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losguardo

Il mondo deve cambiare

Storia e rivoluzione in Eric J. Hobsbawm

di Gabriele Vissio

7 Mafai Il lavoro storiografico di Eric J. Hobsbawm rappresenta ancora oggi un punto di riferimento obbligato per lo storico dell’età contemporanea e, più in generale, per chiunque sia interessato a comprendere le grandi trasformazioni della contemporaneità tra Otto e Novecento. Se è vero che le sue opere appaiono ormai datate, la sua periodizzazione dell’età contemporanea, suddivisa in un Lungo Ottocento e in un ‘breve’ Novecento,2 mantiene un indiscutibile fascino e costituisce, nonostante tutto, uno straordinario affresco della storia degli ultimi due secoli.

Proprio a partire da questa periodizzazione possiamo rilevare l’importanza che Hobsbawm attribuisce agli eventi rivoluzionari, che segnano e organizzano l’intero movimento della storia contemporanea. È la duplice rivoluzione industriale e politica che segna l’inizio dell’Ottocento borghese; è la rivoluzione del 1848, con il proprio fallimento, a marcare l’inizio del trionfo della borghesia che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo, e che darà forma a quel sistema-mondo imperiale che condurrà alla Guerra del 1914 e alla rivoluzione del 1917, dando così avvio al nuovo secolo. E in particolare il Novecento sarà il «secolo delle rivoluzioni», non solo perché le donne e gli uomini di quel periodo assistettero al maggior numero di eventi rivoluzionari di quanto non fosse mai accaduto prima, ma anche perché la storia del Secolo breve coincide di fatto con la storia dell’Unione Sovietica, lo stato nato dalla rivoluzione.

Sarebbe riduttivo credere che la rivoluzione costituisca per Hobsbawm l’elemento chiave nella periodizzazione della storia contemporanea solo in ragione di una comodità storiografica o di una fortuita coincidenza di date.

Attraverso la sua opera, infatti, egli ha ricostruito una specifica idea di rivoluzione, che incorpora, nel suo significato storiografico, anche un importante senso filosofico. Questo saggio intende ricostruire questo senso filosofico implicito, individuando, a partire dall’uso che Hobsbawm fa del concetto di rivoluzione, gli elementi di una filosofia della storia. L’operazione potrebbe essere considerata problematica, se non addirittura illegittima, perché consiste nel cercare nell’opera di uno storico ‘di professione’ gli elementi di una filosofia della storia. È infatti convinzione comune, almeno tra i non specialisti, che lo storico debba raccontare le cose «come sono andate davvero», evitando d’introdurre all’interno della propria narrazione convinzioni ideologiche e filosofiche di fondo che ne vizino il lavoro. Come ha sostenuto Braudel, lo storico deve innanzitutto spiegare3 e non giudicare, cercando nel passato la condanna o l’assoluzione del presente; eppure, allo stesso tempo, non possiamo credere, senza cadere in un ingenuo positivismo, che lo storico non introduca nella propria opera non solo una certa visione del proprio presente, ma anche convinzioni più generali sulla natura della storia e sul suo senso complessivo.

All’interno del saggio, le prime due parti sono dedicate a una ricostruzione dell’uso della nozione di rivoluzione in Hobsbawm: da un lato, la duplice rivoluzione alle origini dell’Ottocento e di tutta l’epoca contemporanea e, dall’altro, la rivoluzione del 1917, i cui effetti determinano l’intero corso del Novecento. Lo scopo di queste due sezioni non è tanto quello di discutere la pertinenza delle tesi storiografiche di Hobsbawm, che andrebbero ridiscusse alla luce di studi specialistici più recenti, quanto, invece, di evidenziare, all’interno della sua ricostruzione della contemporaneità, il ruolo rivestito dagli eventi rivoluzionari e la complessa dialettica che essi generano all’interno della storia. Compito della terza parte sarà di utilizzare gli elementi evidenziati nelle prime due sezioni, per tratteggiare i contorni di una filosofia della storia e del mutamento storico, mediante l’introduzione della nozione filosofica di «controfattuale».

 

1. La duplice rivoluzione. La struttura dialettica del XIX secolo

L’età contemporanea si apre, secondo Hobsbawm, con una duplice rivoluzione, che è, da un lato, economico-industriale e, dall’altro, politica. Questa duplice rivoluzione costituisce una frattura storiografica il cui significato supera quello di qualsiasi evento rivoluzionario successivo, almeno nella misura in cui la sua influenza rimane centrale ancora oggi per un’incredibile varietà di campi della vita umana.4 Il valore periodizzante della duplice rivoluzione, che Hobsbawm non esita a paragonare alla trasformazione neolitica,5 è tale per cui essa si colloca all’inizio di un secolo, ma anche di una nuova età, diversa da quella moderna e dalla quale non possiamo dirci ancora pienamente usciti, nemmeno dopo la fine del Novecento e i turbolenti inizi del xxi secolo6.

1.1. La Rivoluzione Industriale

La prima parte di questa grande trasformazione, la Rivoluzione Industriale (di qui in poi ri), non può essere raccontata come storia di figure eroiche o protagonisti ‘ingombranti’ come quelle, nel caso del 1789, di Luigi xvi, Maria Antonietta, Robespierre, de Saint-Just o Danton. Essa si presenta, piuttosto, nella forma dell’«impersonale movimento della storia, dal quale scaturirono gli uomini e i fatti più salienti»7. Si tratta di un intreccio di processi di trasformazione tecnica, economica, demografica e sociale, apparentemente inestricabili, i cui contorni sono estremamente imprecisi. Infatti, non tutti i segni di espansione produttiva e industriale del xviii secolo fanno parte della ri propriamente detta. Molte attività godettero, per esempio, di una certa espansione all’epoca della ri, ma in funzione di un mercato che già esisteva e non furono perciò correlate a quell’impennata degli indici di produzione che caratterizzò l’industria cotoniera inglese. Per Hobsbawm, infatti, la caratteristica rivoluzionaria della ri fu data dallo straordinario aumento di tutti gli indici economici in un lasso di tempo relativamente definito: ciò che apparì rivoluzionario agli uomini che vi assistettero non fu tanto l’espansione economica in sé, quanto la costanza e l’apparente assenza di limiti che essa prometteva di avere8.

D’altro canto la stessa nozione di ri dovette aspettare qualche tempo prima di vedere la luce ed essere presa seriamente in considerazione. Fece la sua comparsa, infatti, probabilmente intorno agli anni Venti del xix secolo, nel contesto delle discussioni socialiste dell’epoca e, secondo Hobsbawm, trovò un primo utilizzo sistematico solo all’interno de La situazione della classe operaia in Inghilterra (1844) di Friedrich Engels9. L’analisi di Engels rappresenta un momento importante nella comprensione di questo fenomeno, descritto in termini di una polarizzazione sociale, prodotta attraverso una dialettica tra due nuove classi: borghesia e proletariato.

Da un punto di vista sociale – dice Hobsbawm – Engels vede le trasformazioni generate dalla rivoluzione industriale come un gigantesco processo di concentrazione e polarizzazione, la cui tendenza è di creare, in una società sempre più urbanizzata, un proletariato in crescita e una borghesia sempre più ristretta, formata da capitalisti sempre più grossi10.

Poiché l’industrialismo capitalistico, nella sua avanzata, ha come effetto l’eliminazione di quello strato sociale intermedio formato da piccoli produttori, artigiani e piccola borghesia, i membri di questo strato ricadono, presto o tardi, nel proletariato stesso, allargandone le fila e contribuendo a strutturarlo come classe. Il proletariato perde il ruolo di strato transitorio, preliminare all’ingresso nella classe media, e diventa condizione permanente, assumendo i contorni di una vera classe sociale11. Questo processo, che Engels descrive nel 1844, è ripreso anche da Hobsbawm, che difende il valore storiografico della Situazione12, di cui condivide, almeno nei punti che abbiamo riassunto, le conclusioni generali13.

L’esito della ri fu quindi quello di innescare una rivoluzione sociale14, che produsse la partizione tra borghesia e proletariato. Questa partizione non poteva più essere compresa all’interno del regime sociale in vigore nel secolo precedente e annunciava le trasformazioni radicali del periodo a venire. È nella ri, che si produssero «miseria e malcontento, due fattori determinanti per le rivoluzioni»15, che non toccarono solo la classe operaia: «modesti uomini d’affari, piccoli borghesi e altri settori particolari dell’economia», infatti «erano anch’essi vittime della rivoluzione industriale e delle sue ramificazioni»16. Alla fine, «essi [operai e piccola borghesia] si unirono nei movimenti di massa che vanno sotto il nome di “radicalismo”, “democrazia” o “repubblicanesimo”»17 e la ri ebbe per effetto quello di porre le basi per le rivoluzioni politiche. Se è discutibile l’associazione della ri con la rivoluzione del 178918, vista la differenza tra la classe industriale inglese e quella che guidò l’Ottantanove, resta vero che i movimenti sociali ottocenteschi furono conseguenza della ri, che rese possibile un’epoca in cui i mutamenti rivoluzionari «divennero la norma»19.

1.1. La Rivoluzione Francese

L’altra grande metà della duplice rivoluzione, quella politica, presenta meno problemi a livello di periodizzazione e costituisce, anzi, il modello storiografico di ogni rivoluzione. Si tratta di una serie di eventi ben delimitati nel tempo e nello spazio, riassumibili in una cronologia puntuale, all’interno di riferimenti geografici precisi. Nondimeno, anche la Rivoluzione Francese (di qui in poi rf), nata come rivoluzione ‘nazionale’, assumerà dal 1792, con l’inizio della cosiddetta «rivoluzione di guerra», un significato europeo e globale20. Da allora l’idea che le donne e gli uomini europei avranno della rivoluzione cambierà e si radicherà in loro la convinzione che l’evento rivoluzionario possa avere una portata totale e internazionale. Così, la rivoluzione del 1789, sebbene connotata in senso territoriale dall’aggettivo «francese», è la prima di una grande serie di rivoluzioni europee e mondiali, e forse proprio in questa sua capacità di contagio sta la ragione della fortuna del suo mito, almeno fino al 1917. Tuttavia, sebbene gli eventi della rf siano riconducibili a una precisa cronologia, Hobsbawm non la considera una mera sequenza di eventi, ma vi riconosce all’interno una precisa dialettica, da cui emergono le due figure politiche dominanti del xix secolo: la massa popolare e la borghesia.

La massa era già presente all’inizio della rf, sin dalla convocazione degli Stati Generali, quando ci si accorse che «un popolo in rivolta stava alle spalle dei deputati del terzo stato»21. Dalla presa della Bastiglia, poi, la rivoluzione si propagò alle città di provincia e alla campagna, dando origine alla Grande Peur, che rinforzò tra i ceti controrivoluzionari quella paura delle masse e del loro potere rivoluzionario che, secondo Hobsbawm, era già stata responsabile dell’inizio della rivoluzione22. Queste folle – questi impersonali ammassi di donne e uomini che camminano, marciano e gridano – costituiscono il grande protagonista della rf che, insieme alla borghesia, si contrappone allo schieramento dei conservatori e degli anti-rivoluzionari.

La storia della rf, infatti, non è una dialettica binaria tra borghesia e aristocrazia, ma una dinamica più complessa: ogni volta, dice Hobsbawm, i rivoluzionari muovono il malcontento della massa popolare contro i conservatori e i controrivoluzionari; ogni volta, il popolo si mobilita, arrivando però a superare le rivendicazioni degli stessi rivoluzionari, che si dividono puntualmente tra un’ala destra, che rinforzerà le fila reazionarie, e un’ala sinistra, che proseguirà nel sostenere il popolo, anche nelle sue rivendicazioni più estreme. Questo processo torna a più riprese, accentuandosi a ogni ciclo: i radicali sempre più radicali, i moderati sempre più reazionari. E la massa, forse il più strano dei personaggi di tale dramma, è la posta in gioco di questo doppio movimento verso gli estremi23. Questo processo trasforma la borghesia da classe rivoluzionaria a classe reazionaria, secondo una dialettica che proseguirà finché il grosso dei suoi membri «non sarà passato in quello che d’ora innanzi sarà il campo conservatore, o non sarà stato sconfitto dalla rivoluzione sociale»24. Muore così l’ideale della rivoluzione borghese:

dopo il 1794 i moderati dovevano accorgersi che il regime giacobino aveva spinto la Rivoluzione ben lontano dalla prosperità e dagli ideali borghesi, così come i rivoluzionari dovevano rendersi conto che se il “sole del 1793” avesse dovuto sorgere nuovamente, esso avrebbe dovuto risplendere su una società non borghese25.

Il sessantennio che intercorre tra il 14 luglio 1789 e il 23 febbraio 1848 è la storia di questa trasformazione dialettica della borghesia, che si prepara, neanche troppo lentamente, a vivere il proprio «trionfo». Il processo potrà dirsi concluso quando, all’indomani del 1848, uscirà vincitore dalle elezioni in Francia, patria della rivoluzione, un uomo che rivendicherà nuovamente il titolo di Imperatore:26 con Luigi Napoleone la borghesia scopre infatti di poter essere classe dirigente senza dover essere rivoluzionaria, e che il suffragio universale non implica per forza la distruzione dell’ordine sociale. E da questo momento la rivoluzione non sarà più il sogno della borghesia, ma il suo incubo.

1.3. Un secolo borghese

La dialettica della rfinnescaalloraunadinamicapiùgenerale, intrecciandosi e sovrapponendosi con le trasformazioni economiche e sociali della ri. Da un lato il proletariato, nuova classe «pericolosa»27, riesce, lentamente, a distinguersi dalle masse dei «poveri che lavorano», dei mendicanti, degli artigiani e di tutta la ‘feccia’ che popola l’Europa; d’altro lato, la borghesia scopre di temere la rivoluzione28, cedendo il ruolo di classe rivoluzionaria per assumere quello di classe di governo, capace di esercitare una vera e propria «egemonia»29. In questo periodo il programma della borghesia è «praticamente inattaccabile»30, e lo resterà almeno fino agli anni Settanta: «non v’era alternativa al capitalismo come metodo di sviluppo economico, e nel nostro periodo ciò implicava sia la realizzazione del programma economico e istituzionale della borghesia liberale (con varianti locali), sia la posizione cruciale nello Stato di questa borghesia»31.

Quello successivo al trionfo della borghesia, dal 1875 al 1914, è anche un periodo ambiguo e segnato da miti contrastanti. Da un lato, il diffondersi della mitologia dell’imperialismo incrocia la retorica nazionalistica e la narrazione positivista del progresso; dall’altro, contraddizioni e tensioni sociali appaiono amplificate da un mondo in cui gli eventi locali assumono risonanza globale. La duplice rivoluzione aveva insinuato l’idea dell’inarrestabile e illimitata capacità dell’economia capitalista di espandersi oltre ogni aspettativa, aprendo le porte alla conquista economica del globo, e aveva posto le basi per l’edificazione della società borghese, con istituzioni capaci non solo di consentire, ma anche di favorire l’espansione mondiale del capitalismo industriale. La borghesia aveva elaborato un sistema-mondo, sostenuto da un’ideologia, il liberalismo, in grado di trionfare fino alla metà degli anni Settanta, quando sorgeranno i primi segni di crisi32. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo xix la borghesia vede, sul piano economico, il trionfo mondiale del capitalismo, e anche su quello politico non sembra trovare rivali: «o le resistenze politiche degli “antichi regimi” […] erano superate, o quegli stessi regimi sembravano inclini ad accettare l’egemonia economica, istituzionale e culturale di un trionfale progresso borghese»33. Persino il malcontento sociale pareva, dopo il Quarantotto, completamente disinnescato e incapace di costituire una reale minaccia. Ora, con l’avvento dell’Età degli Imperi, le contraddizioni di questo mondo che l’ideologia liberale era riuscita a celare e tenere sotto controllo appaiono più evidenti, nonostante il generale clima di pace e di stabilità: i grandi movimenti operai non nascono in economie in depressione economica e in recessione, ma in «economie fiorentissime e in via di espansione»34, e si mostrarono più forti proprio «in un’epoca in cui il capitalismo probabilmente offriva loro condizioni un po’ meno miserabili di prima»35.

La borghesia perde la propria egemonia e sente di correre un rischio che solo la Guerra del 1914 renderà palese ed esplicito. Il quarantennio tra gli anni Settanta del xix secolo e il 28 giugno 1914 non rappresenta solo la fine di un secolo, ma la fine di un mondo: la Grande Guerra sancirà in maniera irreversibile l’impossibilità di credere ancora nel «secolo borghese», con la conseguente presa di coscienza del fatto che il mondo invocava a gran voce un’alternativa. Fu quest’esigenza di alternativa, secondo Hobsbawm, e l’idea che essa dovesse essere rivoluzionaria, a determinare l’avvio di un nuovo secolo.

 

2. Il motore della storia. L’Età degli estremi e la rivoluzione

2.1. La rivoluzione bolscevica e l’inizio del Novecento

Com’è noto il Secolo breve si apre con la famosa immagine del vecchio presidente Mitterrand che si reca, «sfidando i bombardamenti», in una Sarajevo che, a metà del primo anno di una guerra destinata a durare a lungo, appariva già come una città in ginocchio. Mitterrand sceglie di volare a Sarajevo il 28 giugno 1992 – il Vidovdan – non a caso: è la data della leggendaria battaglia di Kosovo Polje (1389), nella quale i Serbi, secondo la leggenda, sconfissero il ‘Turco invasore’, ed è anche la data in cui Slobodan Milošević pronuncia il famoso «Discorso di Kosovo Polje» (1989), con un riferimento simbolico e inquietante proprio a quella battaglia; è nel giorno di San Vito, infine, che nel 1990 il presidente croato Tuđman rivela il disegno di una nuova costituzione croata, che esclude i serbi dai fondatori della nazione36. Il Novecento inizia a Sarajevo con l’attentato di Gavrilo Princip, data d’inizio della Grande Guerra, e si conclude nella stessa città quasi ottant’anni dopo. Il viaggio di Mitterrand è il segno rivelatore della fine di un’epoca: non solo perché, come nota Hobsbawm, in pochi nel 1992 furono in grado di coglierne il riferimento simbolico, ma anche perché Mitterrand si faceva portatore, in quella guerra, di una posizione destinata a risultare errata sul piano politico e volta a conservare uno status quo le cui origini risalivano alla Pace di Versailles (28 giugno 1919), di cui ricorreva il settantesimo anniversario. Quando compie questo gesto Mitterrand non è solo un uomo vecchio, ma appare come il personaggio antiquato e inattuale di un’epoca ormai al crepuscolo, e quel volo a Sarajevo sembra a Hobsbawm il tentativo in extremis di salvare le ultime vestigia di un mondo già morto. Quel mondo non era per Mitterand il migliore, ma piuttosto l’unico mondo possibile, era il mondo nato dalla Rivoluzione bolscevica e dalla Grande Guerra. Ed è a partire dalla dialettica rivoluzionaria che, ancora una volta, è possibile comprendere il movimento della storia.

La rivoluzione d’Ottobre è, per Hobsbawm, la «rivoluzione mondiale»37: essa sorge «per innescare nel mondo la rivoluzione proletaria»38. Nella mente di molti di coloro che la concepirono, come Lenin, essa non era che «una battaglia nella campagna che doveva portare alla vittoria del bolscevismo su una scala mondiale assai più vasta»; e, soprattutto, «solo in tal senso [essa] era giustificabile»39. Abbiamo visto come sia la ri sia la rf, abbiano innescato una serie di processi dialettici che, sovrappostisi, hanno strutturato l’intero xix secolo come la storia della borghesia e dei suoi nemici: i controrivoluzionari e i conservatori, prima, e il proletariato, poi. Questa dialettica narrava anche la cessione, da parte della classe borghese, della ‘fiaccola della rivoluzione’ al proletariato. La storia del Novecento è anch’essa la storia di una dialettica, ma per certi versi molto diversa.

Innanzitutto la dialettica è quella tra la guerra e la rivoluzione. Se da un lato «la rivoluzione fu figlia della guerra»40, d’altro canto «fu una rivolta contro la guerra»41. La prima guerra mondiale le fornì il materiale ignifugo necessario affinché essa potesse divampare, mentre la seconda consacrò l’Urss come una delle due superpotenze capaci di farsi portatrice di una visione globale del mondo, e capace di guidare, con la ‘seconda ondata rivoluzionaria’, un mondo che «si era spostato nettamente a sinistra»42.

In secondo luogo la dialettica fu quella con l’altra grande ‘superpotenza’, gli Usa, rappresentanti ed eredi prediletti della tradizione democratica e capitalista. Quella tra Urss e Usa, però, non fu, come nella retorica della Guerra Fredda, un’opposizione ‘pura’ tra due prospettive uguali e contrarie, bensì una dinamica interna a quella che per Hobsbawm è un’unica tradizione erede dell’Illuminismo43, contrapposta, in maniera inconciliabile, ai regimi fascisti44. È di questa seconda dialettica che dobbiamo ora rendere conto, per comprendere fino in fondo la dinamica interna al xx secolo.

2.2. Un evento lungo un secolo

Come abbiamo visto gli anni che precedono il 1914 rappresentano «il momento storico in cui diventò chiaro che la società e la civiltà create da e per la borghesia liberale occidentale non rappresentavano la forma permanente del mondo, ma solo una fase del suo sviluppo iniziale»45. La Grande Guerra spazzò via dall’Europa le ultime illusioni della belle époque e portò in Russia all’esplosione delle ambiguità del mondo imperialistico, con effetti realmente globali46. L’effetto non fu soltanto la nascita di una nuova superpotenza internazionale, ma anche la realizzazione, nell’orizzonte della storia, di un’alternativa al capitalismo, in grado d’ispirare i rivoluzionari di tutto il secolo. L’Urss rappresentò così il ‘segreto motore della storia’ del secolo, che salvò per ben due volte lo stesso capitalismo: innanzitutto, «permettendo all’Occidente di vincere la seconda guerra mondiale contro la Germania hitleriana» e fornendo al capitalismo, prima e dopo la Guerra, «l’incentivo per riformarsi»47. Fu infatti l’alternativa sovietica, secondo Hobsbawm, a incentivare quell’intreccio di economia di mercato e di intervento sociale statale che produsse l’Età dell’oro48. E non deve quindi stupire che la parte centrale de Il secolo breve, dedicata appunto a quest’età di successi dell’economia mondiale, si apra con un capitolo dedicato alla Guerra Fredda49. Sono questi gli anni di quella grande rivoluzione sociale che, secondo Hobsbawm, rappresenta la vera trasformazione di portata universale capace di produrre una completa cesura con il passato. Questa rivoluzione, strettamente intrecciata con la riforma economica in direzione statalista e keynesiana del capitalismo novecentesco, comprende una molteplicità di fenomeni: la fine della classe contadina;50 l’impennata delle professioni che richiedono un livello di istruzione medio o alto e, conseguentemente, il generale innalzamento del livello di alfabetizzazione e di istruzione mondiale51; le trasformazioni nel mondo della produzione e dell’industria, con la conseguente ridefinizione, in termini più vaghi e sfumati del passato, dei confini del proletariato52; l’emergere, a diversi livelli e in diverse forme, di un nuovo ruolo delle donne, in particolare nel mondo del lavoro53. A queste trasformazioni si aggiungono quelle di una ‘rivoluzione culturale’ che tocca in profondità la struttura e il funzionamento della famiglia, il ruolo sociale delle fasce giovanili, la sessualità, il ruolo dell’individuo, la scomparsa dei legami comunitari tradizionali, e comporta, più in generale, la ristrutturazione dei vecchi sistemi di valori e di molte delle tradizionali convenzioni sociali54.

Non si tratta, ovviamente, di sostenere un ruolo causale diretto della Rivoluzione bolscevica in tutte trasformazioni economiche, sociali e culturali. Ma non è un caso che queste prendano avvio proprio in quei paesi ‘avanzati’ del mondo capitalistico che, in quel periodo, combattevano una guerra economica, ideologica e culturale, nei confronti dell’Unione Sovietica. L’Urss costituisce il motore della storia perché la rivoluzione bolscevica da cui nasce emerge da una guerra che rappresenta la crisi del sistema del capitalismo imperialista; perché il suo contributo alla vittoria della Seconda Guerra Mondiale contro i regimi fascisti in Europa segna il suo nuovo ruolo a livello internazionale; e perché questa nuova partizione del mondo chiude del tutto con il sistema-mondo ottocentesco. L’Urss, infine, porta la società capitalista a un ripensamento dei propri presupposti e a trasformare le proprie basi materiali. La dialettica del Secolo breve, in altre parole, è una dialettica degli estremi, costellata di vere e proprie «guerre di religione»55, solo in virtù della nascita e dello sviluppo di questo stato nato dalla rivoluzione.

 

3. Un’alternativa al presente. Rivoluzione, storia e controfattuale

A partire dalla dimensione dialettica della storia ottocentesca e novecentesca, che nasce e si sviluppa in ragione della rivoluzione, possiamo in questo senso dire che, per Hobsbawm, la storia contemporanea è sempre storia rivoluzionaria, storia che nasce dalla rivoluzione. Ma è la stessa nozione di «rivoluzione» che andrebbe ora problematizzata e messa in discussione da un punto di vista filosofico. Dalla ri inglese alla Rivoluzione bolscevica, dalla rivoluzione sociale del secondo Dopoguerra a quella del 1789: tutti questi fenomeni, nella loro specificità, sono parte di una dialettica storica complessiva, che necessita ora di essere non solo presentata, ma anche chiarita.

È da una doppia rivoluzione – che si sviluppa nei due paesi all’epoca più importanti del continente europeo – che nasce il Lungo Ottocento, un secolo in cui la storia è diventata mondiale e allo stesso tempo sempre più europea e che è destinato a sparire alla fine della belle époque a Sarajevo, alla periferia d’Europa. Nasce da una rivoluzione anche quel Novecento frenetico e fugace, la cui storia è anche quella dello stato nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, e che con essa tramonta ‘prematuramente’, lasciando il campo, già negli anni Novanta, a un tempo nuovo, di cui ancora si fatica a tracciare un profilo. La rivoluzione è il movimento storico stesso, la forma con cui l’età contemporanea ha pensato la trasformazione e in cui si è specchiata e riconosciuta. Se consideriamo l’opera di Hobsbawm non semplicemente come lavoro storiografico, ma come fonte privilegiata per accedere a un passato molto recente, scopriamo quanto in essa traspaia la mentalità di un’epoca ossessionata dalla rivoluzione56. Al punto che le donne e gli uomini del Novecento non hanno potuto fare a meno di vedere la rivoluzione in eventi anche molto lontani nel tempo. Un caso esemplare è quello della cosiddetta «rivoluzione scientifica»: il termine, sebbene attestato sin dal xviii secolo57, è poco utilizzato fino al xx secolo e viene introdotto nel lessico storiografico solo alla fine degli anni Trenta58 e di lì entra velocemente non solo nel linguaggio scientifico, ma anche in quello popolare. Pochi eventi hanno avuto la capacità delle rivoluzioni di colonizzare l’immaginario delle donne e degli uomini del xx secolo, e più in generale dell’età contemporanea.

Il lavoro di Hobsbawm è la testimonianza di questo potere ‘immaginario’59 della rivoluzione e, insieme, un tentativo di renderne conto. Dire che non si dà storia contemporanea senza rivoluzione, non significa, banalmente, ribadire l’importanza di eventi come la rivoluzione del 1789 o del Quarantotto o della presa del Palazzo d’Inverno. Significa affermare che l’uomo contemporaneo ha avuto, forse per la prima volta nella storia, la possibilità di pensare davvero il mutamento storico nella forma rivoluzionaria. Sono rivoluzionarie, per l’uomo contemporaneo, tutte le ‘storie’: la storia politica, ma anche quella economica, scientifica, culturale, intellettuale. È rivoluzionario il modo con cui le donne e gli uomini dell’età contemporanea trasformano gli immaginari e le mentalità, gli spazi in cui vivono, le abitudini e, in una parola, i «modi di vita»60. È rivoluzionaria la storia stessa, anche quando le rivoluzioni non sembrano essere possibili o sono destinate a fallire, come tra il 1848 e il 1914: che siano gli effetti a lungo termine della duplice rivoluzione o lo ‘spettro’ di una rivoluzione temuta anche nella sua implausibilità, l’età contemporanea si muove sempre attorno all’evento rivoluzionario, per attuarlo o per scongiurarlo.

La capacità della rivoluzione di essere il motore della storia è connessa alla sua dimensione controfattuale61 o, per meglio dire, alla sua capacità di promettere l’avvento nella storia di un evento, capace di ristrutturare a partire da sé l’intero ‘piano’ storico. Questo è evidente già nella descrizione della «doppia rivoluzione» che, rompendo con l’età moderna, instaura una dialettica che si dipana lungo tutta la prima parte del xix secolo e che determina, in definitiva, la sintesi dell’Imperialismo. Questo momento, dove la proposta del liberalismo borghese giunge a strutturare l’intero sistema-mondo, va in frantumi all’inizio del xx secolo, quando l’evento che segna l’esito ultimo dell’Ottocento, la guerra, pone le basi per quello da cui nascerà il Secolo Breve: questo ‘evento lungo un secolo’ che è la rivoluzione d’Ottobre apre così una diversa dialettica, quella degli estremi. Tanto la duplice rivoluzione, quanto la rivoluzione d’Ottobre rappresentano l’ingresso nella storia di un’alternativa controfattuale al presente, frutto della capacità umana di perseguire nell’azione storica la creazione di un mondo diverso da quello che si voleva proporre come inevitabile. La rivoluzione d’Ottobre è sia la scoperta di un’alternativa non capitalista allo sviluppo economico, sia la messa in atto nella storia di quell’alternativa. Da questo punto di vista la storia che Hobsbawm racconta è una storia controfattuale non nel senso in cui quest’espressione è stata usata da una certa storiografia del «what if…»62, ma come storia che procede solo nella misura in cui è sempre tratta in avanti da un’alternativa possibile al presente attuale, come storia in cui si dà sempre la possibilità della marxiana «critica spietata di tutto l’esistente». Si tratta certo, di una filosofia della storia ‘minima’, per così dire, che non offre alcuna rassicurazione provvidenziale circa gli esiti offertici dall’alternativa63: essa rinuncia a qualsiasi promessa messianica e a qualsiasi profezia, che sia di rassicurazione o di monito. Ma ha allo stesso tempo, proprio per questa ragione, l’indubbio pregio di collocare il motore della storia all’interno della storia stessa, senza postulare il controfattuale come un mondo ideale esterno alla dimensione storica, e inserendo la possibilità dell’alternativa nel contesto dell’azione mondana. Anzi, da questo punto di vista la nozione di «alternativa» sembra indicare che questo elemento controfattuale non debba essere semplicemente un evento possibile, ma un evento plausibile. L’ossessione che il xix secolo mostrava per la rivoluzione, strutturandosi come un secolo in cui non si poteva che essere, in un modo o nell’altro, rivoluzionari o anti-rivoluzionari, è fondata sull’effettiva possibilità storica dell’evento rivoluzionario, che l’età delle rivoluzioni aveva dimostrato. Il controfattuale che anima la storiografia di Hobsbawm, dunque, non si contrappone al reale attuale come un irreale impossibile, ma come lo sforzo degli uomini e delle donne di pensare, immaginare e agire in nome di uno stato di cose possibile e che essi desiderano realizzare. Per questo la filosofia della storia di Hobsbawm contiene in sé anche una traccia di filosofia politica, nella misura in cui non sembra solo fornire una chiave di lettura per il passato, ma anche uno strumento per diagnosticare il presente e cercare di immaginare il futuro64.

Dopo la fine dell’età degli estremi, alcuni ideologi della fine della storia hanno potuto credere l’impossibilità del futuro, negando a priori la possibilità di pensare altrimenti la realtà e di sfuggire alla tirannia del fatto compiuto. Non è un caso che la famosa tesi di Francis Fukuyama poggi tutta su di un assunto volto a negare la possibilità della controfattualità storica: «oggi», leggiamo nel quarto capitolo de La fine della storia e l’ultimo uomo, «noi riusciamo a malapena a immaginarci un mondo migliore del nostro, o un futuro che non sia sostanzialmente democratico e capitalista»65. La «fine della storia» è quindi la fine della possibilità di pensare un mondo che non sia strutturato nella forma economico-politica della democrazia liberale e che non sia la riproposizione in chiave contemporanea di regimi politici del passato, come l’assolutismo, il fascismo o il socialismo ‘reale’ sovietico. Il fallimento dell’Unione Sovietica sembra aver frantumato la possibilità di pensare quell’alternativa che il mondo sembrava chiedere all’inizio del Novecento, e oggi appare molto più arduo pensare che una rivoluzione sia possibile.

La narrazione de Il secolo breve ci conduce a un esito in cui regna l’incertezza e sulla cui base diventa difficile fare previsioni, e lo stesso Hobsbawm, che pure non rinuncia a tracciare qualche scenario, non nasconde che quello di fine xx secolo è «un mondo in cui non sappiamo dove il nostro viaggio ci condurrà e neppure dove dovrebbe condurci»66. Eppure non sembra accettare una visione come quella della «fine della storia» à la Fukuyama, anzi. «Per circa vent’anni dopo la fine dell’Unione Sovietica», scrive nel saggio conclusivo della raccolta Come cambiare il mondo, gli ideologi del modello economico del laissez-faire «sono stati convinti di aver raggiunto la “fine della storia”, “una vittoria incontrastata del liberalismo politico ed economico”, nelle parole di F. Fukuyama»67. Ebbene, commenta Hobsbawm alla luce dell’implosione del laissez-faire nella crisi del 2007-2008, «niente di tutto questo è ancora sostenibile», in ragione del fallimento, tra il 1980 e il 2008 anche dell’economia dell’integralismo del mercato: «i tentativi del xx secolo di trattare la storia mondiale come un gioco a somma zero tra pubblico e privato, individualismo puro e puro collettivismo, non sono sopravvissuti»68.

Gli estremi hanno fatto il proprio gioco e l’hanno perso entrambi. Coloro che, alla caduta dell’Urss, hanno pensato di poter trarre la conclusione che la morte della principale alternativa storica al capitalismo fosse una prova a favore dell’efficacia del laissez-faire, devono oggi fare i conti con la miopia delle loro previsioni, contrassegnate da significativi errori prospettici. Avevano ragione nel decretare la chiusura definitiva dell’esperienza sovietica, e a considerarne impossibile un ritorno; ma si sbagliavano, invece, nel credere che ciò non anticipasse anche la crisi dell’altro estremo. L’età del capitalismo ‘puro’ inizia dopo la fine dell’Urss, alla fine dell’espansione economica dell’Età dell’oro, fondata non nella dottrina del laissez-faire, ma in un modello capitalistico riveduto e corretto con interventi dello stato ispirati, in ultima analisi, dal confronto con l’alternativa socialista sovietica. Dopo quest’età il capitalismo si è radicalizzato in una lettura ‘integralista’ dell’autonomia del mercato, che è, secondo l’ultimo Hobsbawm, l’illusione infrantasi con la crisi economica dell’inizio degli anni Dieci.

Dobbiamo quindi rilevare che la ricerca di un’alternativa non rappresenta più una semplice opzione, ma una scelta obbligata. Già nel 1994 la chiusura de Il secolo breve anticipava questo esito con una sorta di monito: «il mondo deve cambiare […] e il prezzo del fallimento, vale a dire l’alternativa a una società mutata, è il buio»69. Per Hobsbawm «se l’umanità deve avere un futuro nel quale riconoscersi, non potrà averlo prolungando il passato o il presente»70, ma solo attuando un processo che introduca nell’azione storica un’alternativa controfattuale. Si tratta di pensare un mondo contro il mondo presente, contro la realtà attuale. È l’emergere di alternative allo status quo che offre alle società umane l’opportunità di rielaborare, sulle ceneri dei propri fallimenti, nuovi percorsi possibili. Siamo ben lontani dalla visione spengleriana della storia, dove le civiltà seguono cicli ben definiti di crescita e declino. In Hobsbawm le società umane sembrano invece avere una possibilità di scelta nel determinare l’alternativa possibile al mondo attuale71. Tale alternativa è stata spesso pensata, perseguita e attuata, nel xix e nel xx secolo, nella forma della rivoluzione. Non è chiaro se quel futuro che dobbiamo pensare in termini di assoluta rottura con il passato e con il presente si attuerà ancora come rivoluzione o se l’alternativa al presente apparirà, questa volta, sotto un’altra veste diversa e inedita. Sappiamo solo che quella zona crepuscolare, che è per noi il Secolo breve, è stata figlia della rivoluzione, e che la sua storia, come quella del secolo precedente, è stata, in un modo o nell’altro, storia rivoluzionaria. Per questo potrebbe essere forse un po’ presto per abbandonare del tutto l’idea che l’alternativa che il mondo attende possa giungere ancora una volta da una rivoluzione, anche se ad oggi non è ancora dato intravederne i contorni e la figura. D’altro canto, come sa bene lo storico, «la sola cosa certa riguardo al futuro è che esso sorprenderà anche coloro che meglio avranno saputo decifrarne i segni»72.


* Università di Torino / Université Paris 1
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Note
1 Desidero ringraziare il prof. Graziano Lingua (Università di Torino) per l’attenzione con cui ha letto e commentato la prima versione di questo saggio, che ha tratto notevole giovamento dai suoi consigli. Ogni eventuale errore o imprecisione resta, naturalmente, esclusiva responsabilità di chi scrive.
2 Il riferimento è alla trilogia di lavori che Hobsbawm ha dedicato all’Ottocento (E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, trad. it. di O. Nicotra, Milano 1963; Id., Il trionfo della borghesia. 1848-1875, tr. it. di B. Maffi, Roma-Bari 2003; Id., L’Età degli imperi. 18751914, trad. it. di F. Salvatorelli, Roma-Bari 2007) e al noto volume sul Novecento, Id., Il secolo breve. 1914-1991, trad. it. di B. Lotti, Milano 2014. Va ricordato che non tutti gli storici condividono la periodizzazione di Hobsbawm, e sono state proposte alcune alternative. Il Secolo breve diventa, per esempio, un secolo lungo, a dire il vero lunghissimo, almeno nell’opera storiografica di alcuni studiosi italiani (Cfr. G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano 1994 e, più recentemente, M. L. Salvadori, Il Novecento. Un’introduzione, Roma-Bari 2002), mentre altri evitano di considerare il Novecento in maniera unitaria e integrano la nozione di secolo con altre unità periodizzanti, come la ‘generazione’; così leggiamo nella premessa a una raccolta di saggi sul Novecento, che questo fu «un secolo di quattro generazioni e dunque di quattro scontri generazionali e di altrettanti modi diversi di vivere la vita e di vedere il mondo» (P. Sorcinelli, Premessa, in Identikit del Novecento. Conflitti, trasformazioni sociali, stili di vita, a cura di P. Sorcinelli, Roma 2004). Per una discussione più generale circa questi problemi, sempre per limitarci al contesto italiano, cfr. C. Pavone (a cura di), Novecento. I tempi della storia, Roma 1997.
3 F. Braudel, Storia misura del mondo, trad. it. di G. Zattoni Nesi, Bologna 1998, pp. 46-47.
4 Nota Hobsbawm nella Prefazione de Le rivoluzioni borghesi, che «parole come ‘industria’, ‘industriale’, ‘fabbrica’, ‘classe media’, ‘classe lavoratrice’, ‘capitalismo’ e ‘socialismo’. E inoltre: ‘aristocrazia’, ‘ferrovia’, i termini politici come ‘liberale’ e ‘conservatore’, ‘nazionalità’, ‘scienziato’ e ‘ingegnere’, ‘proletariato’ e ‘crisi’ (economica). ‘Utilitario’, ‘statistica’, ‘sociologia’ e parecchi altri nomi di branche della scienza moderna, ‘giornalismo’ e ‘ideologia’, sono tutte creature o adattamenti di questo periodo, e così pure ‘sciopero’ e ‘pauperismo’» (E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, cit., p. 11).
5 Ibid.
6 Hobsbawm non pare preciso su questo punto. Ne Le rivoluzioni borghesi leggiamo che gli effetti della duplice rivoluzione sembrano chiudersi, forse, alla metà del xx secolo (ivi, p. 15), ma ne Il secolo breve sembra sostenere che gli effetti della rf siano più duraturi (E. J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, cit., p. 72).
7 E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, cit., p. 46.
8 Lo stesso utilizzo del concetto di «rivoluzione» per caratterizzare la ri è stato messo in discussione da numerosi storici contemporanei. In particolare esso sembra essere fuorviante poiché rimanda, normalmente, a trasformazioni relativamente rapide e ben collocate nello spazio e nel tempo. Joel Mokir ha espresso chiaramente l’ambiguità del concetto rilevando che «la rivoluzione industriale britannica non ‘accadde’. Ciò che si verificò fu una serie di eventi, in un certo periodo di tempo, in certe località, per i quali gli storici successivi reputarono conveniente trovare un nome specifico» (J. Mokyr, Leggere la Rivoluzione Industriale. Un bilancio storiografico, trad. it. di G. Arganese, Bologna 2002, p. 8).
9 E. J. Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, trad. it. di L. Clausi, Milano 2012, p. 98. Su questo gioverà ricordare che, come nota Edward P. Thompson, la comparsa degli operai non fu un effetto immediato della ri, ma un suo «prodotto tardivo»: «Molte delle loro idee e forme di organizzazione furono anticipate dai lavoratori a domicilio […]. Ed è discutibile che gli operai di fabbrica – prescindendo dai distretti cotonieri – siano stati il “perno del movimento operaio” prima dei tardi anni ‘40» (E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, trad. it. di B. Maffi, Milano 1969, p. 192).
10 E. J. Hobsbawm, Come cambiare il mondo, cit., p. 99.
11 Ibid.
12 Ivi, p. 105.
13 E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, cit., p. 59.
14 Ibid.
15 Ibid.
16 Ibid. Anzi, nota Hobsbawm, i grandi finanzieri e i nuovi grandi ricchi «erano forse più impopolari presso i piccoli commercianti e gli agricoltori che non presso gli stessi operai, poiché questi erano abbastanza competenti in materia di denaro e di credito da provare un vivo risentimento personale per la propria posizione di svantaggio» (ivi, p. 60).
17 Ibid.
18 Cfr. su questo problema almeno G. V. Cobban, Borghesia non capitalistica e le origini della RF, in A. Cobban et al., Il mito della Rivoluzione francese, a cura di M. Terni, Milano 1981, pp. 62-95. Per una più ampia discussione della questione e per più estesi riferimenti bibliografici cfr. infra, nota 33.
19 E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, cit., p. 47.
20 Ivi, p. 96.
21 Ivi, p. 91.
22 Ibid.
23 Anche Furet, che ha una lettura della rf ben lontana da quella di matrice marxista, ha riconosciuto la problematicità del rapporto tra rivoluzionari e massa, evidenziando il ruolo giocato dalla parola e dalla produzione di discorsi, che lo storico francese ha definito come «l’attività rivoluzionaria per eccellenza». F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, trad. it. di S. Brilli Cattarini, Roma-Bari 1980, p. 59.
24 E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, cit., pp. 92-93.
25 Ivi, p. 93. Si noti che Hobsbawm finisce per ridurre di molto il ruolo dei sans-culottes a favore di una lettura della rf in cui i giacobini rappresentano gli assoluti protagonisti e il principale motore della storia. Non è un caso che, poco oltre, egli si lanci in una sorta di apologia di Robespierre (ivi, pp. 102-103), contrapposto – secondo uno schema storiografico piuttosto tipico – a Danton, definito, con un giudizio quantomeno un po’ tranchant, «la personificazione del tipico amorale falstaffiano, donnaiolo e prodigo» (ivi, p. 104).
26 Ivi, p. 31.
27 Sull’associazione delle classi lavoratrici alle classi pericolose rimando a Louis Chevalier, che ben esplicita la confusione tra proletariato operaio e quella che era percepita allora come «la turba di mendicanti decisi a vivere alle spalle della borghesia»: «Nella prima metà del xix secolo, la parola “proletariato”, considerata non nei dizionari, dove non si è ancora fatta largo, ma nei documenti letterari e sociali dell’epoca e nei fatti, è ancora strettamente legata a caratteristiche che non hanno nulla di economico, è ancora intrisa delle rivalità etniche e fisiche […] e deve ancora competere con altri termini o altre immagini che meglio esprimono le caratteristiche biologiche dei conflitti sociali. […] L’atteggiamento della borghesia rispecchia dunque per molti aspetti il suo antico atteggiamento verso una popolazione considerata estranea alla città, capace di qualunque violenza e sospettata di tutti i delitti, di tutti i mali, di tutte le epidemie» (Cfr. L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose [1958], trad. it di S. Brilli Cattarini, Roma-Bari 1976, pp. 469-472).
28 E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia, cit., p. 24.
29 Il termine, con il richiamo gramsciano che esso implica, è usato da Hobsbawm in Il trionfo della borghesia, p. 306. Hobsbawm ha dedicato pagine importanti e significative a Gramsci. Cfr. Id., I rivoluzionari, trad. it. di M. G. Boffito e C. Donzelli, Torino 2002, pp. 327-354; Id., Come cambiare il mondo, cit., pp. 334-343; e alla sua ricezione nella storia del marxismo. Ivi, pp. 344-383; Id., Gramsci in Europa e in America, trad. it. di L. Falaschi, Roma-Bari 1995.
30 E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia, cit., p. 307.
31 Ivi, p. 306. Hobsbawm tende a sovrapporre la borghesia protagonista della rf e quella promotrice della ri. Questa lettura, che trova nella storiografia marxista di Georges Lefebvre e Albert Soboul la sua più alta esemplificazione, è stata messa in discussione e criticata a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Alcuni storici, infatti, hanno messo in dubbio la natura borghese della rivoluzione del 1789, notando come il gruppo che la guidò fosse composto più da notabili, uomini di legge e funzionari, che da imprenditori e capitalisti. In realtà, per quanto Hobsbawm parli indistintamente di borghesia tanto per la ri quanto per la rf, sembra che la loro identificazione sia frutto della sovrapposizione delle due dialettiche della duplice rivoluzione e che egli consideri la borghesia in modo unitario solo a partire dall’Età del capitale. Sulle diverse letture della rf, si potranno considerare esempi della storiografia marxista ‘classica’ G. Lefebvre, La Rivoluzione Francese, trad. it. di P. Serini, Torino 1958; Id., L’Ottantanove, trad. it. di A. Galante Garrone, Torino 1949 e A. Soboul, Storia della rivoluzione francese, trad. it. di M. G. Meriggi, Milano 2001. Critici, su diversi aspetti, di questa tradizione storiografica sono invece: A. Cobban, La società francese e la Rivoluzione, trad. it. di G. Lanzillo, Firenze 1967 (che mette in discussione la natura capitalista della classe rivoluzionaria); F. Furet e D. Richet, La rivoluzione francese, trad. it. di S. Brilli Cattarini e C. Patanè, Roma-Bari 1974; e F. Furet, Critica della rivoluzione francese, cit. (che ha sostenuto la tesi che la ‘rivoluzione borghese’ si concluda del tutto già nel 1791).
32 Questa crisi, «non è contrassegnata da una data comoda e precisa», ma allo stesso tempo, «se mai se ne dovesse scegliere una, sarebbe il 1873, l’equivalente vittoriano del nero venerdì del 1929 di Wall Street» (E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia, cit., p. 8).
33 E. J. Hobsbawm, L’Età degli imperi. 1875-1914, cit., p. 12.
34 Ivi, p. 13.
35 Ibid.
36 Sulla storia novecentesca dell’area balcanica, che qui non possiamo approfondire, mi limito a rimandare agli studi Jože Pirjevec, che ha prodotto alcune importanti opere di sintesi sul tema: J. Pirjevec, Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992: Storia di una tragedia, Torino 1993; Id., Le guerre Jugoslave. 1991-1999, Torino 2014.
37 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 71.
38 Ivi, p. 73.
39 Ibid.
40 Ivi, p. 71. È da notare che questa tesi sui rapporti tra guerra e rivoluzione è una delle poche che non sembra essersi eccessivamente logorata nel processo di aggiornamento degli studi sull’Urss. Per quanto Hobsbawm si mostri relativamente cauto e attento nella valutazione complessiva dell’esperienza sovietica, è infatti opportuno tenere presente che, in seguito alla caduta dell’Urss, e dopo il lento processo di apertura degli archivi, la storiografia sull’Unione Sovietica ha potuto giovarsi di molte fonti, tanto complesse da analizzare, quanto preziose e ricche di informazioni. Oggi la miglior sintesi disponibile al lettore italiano, preziosa per il suo ampio utilizzo delle fonti e per lo sforzo complessivo di offrire un quadro di analisi unitario, è data dai due volumi di A. Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna 2010 e Id., L’URSS dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Bologna 2011.
41 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 85.
42 Ivi, p. 103.
43 Per Hobsbawm l’Illuminismo non è borghese, ma rivoluzionario. È infatti la tradizione illuminista a ispirare la rf proprio nella sua forma rivoluzionaria. «Non è rigorosamente esatto definire l’‘illuminismo’ un’ideologia borghese, anche se vi furono molti illuministi – politicamente i più decisivi – che partivano dal presupposto che la società libera avrebbe dovuto essere una società capitalista. […] Più esatto è invece definire l’‘illuminismo’ come un’ideologia rivoluzionaria […]. L’illuminismo, infatti, implicava l’abolizione dell’ordine politico e sociale prevalente nella maggior parte dell’Europa» (Id. Le rivoluzioni borghesi, cit., p. 37). Sul ruolo dell’ideologia illuminista nella rf, mi limito a segnalare J. Israel, La rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre, trad. it. di P. Di Nunno e M. Nani, Torino 2016 e Id., Una rivoluzione della mente. L’Illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia moderna, trad. it. di F. Tassini e P. Schenone, Torino 2011, opere che hanno contribuito, con tesi provocatorie, ma interessanti, a riaccendere il dibattito storiografico.
44 Va comunque detto che lo stesso Hobsbawm ha tuttavia riconosciuto che «il mondo che è andato in frantumi alla fine degli anni ’80 era il mondo formatosi a seguito dell’impatto della rivoluzione russa del 1917. Noi ne siamo stati tutti segnati, per esempio in quanto ci siamo abituati a pensare alla moderna economia industriale in termini di un’opposizione binaria tra ‘socialismo’ e ‘capitalismo’ come alternative mutualmente escludentisi» (E. J. Hobsbamw, Il secolo breve, cit., p. 16), e che, allo stesso tempo, sebbene «dovrebbe ora essere divenuto evidente che quello schema era arbitrario, in certa misura artificioso e che lo si può comprendere solo entro un particolare contesto storico […], perfino mentre scrivo non è facile immaginare, neppure retrospettivamente, altri criteri» (Ibid.).
45 E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 15.
46 Ivi, p. 343.
47 E. J. Hobsbawm, Il Secolo breve, cit., p. 105. Sebbene gli effetti di questo fenomeno siano, secondo Hobsbawm, particolarmente visibili nelle economie miste dell’Età dell’oro, quest’influenza moderatrice dell’Unione Sovietica sul capitalismo ha le sue radici già nell’apparente capacità dell’Urss di meglio resistere alla crisi del 1929. Oggi sappiamo che quella capacità di resistenza fu effetto, probabilmente, più della tradizionale autarchia russa e dell’arretratezza dell’economia dei paesi sovietici, ma essa dovette nondimeno apparire ai contemporanei come una vera e propria prova dei pregi dell’economia socialista. Lo storico Andrea Graziosi nota, infatti, che «la crisi rigenerò in Occidente il mito sovietico appannato dagli echi delle difficoltà e degli orrori della guerra civile […]. Esso si presentò allora come capacità di costruire un mondo nuovo di fronte a un liberalismo che appariva moribondo anche ai suoi difensori» (A. Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, cit., pp. 255-256). D’altro canto, è necessario ricordare che di mito si tratta: «l’Urss stava però entrando in una crisi ben più terribile, e se è vero che essa accompagnava la nascita di un nuovo regime socioeconomico e politico, quest’ultimo era agli antipodi dei sogni e delle aspettative degli occidentali» (Ibid.). 48 Hobsbawm colloca la fine dell’Età dell’oro nel 1973, anche se ammette che «solo negli anni ’80 però divenne chiaro quanto irrimediabilmente si fossero sgretolate le fondamenta dell’Età dell’oro» (ivi, p. 471).
49 Ivi, pp. 267-302.
50 Ivi, pp. 341-347.
51 Ivi, pp. 347-355.
52 Ivi, pp. 355-365.
53 Ivi, pp. 365-376.
54 Su questo genere di trasformazioni, di cui Hobsbawm non poteva che dare una lettura ancora ‘acerba’, rimando a P. Sorcinelli (a cura di), Identikit del Novecento. Conflitti, trasformazioni sociali, stili di vita, cit.
55 Ivi, p. 16. È in questo senso che il «Secolo breve» è davvero l’Età degli estremi, e la sua capacità di creare opposizioni binarie, di dividere il mondo tra Est e Ovest, tra vincitori e vinti, condannando i suoi abitanti all’incapacità di rendere conto delle sfumature, «è uno dei prezzi da pagare per chi è vissuto in un secolo di guerre religiose. Perfino coloro che propagandavano il pluralismo di concezioni non ideologiche non ritenevano che il mondo fosse grande abbastanza per una coesistenza permanente con religioni secolari antagoniste. I confronti religiosi o ideologici, quali sono quelli che hanno riempito il nostro secolo, erigono delle barricate sulla via dello storico» (ivi, pp. 16-17).
56 D’altronde è lo stesso Hobsbawm a ricordare, nell’introduzione a Il secolo breve, questa curiosa capacità dell’opera storiografica di poter sempre divenire essa stessa una fonte capace di aprire uno sguardo non solo sull’epoca di cui essa si occupa, ma su quella dello storico che l’ha prodotta: «Parliamo dei nostri ricordi, ampliandoli e correggendoli, e ne parliamo come uomini e donne di un tempo e di uno spazio particolari, coinvolti, in varie guise, nella storia» (cfr. ivi, p. 15).
57 Cfr. I. Bernard Cohen, The Eighteen-Century Origins of Scientific Revolution, «Journal of the History of Ideas», XXXVII, 1976, 2, pp. 257-288.
58 Tradizionalmente si attribuisce questo merito a Alexandre Koyré (cfr. A. Koyré, Studi Galileiani, trad. it. di M. Torrini, Torino 1976). La nozione viene in breve ripresa da altri: H. Butterfield, The Origins of Modern Science 1300-1800, New York 1949; Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. di A. Carugo, Torino 2009. Per una discussione più aggiornata sul tema mi limito a rimandare a W. E. Burns, The Scientific Revolution in Global Perspective, Oxford 2016 e a H. F. Cohen, The Rise of Modern Science Explained: A Comparative History, Cambridge 2015.
59 Sulla nozione di immaginario sociale rimando a Ch. Taylor, Gli immaginari sociali moderni, trad. it. di P. Costa, Roma 2005; C. Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, Paris 1975; C. Fleury (a cura di), Imagination, Imaginaire, Imaginal, Paris 2006. Nel panorama italiano segnalo: G. Pezzano e D. Sisto (a cura di), Immagini, immaginari e politica. Orizzonti simbolici del legame sociale, Pisa 2013; G. Lingua e S. Racca (a cura di), La cornice simbolica del legame sociale. Prospettive sugli immaginari contemporanei, Milano-Udine 2016.
60 Cfr. M. Hunyadi, La tirannia dei modi di vita. Sul paradosso morale del nostro tempo, trad. it. di G. Vissio, Pisa 2016.
61 Recupero la nozione di «controfattuale» da Hunyadi, che ha esplicitamente parlato della «potenza umana del controfattuale», come «della capacità di instaurare regole nei confronti del corso fattuale delle cose e promulgare un ordine da esso indipendente» (Cfr. M. Hunaydi, La tirannia dei modi di vita, cit.). Cfr. anche Id., L’homme en contexte. Essai de philosophie morale, Paris 2012.
62 Mi riferisco alla proposta storiografica della Counterfactual History, che concerne costruzioni storiografiche create sulla base di ipotesi del tipo: «come sarebbero andate le cose se…» o «what if…». La discussione sulla counterfactual history è piuttosto vivace; sul tema cfr. N. Ferguson (a cura di), Virtual History: Alternatives and Counterfactuals, New York 2000; G. Hawthorn, Plausible Worlds: Possibility and Understanding in History and the Social Sciences, Cambridge 1991.
63 In questo Hobsbawm è pienamente erede dell’epoca della «fine della filosofia della storia» intesa come teodicea o storia ‘orientata’ al progresso che già denunciata in K. Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, trad. it. di F. Tedeschi Negri, Milano 2010.
64 Questo ruolo della storia come diagnosi del presente è qualcosa che Hobsbawm rivendica esplicitamente: E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, cit., p. 14; Id., L’Età degli imperi, cit., p. 5.
65 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. di D. Ceni, Milano 1996, p. 67.
66 E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 30
67 E. J. Hobsbawm, Come cambiare il mondo, cit. pp. 416-417.
68 Ivi, p. 417.
69 E. J. Hobsbawm, Il Secolo breve, cit., pp. 674-675 (corsivo mio).
70 Ivi, p. 675.
71 Hobsbawm parla esplicitamente della nostra possibilità di scelta nei confronti del futuro sia nelle opere storiografiche più classiche (Id., L’età degli imperi, cit., p. 387), sia in altri scritti, come quelli sul marxismo (Id., Come cambiare il mondo, cit., p. 23).
72 E. J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 387.

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