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liberazione

Senza conflitto dalla crisi si esce a destra

di Emiliano Brancaccio

Da un secolo e mezzo ad oggi, questa è la prima crisi del capitalismo che esplode nel pressoché totale silenzio politico del lavoro e nell’assenza del conflitto di classe di cui un tempo le organizzazioni operaie si facevano portatrici. Nelle epoche passate lo scontro di classe suscitato dal movimento operaio agiva profondamente sul corso degli eventi storici, ed interveniva in modo più o meno diretto su quelle fondamentali emergenze rappresentate dalle crisi economiche. Non solo la minaccia sovietica ma la stessa morsa dei fascismi costituivano gli estremi riflessi del protagonismo politico del lavoro e delle istanze di emancipazione di cui esso si faceva portatore, soprattutto nei momenti di crisi. Un fantasma insomma si aggirava davvero per l’Europa e per il mondo. E quel fantasma, soprattutto durante i terremoti economici, aveva molte carte decisive da giocare.

Oggi invece viviamo l’esperienza inedita di una crisi che si dispiega nel silenzio del lavoro e nella conseguente assenza del conflitto di classe. Quali sono allora le implicazioni principali di questa crisi senza conflitto? La prima implicazione è che in mancanza del contrappeso rivendicativo del lavoro lo stato è lasciato in balia degli interessi del capitale, e tende quindi a scimmiottarne anche i comportamenti più destabilizzanti e autodistruttivi. A questo riguardo sappiamo che un’azione razionale dal punto di vista del singolo capitale può risultare disastrosa a livello di sistema.

Durante una crisi ogni impresa cerca ad esempio di ridurre al minimo i costi, e quindi abbatte i salari e licenzia. Per la singola azienda ciò naturalmente ha senso ma così facendo le imprese nel loro complesso deprimono la spesa dei lavoratori ed aggravano il crollo della domanda e dei ricavi. A lungo andare il sistema si avvita su sé stesso e può implodere. Grazie anche al pungolo del conflitto di classe, in passato gli apparati statali proteggevano il capitale non solo dai nemici esterni ma anche da queste sue stesse dinamiche interne. Lo stato cercava cioè di agire secondo quella logica d’insieme che sfuggiva ai singoli capitali ma che guarda caso si rendeva indispensabile per garantire la loro continua riproduzione. Oggi invece i singoli stati si muovono in modo più che mai simbiotico con gli interessi capitalistici che più o meno direttamente rappresentano. Ma così facendo tendono pure a replicare i caotici meccanismi interni al processo capitalistico. Dai sussidi a banche e imprese senza alcun coordinamento internazionale, all’insistenza sulla deflazione competitiva dei salari, alla continua tentazione di svalutare, questi esempi mostrano che le singole nazioni stanno riproducendo su larga scala i comportamenti scoordinati dei singoli capitali: esse infatti cercano di esportare la recessione fuori dai propri confini, ma questo provoca solo un aggravamento planetario della crisi. Naturalmente non è la prima volta che ciò si verifica, né certo si può dire che il movimento operaio abbia sempre avuto quella visione totale dei fenomeni che spesso è mancata ai governi. Il fatto però che oggi tutto avvenga a una velocità senza precedenti trova una plausibile spiegazione nella totale assenza della voce del lavoro nelle decisioni politiche delle nazioni.

La seconda implicazione di questa crisi senza conflitto è che il liberismo è stato messo sotto accusa per così dire solo dalla cintola in su. Da un lato, nessuno sembra scandalizzarsi del fatto che pezzi fondamentali del capitale finanziario e industriale stiano passando da mani private a mani pubbliche. Dall’altro lato, però, non c’è stato fino ad oggi il minimo ripensamento rispetto alla totale soggezione alle leggi del mercato nella quale versa la gran parte dei lavoratori subordinati. Possiamo definirlo un liberismo asimmetrico, che al limite potrebbe condurci al paradosso di un capitale in gran parte nelle mani dello Stato e di un quadro di tutele normative e contrattuali del lavoro che invece rimane del tutto evanescente. Siamo insomma di fronte alla prospettiva di un nuovo regime, definibile di “statalismo liberista”? L’orizzonte suscita non poche inquietudini.

Si pone a questo punto un interrogativo: il silenzio del lavoro, e la conseguente latitanza del conflitto sociale, sono in questa fase storica da ritenersi dati strutturali inevitabili? Una risposta affermativa è indubbiamente la più agevole. Tuttavia vorrei invitare il lettore al seguente esperimento mentale. Supponiamo che negli ultimi anni si fosse lavorato intensamente per ricompattare l’organizzazione di classe, a livello sia sindacale che politico, in base alla certezza che nel 2008 sarebbe esplosa la crisi che effettivamente è oggi sotto i nostri occhi. Ebbene, in una ipotetica circostanza del genere, è facile ritenere che i rapporti di forza sarebbero stati molto diversi da quelli odierni. Naturalmente questo è solo un gioco: la storia infatti non può esser costruita col senno di poi, né tantomeno si può avere certezza degli specifici momenti in cui essa si scuote e svolta. Questo gioco mentale tuttavia è molto serio. E’ infatti lecito ritenere che in passato molte energie si siano perdute tra gli eredi del movimento operaio nel discettare di questioni anche importanti ma mai cruciali, ed è soprattutto venuta a mancare la consapevolezza che la potenza del sistema fa sempre il paio con la sua estrema fragilità. Quella consapevolezza perduta è costata carissima. Il tempo saprà dirci se sbagliando davvero si impara.

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