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Intervista su "Potere al Popolo"

Figure intervista Francesca Coin

potere e1517960021272La prima domanda è molto semplice: conosci Potere al popolo?

Non ho seguito direttamente l’iniziativa di Potere al Popolo. Ero all’estero nel momento in cui è stata cancellata l’assemblea del Brancaccio ed è stata indetta l’assemblea fondativa, dunque non ho potuto seguire quest’esperienza se non attraverso terzi (attraverso amici che magari sono coinvolti direttamente, o attraverso i media). L’idea che mi sono fatta, in questo senso, è un’idea indiretta, attraverso la quale penso di aver colto solo alcuni aspetti del percorso da cui il progetto nasce e delle finalità che si pone.

 

La seconda domanda richiede una risposta forse un po’ impressionistica, legata al nome della lista e ai due termini che in esso compaiono. Potere e Popolo infatti sono due termini ormai desueti nel discorso di sinistra. Come valuti la scelta?

Forse questa è la domanda più delicata: il concetto di popolo non solo è desueto ma è anche divisivo, in quest’epoca, forse anzitutto in Italia. Il concetto di popolo nasce dall’identificazione hobbesiana con lo Stato-nazione, e allude a una specie di volontà unica che esiste come riflesso dello stato, “se stato, allora popolo”, diceva Virno commentando Hobbes. Questo “uno”, di fatto, non è mai dato ma esiste nell’immaginario collettivo e oggi esiste ancorpiù come espressione della nostalgia.

Su questo si sono spesi fiumi di parole ed è evidente che il nome di “potere al popolo” è stato esposto a critiche. Soprattutto in quella parte della sinistra che si rifà al pensiero post-operaista, è chiaro che il concetto di popolo, così inseparabile dall’idea di stato, sia stato visto come un anacronismo intriso di residuati nazionalisti. D’altro canto è anche vero che, nell’epoca in cui ci troviamo – l’idea di “Stato” è stata prematuramente data per sconfitta con l’avvento del mercato libero, per nascondere un’epoca in cui, paradossalmente, la stessa soppressione dei confini nasceva dall’esistenza di interessi nazionali. Non potremmo comprendere la globalizzazione senza partire dal nazionalismo economico, è questa l’inversione logica fondamentale, il principio che sta alla base dei trattati di libero commercio e della liberalizzazione dei movimenti di capitali. In questo contesto, il quartetto di libertà che segna l’inizio dell’epoca neoliberale, la libera circolazione di moneta, merci, servizi e lavoro, può essere inteso come conseguenza del tentativo di difendere l’ordine proprietario dal nemico interno, la classe lavoratrice negli anni Settanta, mettendo in competizione i lavoratori attraverso i confini nazionali, e dal nemico esterno, i capitali liberi, opponendo a questi un nuovo nazionalismo economico – quello che Volcker mette in atto negli anni Settanta per difendere la supremazia statunitense attraverso l’aumento dei tassi di interesse. In questo contesto, il nazionalismo economico ha fatto uscire il concetto di stato dalla porta per farlo rientrare dalla finestra. Ha fatto uscire dalla porta lo stato inteso come agente della redistribuzione della ricchezza sociale sulla base dei meccanismi imposti dalla classe lavoratrice nell’epoca fordista e lo ha fatto rientrare dalla finestra come cartina tornasole di una governance economica che ha acuito le diseguaglianze nei paesi e tra i paesi, trasformando l’erosione della spesa sociale e della domanda interna nello strumento stesso attraverso il quale consentire a precisi interessi nazionali di conquistare nuovi sbocchi di mercato. In questo contesto, il superamento dello stato, diciamocelo chiaramente, è stato un abbaglio. Il superamento dello stato che la sinistra auspicava si è dato solo come erosione della spesa sociale e del patto salariale – come violenza di classe, possiamo dire. Non è scomparso lo stato, è stato tagliato il welfare, sono scomparsi i meccanismi di redistribuzione della ricchezza, ma tanto più questi scomparivano quanto più tornavano lo stato repressivo e lo stato di polizia, perfettamente in linea con il discorso neoliberale, e paradossalmente, tanto più questi scomparivano quanto più tornava e torna il popolo, inteso come nostalgia identitaria incaricata di rispondere al brusco risveglio dalle promesse dell’epoca neoliberale. In questo contesto, il concetto di popolo è tutt’altro che dato. Io non amo il concetto di popolo, non penso di averlo mai usato e non penso che lo userò. Detto questo è tempo di fare i conti anche con ciò che non ci piace. Sappiamo bene come le destre abbiano usato la nostalgia economica per proporre un nuovo ordine sociale fondato sulla de-globalizzazione, la restaurazione del nazionalismo e la gerarchia razziale. Ciò non toglie che questo sia stato possibile essenzialmente perché il superamento dello stato agito dall’epoca neoliberale ha significato in buona sostanza l’aumento della povertà e della violenza economica subita dalla classe lavoratrice. In questo contesto, il popolo sarà tanto più evocato come soggetto politico quanto meno saremo in grado di proteggere il corpo sociale dalla violenza economica, dai bassi salari, dal lavoro gratuito, dal lavoro informale, dalla privatizzazione dei servizi, eccetera. Ed è qui che sta il punto, perché laddove la destra dice popolo per evocare uno stato nazione fondato sulla gerarchia razziale, “potere al popolo” evoca questo concetto in un altro senso. Quando sento “potere al popolo” penso che in realtà ciò che si sta dicendo è qualcos’altro – si dice potere al popolo e si intende potere alla classe espropriata, ai lavoratori sfruttati, al corpo sociale stuprato dalla violenza economica. E’ sbagliato? Fatico a crederlo.

 

Credi che il termini popolo, da un certo punto di vista, serva anche a rompere un po’ il “muro mediatico”, sfruttando la fortuna che ha riscosso il termine nella retorica di estrema destra?

Non so se riesca a rompere il muro mediatico, sicuramente tenta di accelerare un processo di ricomposizione sociale. Possiamo essere in disaccordo sul concetto di popolo se lo guardiamo dal punto di vista dello stato nazione, ma il portato delle parole non si esaurisce nel significato che esse hanno acquisito storicamente ma rimanda in molti casi dall’immaginario che su queste viene proiettato. E’ evidente che “potere al popolo” , in questo senso, come espressione si propone, non so se ci riuscirà ma si propone, di accelerare un processo di ricomposizione sociale, di ricomporre un “uno” di classe che consenta di tenere insieme un tessuto sociale lacerato. Popolo in ultima analisi è in questa fase un significante per un qualche cosa che non esiste ma che viene evocato strategicamente nella speranza che questo consenta di accelerare la nascita del soggetto necessario per difendersi dalla violenza economica esistente e sferrare una controffensiva – partirei da qui per discutere l’espressione “potere al popolo”, partirei cioè dal bisogno percepito di rovesciare il rapporto di forze perché questa mi sembra una modalità di discussione più costruttiva e meno pretestuosa.

 

Torniamo alla Grecia del 2015. Secondo te, come dovrebbe considerare la questione del potere una sinistra che negli ultimi anni ha avuto sotto gli occhi quanto accaduto nel 2015?

Io sono tra coloro che soffriva di più la contrapposizione che si è venuta a creare nel 2015 tra pro e no Euro.  Potrei anche dire che ero in disaccordo con entrambi. Il punto fondamentale è cosa esiste nelle premesse dell’unione monetaria attuale. Anche in Italia – basti pensare agli scritti di Guido Carli – l’unione monetaria nasce per la necessità di usare i cambi fissi per placare le lotte degli anni Settanta; per avere, in poche parole, uno strumento di guerra contro la capacità di rivendicare salari più alti, diritti per il lavoro e di mettere in crisi il potere dell’ordine proprietario. Cambi fissi quindi come strumento di moderazione salariale, come agenda di sfruttamento che si fa necessità ineluttabile. In questo senso, se pensiamo alla costruzione dell’unione monetaria come a una forma di violenza dall’alto che ha trovato consenzienti esecutori gli ordini proprietari dei principali paesi europei, allora a quel punto uscire o rimanere dentro l’Unione monetaria diventa una questione secondaria. La questione principale diventa il rapporto di forze da cui dipende la violenza subita dai precari e dalle precarie di tutti i paesi europei. Tutto questo non può essere ridotto a una visione filo o anti-europeista, entrambe sono miopi a mio avviso. Nell’epoca neoliberale anche la mobilità della forza lavoro è stata funzionale a compensare gli squilibri derivanti dalla libera circolazione dei capitali, intendo dire che l’unione monetaria non ha rappresentato mai un progetto di integrazione delle popolazioni ma è sempre stata funzionale alle esigenze dei capitali e dell’ordine proprietario. Stanti le cose, la complessità della situazione attuale non può essere liquidata in modo semplice. La risoluzione della questione europea potrà avvenire solamente nel momento in cui il rapporto di forza si rovescia: solo in quel momento avremo la possibilità di cambiare le condizioni a partire dalle quali le scelte ci sono date.  Dato che questa condizione non è data al momento, il punto diventa cosa fare per limitare la sofferenza inflitta alla popolazione. Bisognerebbe tornare a leggere Polanyi, oggi. L’uscita dai cambi fissi è sempre dipesa dal fatto che la popolazione a un certo punto non accetta più di essere usata come vittima sacrificale della stabilità monetaria. Giunge il momento in cui i tagli alle pensioni e la perdita dei posti di lavoro trasforma i cambi fissi nell’incarnazione stessa del nemico di cui liberarsi ad ogni costo. In questo contesto, la cosa peggiore che si può fare di fronte a questa sofferenza è liquidarla nel nome di alcuna visione ideologica di unità sovranazionale. Questo è l’errore che fa la sinistra radicale in diversi casi. La paura delle destre come movente di protezione dell’esistente è già un’ammissione di sconfitta e chi usa lo spauracchio delle destre per legittimare l’accettazione di nuovi sacrifici e sofferenza, è destinato a essere il principale sabotatore di se stesso. La preclusione ideologica rispetto all’uscita dall’unione monetaria è, mi vien da dire, paradossalmente, il peggior nemico dei più convinti europeisti, perché l’impressione, non sto dicendo il dato di fatto sto dicendo l’impressione, è che questi siano disposti ad anteporre la paura del populismo alla sofferenza del corpo sociale, ponendosi, rispetto a questa, in un punto d’osservazione esterno. Il dato di fatto è che non c’è una soluzione bella e pronta, alla situazione in cui siamo, né c’è mai stata storicamente, in casi come questo, perché il rapporto di forze è a noi avverso, e paradossalmente le destre trionfano precisamente perché sembrano in grado di offrire una via d’uscita rispetto alla percezione diffusa di debolezza. Non sto dicendo che sia un bene, ovviamente, sto dicendo che non si esce dai problemi nascondendo la testa sotto la sabbia, e la sinistra radicale in questi anni, spiace dirlo, ma ha fatto predominantemente questo, nascondere la testa sotto la sabbia, difendendosi dietro a posizioni morali che non solo non risolvono il problema ma non fanno che esacerbarlo. In questo senso dico, non vi è soluzione che sia data e bisogna avere l’umiltà di considerare gli scenari possibili e di discutere senza preclusioni anzitutto con coloro che più vivono la situazione attuale come qualche cosa di assolutamente insostenibile.

 

Quali dovrebbero essere i gradi di continuità e di discontinuità che Potere al popolo dovrebbe proporsi rispetto alle esperienze politiche della sinistra comunista e non della seconda Repubblica? Che cosa dovrebbe marcare la sua differenza?

Non posso che augurare discontinuità, sia per il fatto che alle nostre spalle ci sono stati un certo numero di fallimenti, ma anche perché auspico un cambio di fase. Qualcuno pensa che in questa “ripresina” ci sia ancora qualcosa da sperare o qualche cosa da salvare, ma io penso di no. In questo senso, a differenza delle forze precedenti che nascevano con una certa volontà o possibilità di negoziazione, Potere al popolo si propone come forza di rottura. Ancora una volta il punto non è se vi siano le condizioni o meno per una reale rottura, ma il fatto che il desiderio di rottura esiste come cartina tornasole dell’esistenza percepita della necessità di segnare una discontinuità rispetto al passato.

 

Affinché queste differenze e elementi di discontinuità rispetto alle esperienze passate possano mantenersi in maniera costruttiva anche dopo il 4 marzo, quali sono secondo te i possibili errori da evitare dopo il 4 marzo?

Leggevo oggi una dichiarazione a riguardo, fatta da attivisti di Potere al popolo: «ci chiedono che campagna faremo, ma noi non facciamo niente di diverso da ciò che facevamo prima», dicevano. Quindi, idealmente, anche dopo il 4 marzo non dovrebbe cambiare niente. Parliamo di un lavoro che è molto radicato nel tessuto sociale, nelle problematiche e nei bisogni della popolazione, nella necessità di dare voce e dare risposte in modo politico. In questo senso più ancora dell’esito elettorale mi sembra importante che questa agenda continui e possa consolidarsi nei territori.

 

Un’ultima domanda: che rapporto dovrebbe esserci tra un progetto come Potere al popolo e gli intellettuali? Ha senso parlare di intellettuali oggi, in relazione a un progetto politico?

Secondo me non ha molto senso parlare di intellettuali oggi, nel senso che negli ultimi trent’anni buona parte di coloro che si sono definiti intellettuali si sono posti come strumento esplicito dell’ordine proprietario e, in ultima analisi, del potere economico. Le accademie, per esempio, sono piene di economisti mainstream piuttosto che di sostenitori di posizioni critiche o eterodosse, nonostante la crisi del 2007/8, il che rimanda a un certo tipo di intellettuale essenzialmente integrato nel pensiero dominante. Più che di intellettuali, parlerei di intellettualità diffusa, cioè di una generazione – quella odierna – che è la più istruita della storia. Quindi la figura dell’intellettuale di per sé, inteso come maschio bianco – perché questa è stata la figura classica dell’intellettuale del Novecento – non mi piace granché. Nel contempo mi rendo conto che servono saperi molto specifici, per uscire dal casino in cui siamo, sul piano giuridico, sul piano economico, sul piano dell’inchiesta sociale, per citarne alcuni. In questo senso non vedo necessaria una figura intellettuale di spicco; nel contempo penso servano competenze, e soprattutto la capacità di mescolare competenze anche molto tecniche con una buona dose di coraggio e sensibilità sociale.


[Francesca Coin, sociologa, ha affrontato con studi e inchieste temi che ce la fanno sentire vicina: lavoro, movimenti in Italia e all’estero, migrazioni, conoscenza e università. E’ ricercatrice all’università Ca’ Foscari di Venezia. La ringraziamo per aver partecipato alla nostra inchiesta]

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