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Sui giovani

di Piergiorgio Giacchè

Anche Stefano Laffi ha fatto un sogno, anzi un incubo, come confessa nella nota introduttiva del suo libro La congiura contro i giovani. Il suo incubo ci riguarda tutti e coglie il lettore – proprio come avviene allo scrittore – in “perfetta e assurda solitudine”. Si è tutti soli dentro un incubo: un tutti che non è mai maggioranza ne può fare comunella come invece capita nei sogni alla veltroni della prima ora o alla renzi della seconda opportunità. Il fatto è che i sogni dal tempo di Disney non c’entrano più con Freud: non rivelano traumi passati né forniscono presagi futuri ma colorano il presente di un rosa che non può morire all’alba, dove sorge immancabile il sol dell’avvenir. Gli incubi invece sono banditi prima ancora che temuti: se proprio ci scappano – come è successo a Laffi – sarebbe meglio non raccontarli nemmeno a se stessi, ché la loro valutazione nel mercato è zero e la politica li scomunica come “critiche non costruttive”. Meglio non disturbare non tanto il manovratore che non c’è, quanto il consum-attore che è l’unico ad avere cittadinanza sociale e identità culturale nell’attuale “società assurda”… Che è poi sempre la stessa che studiavano gli scienziati sociali di decenni fa, quando il consumo era agli albori e la pubblicità sembrava solo “l’anima del commercio” e non ancora “il fascismo della nostra epoca”. E in fondo anche la contesa fra sogno e incubo è la stessa di una volta, ma oggi non vale più schierarsi tra gli apocalittici o gli integrati come si dovesse prendere partito. L’attuale “società di mercato” che descrive Laffi, ovvero il mercato che sostituisce la società, è diventata ormai una totalitaria “democrazia reale”, con tanto di libertà commerciale, uguaglianza elettorale, fraternità aziendale.

Lì dentro ci si sente tutti insieme (se la coop sei tu) oppure ci sentiamo soli (se la conad apre di notte), ma è più un caso che una scelta. C’è chi di giorno ama viversi e vendersi dentro il suo sogno (sia pure da riformare o riformulare all’infinito) e chi, magari di notte, viene assalito dall’incubo di stare nel sogno sbagliato. Ma può anche capitare l’una e l’altra cosa alle stesse persone, così da credere che l’assurdità che vivono sia una questione di stato d’animo e non di stato delle cose; almeno finché qualcuno non si prende la briga di provare a descrivere – per filo e per segno – come stanno appunto “cose” che non vanno, sposando il punto di vista di “anime” che stanno nascendo. E poco crescendo e mai diventando parte effettiva di questa società.

Rovesciando dunque il titolo ma non il tiro del celebre saggio di Paul Goodman, La gioventù assurda, Stefano Laffi ha scritto un incubo in cui la società assurda è la scenografia e la drammaturgia che accoglie e accompagna i giovani in tutti i momenti e ruoli della loro vita, dai neonati ai disoccupati. La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni (Feltrinelli) è un libro da comprare e poi da leggere “a occhi chiusi”, cioè assorbendo e meditando – pagina per pagina – un tema il cui svolgimento da sempre ci avvolge. A occhi aperti quello di Laffi pare un libro scritto di corsa che viene da leggere d’un fiato, ma si sbaglierebbe e non si imparerebbe. Meglio frenare la vista e aprire il cervello, con la fatica e la difficoltà che si deve a un testo che – con aggiornamenti doverosi e approfondimenti preziosi – infine riprende e sviluppa un dramma generazionale lungo almeno sessanta anni; tanto è lunga la storia e la moda dei “giovani d’oggi” che si può giurare che non c’è più un lettore che non lo sia stato a suo tempo e a suo modo. Ma qui Laffi non si diffonde nella storia né si disperde nella moda: parte sociologo e finisce antropologo mantenendo un rigore e un dolore (ma soprattutto un amore) da osservatore partecipante che non limita la profondità né fa sconti alla complessità del tema che si è scelto. Così, “la congiura contro i giovani” e “la crisi degli adulti” sono visualizzate nello sfondo di un dettagliato panorama sociale mentre l’affondo dello sguardo è decisamente culturale. Se poi a prima vista sono i giovani i soggetti privilegiati da questo sguardo, in verità e in gradualità si affermano gli adulti – in carne e ossa e potere – come i veri protagonisti di un “saggio di formazione” che sembra l’anticorpo dei tanti romanzi autobiografici post-giovanili in circolazione (ultimo fra tutti – per aprire una parentesi – quello sul mondo piccolo di Francesco Piccolo, che ci racconta del suo Desiderio di essere come Tutti, cioè di come per esempio è diventato comunista guardando una partita di pallone… e purtroppo eccetera eccetera per pagine e pagine dove la prima persona dell’autore non cessa di parlarsi e di portarsi addosso tutta la storia del nuovo conformismo all’italiana). Chiusa parentesi, c’è da dire che anche il libro di Laffi è autobiografico ma in tutt’altro modo, portandoci passo passo dentro le sue esperienze e incontri e letture e riflessioni di ricercatore attivo e aperto: di quelli cioè che non si ritirano in filosofia ma continuano “in seconda persona” a guardare alla storia degli altri, proprio per sospendere e poi sorprendere il proprio io. Perché poi sono gli Altri i Tutti ai quali non si può non appartenere; e gli altri più importanti e costanti – ci insegna Laffi – sono i prossimi in tutti i sensi, anche in quello del di là da venire: i bambini e i ragazzi e i giovani che ci circondano, anzi i figli che ci succedono. Certo, l’alterità filiale cioè dei “nostri ragazzi” è difficile da vedere e rispettare, a differenza delle più vistose alterità esotiche ed etniche e sociali che dettano la misura e la paura della “normale” diversità. Ma, se si è arrivati a fingere di comprendere la differenza di genere ancora in cerca di parità, non si può non vedere che quella generazionale soffre di un mancato riconoscimento di dignità o appena di verità: una mancanza sulla quale da tempo aumentano le speculazioni invece di far avanzare le riflessioni. E le speculazioni degli esperti saccenti – come avvertiva Illich – sono peggiori delle distrazioni degli ignoranti colpevoli, tutti insieme comunque associati in una congiura contro i giovani che alterna e più spesso combina l’assedio e l’esilio. Un assedio che li isola e un esilio che li accumuna, un abbraccio impietoso e un’emarginazione compassionevole: ossimori teorizzati e praticati in buona malafede.

Il libro di Stefano Laffi è invece un cosciente e sapiente atto riflessivo e non è il primo. Dopo Il furto. La mercificazione dell’età giovanile (L’ancora del mediterraneo, 2000), che andrebbe riletto come una premessa, è la seconda volta che ci offre l’occasione per liberare la questione giovanile dalla chiacchiera e rimetterla in discussione. Stavolta l’ampiezza del piano da osservare o l’altezza del monte da scalare gli impone di ripercorrere, con immaginazione sociologica, tutte le stazioni della passione dei giovani, dallo statu nascenti allo status mancante; e però il libro o l’incubo di Laffi filma il tutto ponendo in primo piano non la loro croce ma la turba degli adulti che, al solito, pensano una cosa ne dicono un’altra e infine “non sanno quello che fanno”.

Si comincia male e si finisce peggio. Niente di nuovo sotto il sole? Niente, salvo il fatto che il sole non si vede più. Una volta la natività era venire alla luce e sorprendere un presepe che si svegliava ogni volta stupefatto dallo stesso miracolo. Adesso il presepe è cambiato ma soprattutto è prefabbricato da adulti assuefatti all’attesa e insensibili a ogni sorpresa. Fingeranno ogni volta che il loro bambino sia il re dei re, ma non certo un messia: non gli sarà mai dato modo di portare al mondo la sua luce o la sua voce, per tutti i 33 anni (o 43 o…) di vita giovanile: da quando viene al buio, nel chiuso e nel caldo dell’utero sociale che lo assedia, a quando sconta il suo perenne esilio “da esperienze, opportunità e occasioni di vita attiva”. Ma infine il suo percorso infantile e adolescenziale e giovanile è solo la pista o addirittura la scusa per la lunga marcia che Stefano Laffi compie attraverso le istituzioni e le situazioni che compongono o subiscono la attuale Mutazione. C’era una volta la Società dei consumi, desiderata o temuta da tutti i giovani d’oggi di ieri e dagli adulti dell’altro ieri: a favore o contro che si fosse, poteva ancora essere vista e vissuta “in divenire”. Adesso la sua estensione e sedimentazione è terminata e ha l’aria di essere terminale: si parla appunto di “mutazione” proprio per indicare un nuovo anno zero o anno tutto, a partire dal quale si sta tutti sotto e tutti fermi. Certo i consumi aumentano e variano dando l’apparenza di una trasformazione incessante; certo succedono molte cose nuove e nuovissime sul piano dell’economia e del commercio e della tecnologia e della sovrumana possibilità, ma nessuno in verità le conosce o le controlla. Esclusi dal sapere e dal potere, le energie vanno spese nell’inseguimento e l’obiettivo diventa l’adattamento. La mutazione è il contrario del cambiamento: è il suo participio passato. La mutazione, che si dice non a caso “antropologica”, non è per l’uomo nemmeno un destino ma un imperativo.

Se questo sistema fosse perfetto – dice Laffi quasi in chiusura – ci si potrebbe dare ragione dei sacrifici e sopportare “la dipendenza come condizione generalizzata e cronica”. Ma appunto qualcosa di antropologico e molto di ecologico e infine quel poco di virtuoso che c’era nell’ideologico, ci avvertono del disagio e poi del pericolo e quindi dell’amoralità di una società che guadagna funzioni mentre perde senso. Ed è il disagio dei giovani quello che ci permette di leggere meglio la mutazione: non è vero che nascerci dentro sia un vantaggio, ma al contrario significa adeguarsi a stento pagando il prezzo più alto o annegarci dentro come pesci che non sanno ancora nuotare. Al contrario di quello di cui ci si illude – e di cui si vantano i movimenti del “largo ai giovani” – i “nuovi nati” e “mai diventati” sono i più lontani dallo stato di cose presenti, prima ancora di quelle future. Ha avuto ragione Laffi a scriverci su “un saggio di formazione per adulti”: è la crescita negata e la carriera stroncata dei giovani deuteragonisti del suo incubo a farci scoprire – una per una e tutte in una volta – le aporie e le ipocrisie e le impotenze e le devianze della “società di mercato”. E poi della famiglia e della scuola e della politica che i protagonisti adulti – per così dire – “governano”.

Non si può fare un torto all’autore e un danno al lettore riassumendo in breve il lungo e accurato racconto degli atti e dei fatti che concorrono alla Congiura contro i giovani e che evidenziano la Crisi degli adulti. Un libro come quello di Laffi davvero si legge da soli: non per dire ciascuno la propria ma per ascoltare in silenzio la sua, e fare i conti “in coscienza” con la densità di un ragionamento e la precisione di un’analisi che non dà scampo. A volte e per molte pagine ci si sente d’accordo al duecento per cento, come quando conoscenze già acquisite ci appaiono finalmente chiare e tangibili. Altre volte e altre pagine aprono argomenti nuovi che non allargano il campo ma ne scavano le miniere, con rigorosa e perfino fastidiosa crudeltà: soprattutto quando il libro riattraversa ambiti e problemi che davamo per archiviati o che volevamo dimenticare…

Così avviene, ad esempio, nella parte dedicata a L’incontro dei ragazzi e degli adulti nella scuola, il luogo della possibilità tradita e dell’utopia troppe volte fallita. In quel luogo e capitolo – se si è stati studenti e poi insegnanti – ci si ritrova lettori sdoppiati che ricordano e recitano insieme i due ruoli. Quelle della scuola sono pagine e pareti che conosciamo tutti fin troppo bene, e ci si sente rimescolare insieme da nostalgia e rimorso. In effetti, il mancato cambiamento della scuola è la prova del vero fallimento dei giovani di ieri e degli insegnanti di oggi, ma è anche vero che Stefano Laffi pare compiacersi nell’arretrare fra i vecchi banchi e nel resuscitare antichi maestri – magari per denunciare le tante “novità di facciata” con cui la fanteria leggera degli insegnanti d’assalto ha confuso o nascosto le rare e disobbedienti “innovazioni di sostanza”, pure possibili.

Avverto solo un disaccordo per così dire musicale sulla scuola – ed è l’unica critica che mi sento di fare – a proposito delle sue opportunità e perfino delle sue responsabilità. Infine proprio la lettura dell’intero libro di Laffi, fa pensare a una mala educazione che ha radici profonde e rami troppo alti perché una scuola qualunque o una scuola comunque ci arrivi. Semmai qualche maestro che fa scuola da fuori classe, o qualche professoressa che ha davvero letto e capito la “lettera” famosa, ma certo non si può immaginare che la scuola di massa o la massa di scuole si faccia carico di qualcosa di più dell’intrattenimento o qualcosa di meglio del corrente imbonimento. Povera cara estinta, si può piangere o ridere sulle riforme fatte ma non più chiedere o credere alle riforme da fare. Renzi, per citare l’ultimo (e non il primo) che ahimè vuol mettere la scuola al centro del suo governo, comincerà con la “messa in sicurezza” di quelle aule che Laffi detesta, ma la paura è che si spinga più in là, dentro il metodo e il programma, come da anni fanno tutti i ministri e le minestre che si sono succedute. Meglio le “scuole chiuse” come i casini di una volta – mi viene da bestemmiare – che fermino il libero mercato della donazione di organi e di corpi giovani o almeno lo rendano legale e statale, prima che arrivino gli Amici di Maria o il loro Grande Fratello, che solo quest’anno ha selezionato 35mila candidati! Quasi lo stesso numero dei grillini in rete…  

Tornando seri, torna anche l’accordo con il libro di Stefano Laffi che appunto è più serio e non scende nella volgarità di questi esempi, perché infine non è la denuncia quella che gli interessa ma la complessità e l’assurdità di un reato, che si compie ai danni dei giovani ma che riguarda l’educazione di tutti, e infine, senza esagerare, l’ecologia della mente. Bene, anzi male: su tutte le istituzioni e le situazioni incombe un effetto ovvero un corollario della mutazione, che prevede non ci sia più educazione al pensiero, all’azione, alla parola. Nessun bambino e poi ragazzo e poi giovane viene più allenato al respiro del pensiero, al ciclo dell’azione, al parto e alla circolazione della parola. Un pensare in vita e in autonomia, che rispetti i due tempi di inspirazione meditata ed espirazione profonda, saprebbe opporsi all’acquisto e al consumo delle opinioni; un’azione che si completi e dunque ci completi diventerebbe esperienza invece di fermarsi a un’espressione, spesso senza intenzione; una parola che ci faccia nascere – “altrimenti”, avverte Laffi, “si è esclusi dalla comunità” – e poi si moltiplichi e ci renda ricchi e capaci di volare oralmente nei suoni di molte lingue, ma anche – aggiunge Laffi – di planare nei segni di una scrittura che delle parole raddoppia l’efficacia e ammette la responsabilità… Tutto questo e forse solo questo manca all’educazione, sia dei giovani mutanti che degli adulti mutati: e non si dica stavolta che “mancano le basi”, perché pensiero, esperienza e comunicazione (anzi comunione della parola) sono i vertici verso cui ogni percorso educativo dovrebbe educarsi, pardon elevarsi (un antico smarrito sinonimo).

Mi accorgo – da lettore – di peccare di eccessiva confusione e di azzardare una scorretta identificazione con i giovani contro i quali mi riconosco “congiurato”. Deve essere capitato anche all’autore, che alla fine indirettamente ammette che “questo è un libro per vecchi”, ovvero che gli incubi dei padri non devono ricadere sui figli:

“Per fortuna al riparo da libri come questo, senza addosso il peso dell’ingiustizia e della congiura ma forse con la consapevolezza dell’assurdo in cui sono nati, i giovani si sono mossi, come potevano. Si sono impadroniti dei nuovi alfabeti e dei nuovi oggetti, mentre gli adulti si chiedono ancora come si fa ad accenderli. Hanno usato web e smartphone per stare sempre insieme, mentre i genitori dibattevano sugli orari di rientro a casa, hanno creato il loro flusso di notizie non potendo contare sui giornali, hanno creato la loro musica per ritrovare la rabbia e la poesia che consente di resistere e crescere…” E ancora Laffi elenca lo stare in gruppo e le occupazioni di scuole e la liberazione dei terreni dalla mafia e l’invenzione di nuovi lavori e infine la partenza ”quando qui non c’era più niente da fare o da vedere, a malincuore”.


Sono queste le ultime note e pagine del libro, quelle che mi rimettono al mio posto di vecchio giovane d’oggi. Sono queste peraltro le note e le pagine in cui l’autore cerca legittimamente di uscire dall’incubo, inventandosi perfino a tutti i costi una luce in fondo al tunnel. Quella luce la riconosco: si tratta di una analisi e di una proposta di Margaret Mead, circa la possibilità anzi la necessità di una cultura e una società da “prefigurare”, diversa e divisa dal tempo e dal mondo che la precede: necessaria quando “il cambiamento è radicale” e di esclusiva competenza della “generazione più giovane”, che è la sola che può inventarsi un nuovo presente. Molto meglio del solito lagno e rinvio al futuro.

Non dissento su nulla. Ha ancora e sempre ragione Laffi a richiamare gli adulti alla apertura se non proprio alla speranza. E però un brivido senile mi prende e devo in tutta franchezza confessarlo all’autore, e agli altri lettori. La Mead parlava a noi giovani di ieri, della nostra epoca e del nostro dovere e potere di prefigurazione. Non so dire se ci abbiamo provato con il dovuto rigore o con tutto l’amore che pure ci animava, ma Laffi sa bene e ha scritto chiaramente come è finita.

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