica più anti-occidentale e islamica radicale, difficilmente ormai riconducibile a una soluzione monarchica filo-inglese come negli irripetibili anni ‘40-50 dello scorso secolo. Infine, e dando per scontata l’inesistenza di un’entità europea capace di riflessione strategica e mobilitazione operativa, la cosa più imbarazzante è che l’attuale governo italiano è inadatto ad assumere qualsiasi iniziativa di rilievo –ce lo vedete uno stanziamento per la riconquista di Tripoli quale maxi-emendamento al Milleproroghe? In coincidenza con la semi-festiva celebrazione del Centocinquantenario il 17 marzo? Una buona ragione, invece, per scaricare con calma il problema a un futuro governo nostrano di centro-destra, una volta che le bocce libiche si siano fermate in un caotico equilibrio post-gheddafiano.

Tuttavia, liquidato lo strascico pagliaccesco di un personale diplomatico-affaristico troppo sdraiato sulla carta gheddafiana perdente, resta una tradizione storica che ha visto l’Italia connessa con clan collaborazionisti della Tripolitania e del Fezzan berbero e in perenne antagonismo con le componenti cirenaiche: il Gebel Akhdar fu prima l’orrore poi la tomba del nostro colonialismo di popolamento –la meravigliosa Montagna verde, bucherellata dalle grotte dove le masnade di Graziani affumicarono i resistenti e cosparsa dalle bianche rovine dei villaggi futuristi e delle casette in stile pontino dei nostri sfortunati coloni, mai riutilizzate dai fieri pastori sopravvissuti alle stragi. Né la popolarità degli italiani (cacciati nel 1941-42 dalla Cirenaica, a differenza dalla Tripolitania, dove restarono fino al 1970 e sono poi ritornati da imprenditori e lavoratori) è cresciuta negli ultimi anni, quando nel 2006 la stolida provocazione di Calderoli scatenò l’eccidio davanti al tuttora sbarrato consolato italiano di Benghazi, prima prova della mai domata resistenza locale al centralismo di Tripoli. Il compito italiano potrebbe quindi, in avvenire, limitarsi a inciuci con l’area tripolitana, mentre agli Usa toccherebbe la gestione dei rapporti con la Cirenaica, che detiene due terzi delle risorse petrolifere. Sempre che non rientri in gioco la vera, storica ex-potenza coloniale, una Turchia sempre più “ottomana” e componibile con un islamismo moderato, protettrice degli arabi contro Israele senza eccessi anti-semiti e abbastanza autonoma dagli americani. Non a caso contraria alle sanzioni Onu alla Libia. E qui si riapre il “grande gioco”, mentre la campagna Nato afghana volge alla sconfitta e i venti della rivolta investono l’Irak (questa è la novità del giorno, l’insanguinato giorno della collera a Baghdad e Mosul) e soffiano minacciosi intorno all’Arabia Saudita, dallo Yemen all’Oman. Obama riesce forse a frenare l’avanzata cinese in Africa (dalla Libia se ne sono già andati in 16.000!), ma non l’invadenza di Turchia e Iran sullo scacchiere mediorientale. Che volete allora che servano la baronessa Ashton, il vermiforme Frattini o l’astuto D’Alema di riserva? Una base mediterranea per controllare l’evoluzione egiziana e l’incognita algerina, in analogia al ruolo (insidiato) del Bahrein rispetto al golfo persico, potrebbe allora tentare gli Usa. Sanzioni, embargo e no-fly (e no-sail) zone ne sono tipiche premesse. In questo scenario futuribile un Berlusconi amico scornato di Gheddafi e putin-dipendente riesce sempre meno plausibile fra qui e il 2013. Enrico Letta e De Michelis, intervistati da una Lucia Annunziata contrastante, si sono profusi in sollecitazioni per un intervento americano nel Mediterraneo, constatato il fallimento del progetto euro-mediterraneo di Barcellona. Si rinfrescano i fasti del Kosovo ma i rapporti di forza (sia in Italia che nel Nord Africa) sono e rischiano di restare nel medio periodo indefiniti.

Con molte varianti e diverse mescolanze di violenza e successo (in Tunisia il regime dei complici di Ben Ali continua a uccidere) il processo rivoluzionario va avanti in tutta la sponda meridionale del Mediterraneo e questo rende complicata e controproducente una normalizzazione endogena o eterodiretta. Questo dato è una realtà e induce a favorevoli auspici, contro la logica geopolitica. E sulla sponda nord, affinché il mare nostrum non sia eurocentrato ma, per una volta, possiamo essere buoni allievi invece che maestri presuntuosi? Un dimostrante egiziano ha detto: prima guardavamo la televisione, adesso la televisione guarda noi. E’ un’esperienza che pure noi abbiamo fatto a dicembre 2010 e febbraio 2011, che facciamo ogni volta che, dismessi telecomando e mouse, scendiamo in strada contro la crisi. Dobbiamo insistere, anche nella previsione di peggioramento endemico: Tremonti teme un’impennata inflattiva al 4% da costi energetici per settembre, Draghi ipotizza una contrazione di Pil e occupazione. Non compiacerci di eventi ma avviare processi, instaurare continuità e istituzioni, opporre il tumulto alla governance, forme di potere illegittimo alla sovranità degradata e corrotta.

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