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sinistra

Principio speranza

di Salvatore Bravo

C UfDB9XkAIkvx La meraviglia panica, ci disperde, dinanzi al trionfo del neoliberismo. Si deve passare dallo stupore alla razionalizzazione. Dinanzi alla carcassa che ci offre il neoliberismo, con lo splendore di un corpo in decomposizione logorato dalle sue contraddizioni senza risposte, dalle quali non pare aprirsi alcun campo di ricerca, alcuna prassi. E’ necessario partire dal punto zero del pensiero per ricominciare. L’incipit di un nuovo percorso deve avere la chiarezza della trappola in cui il mondo è caduto, “La notte del mondo”, a voler usare il linguaggio di Heidegger, e non si coglie la fine della notte. Al silenzio del pensiero e della speranza è necessario opporre la domanda. Quest’ultima necessita che si guardi in profondità, che ci si sottragga alla stimolazione perenne, per vivere l’irrilevanza di questi decenni. La categoria con la quale è possibile leggere la contemporaneità è l’irrilevanza, la mercificazione fa molto più che ridurre tutto alla totalità della valorizzazione, trasforma la vita, le nostre vite, da organico ad inorganico, agisce da acido, annichilisce, con il pensiero, la passione di vivere. Se seguissimo i dettami della nostra Costituzione, il carattere feticistico delle merci sarebbe illegale, non costituzionale, poiché la Costituzione fa della dignità e della volontà soggettiva l’architrave della difesa della dignità delle persone, così come recita l’articolo terzo:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Se lo sguardo si volge intorno a noi, tralasciando dispositivi tecnologici, non possiamo non verificare che la vita offesa è intorno, pullula tra di noi. L’offesa trova nell’integralismo liberista la sua causa sottratta a critica. Non si parla con il proprio dolore, con la dignità offesa, ci si sente irrilevanti. Il capitalismo assoluto è simile al fato, tutti si inginocchiano al destino che ha scelto per noi. I lavoratori alla spina, come recentemente una trasmissione ha decritto la dignità offesa dei lavoratori, non trovano parole per capire, la rabbia stessa implode senza produrre la motivazione alla prassi. L’irrilevanza, nella autopercezione dei lavoratori e di tutti, non è spiegabile semplicemente con la sconfitta del 1989, vi è nell’integralismo del neoliberismo un’eccedenza rispetto ai suoi fini, che forse sfugge anche a se stessa. Il feticismo delle merci che domina i soggetti, vampirizza la vita, umilia; le quotidiane dosi di veleno a cui si è sottoposti, la costrizione divenuta spontanea all’adaeguatio ad rem, forma a personalità disabitate dal passato, ma specialmente dal futuro. Il passato come il presente è tempo vissuto. Non vi è vissuto che nella dignità, nella scelta, nella partecipazione ad un processo di scelta e rischio, ovvero di responsabilità. Quando la vita è l’adeguarsi alle scelte del mercato, il vissuto perde di densità emotiva, si scolora fino a divenire un grigio computo di giorni, sentiti come estranei, il distacco dal contesto diviene in tal modo patologica indifferenza. Il grigiore del soggetto disabitato è fatto di un chiasso silenzioso, disabituato a pensare come ad ascoltare, vive il distacco da sé come dal mondo; si materializza la presenza di un essere umano che mentre sembra essere normalmente inserito nel dispositivo, in realtà è astratto, quasi non vive. Non sente la sua particolare ed irripetibile soggettività, ma chiuso nella quotidiana disperazione dei giorni vive come tutti, divenendo nessuno. In queste condizioni il neoliberismo può attecchire senza resistenza diffusa, fiorisce sulla dignità offesa, sul terzo articolo della nostra costituzione che ogni giorno è carta straccia o volgare retorica di personalismi rampanti all’ombra del potere politico. Per creare inutili collanti sociali, per stornare l’attenzione dalle tragedie dei giorni, si inalbera la bandiera dell’antifascismo, male assoluto, si impedisce con tale operazione mediatica di capire il male che ci attanaglia nel presente. In questo contesto la speranza è una dimensione che non ha in media motivazione ad esserci. I numeri inquietanti delle depressioni, anch’essi non interpretati, ma semplicemente constatati con abituale cinismo. Le miserie dell’abbondanza producono un’umanità disincarnata dalla propria vita. E. Bloch a tal proposito osserva che ciò che caratterizza l’essere umano, e lo fa sentire ed essere tale oltre al vissuto, al passato che determina o condiziona, è l’incompletezza: l’apertura verso una progettualità che lega l’attimo presente in una relazione estensiva e di senso al passato ed al futuro. Marx ha insegnato a E. Bloch, a tutti noi, a sperare. Il pensiero marxiano è pensiero del futuro, il passato barbarico, la preistoria, trova il suo riscatto nel futuro. Bloch non ha conosciuto la fine del comunismo, ciò malgrado comprendeva l’affermarsi della corrente fredda con la burocratizzazione dei regimi comunisti. Il congelarsi delle speranze, il disincanto allontanava i popoli dal sogno, rendendolo vulnerabile, aggredibile dal capitalismo. Bloch pone la questione, non rimandabile, del reimparare a sperare ed a pensare. Binomio inscindibile, la speranza stimola la forza plastica dei soggetti, consente d’immaginare la realizzabilità della docta spes

L ’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L ’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di quest’affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono. Non tollera una vita da cani, che si senta solo passivamente gettata in un’esistenza non capita nei suoi intenti o addirittura riconosciuta per miserabile.Il lavoro contro la paura della vita e le mene del terrore è lavoro contro coloro che impauriscono e terrorizzano, in gran parte additabilissimi, e cerca nel mondo stesso quel che può aiutare il mondo; e lo si può trovare. Quali grandi sogni si sono sempre fatti in proposito! Sogni di una vita migliore, che sarebbe possibile. La vita di tutti gli uomini è attraversata da sogni a occhi aperti, una parte dei quali è solo fuga insipida, anche snervante, anche bottino per imbroglioni; ma un’altra parte stimola, non permette che ci si accontenti del cattivo presente, appunto non permette che si faccia i rinunciatari. Quest’altra parte ha nel suo nocciolo la speranza, ed è insegnabile. Può essere ricavata dagli sregolati sogni a occhi aperti e anche dal loro astuto abuso; può essere attivata senza cortine fumogene. Non c’è mai stato uomo che abbi vissuto senza questi sogni ma l’importante è conoscerli sempre meglio e così mantenerli verso la direzione giusta, senza che ci ingannino ma in modo che anzi ci aiutino1.”

Sperare significa sottrarsi alla condizione della non vita. Per sperare, bisogna guardare senza paura il volto, i giorni della propria vita scorrere in un compito della sola quantità. Condividere l’umiliazione dei giorni, ricostruendone la genetica per chiarire a se stessi che il presente non è tutto, e la vita non si esaurisce nell’eterno ritorno della valorizzazione della merce. “Pensare significa oltrepassare”, dunque l’atto del pensare è prassi, è trasformazione, è il rischio concreto che i desideri possano negare il significato etimologico della parola desiderio, lontano dalle stelle, per farsi prossimi, vicini, concreti. Il desiderio si coniuga con la speranza ed il pensiero, è un trinomio imprescindibile, l’uno non esiste che in funzione significante dell’altro. Sperare significa discernere, non è un’operazione ingenua, per la quale si insegue il primo aquilone. La speranza esige l’atto del riannodare la contingenza con il desiderio, un’attenzione filologica alla storia materiale, al suo essere mater, madre di forme, per esseri concreti nel concreto materiale della storia e toccarne il grembo, nel quale forze e possibilità insospettabili e non scorte sussistono. Ma, prima di arrivare a vivere la corrente calda della speranza concreta, è necessario distinguere l’autentica speranza dall’inautentica, il sogno reale da quello indotto, che travia le energie plastiche per congelarle nel sogno omologato e mercificato.

L ’impiegatuccio, il piccolo borghese di cui stiamo parlando, questo ceto che per la verità non è affatto omogeneo ma che viene reso omogeneo in misura crescente, si accontenta di avere i bisogni che vengono destati attraverso le vetrine destinategli. Ciò unifica tutti i sogni borghesi e, anche nel caso di digressioni più lontane, fino alla costa azzurrissima dell’ufficio viaggi e ancora più in là, tuttavia li raziona: così che essi non fanno esplodere il mondo dato. Gli uomini di questo tipo di desideri vivono al di sopra delle proprie possibilità, però mai al di sopra delle possibilità universalmente presenti. Se questo vale per l’impiegatuccio di mezza età e con la coscienza finora così nebulosa del ceto medio, il grande borghese, cui basta il suo stato, non ha proprio motivo di far saltare l’esistente, neanche nei suoi sogni più arditi. Per lui è la cosa più facile sacrificare gli ideali della gioventù e orientare la sua volontà soltanto verso ciò che è conseguibile. Fare la persona capace, con tutti e due i piedi dentro una vita imprenditoriale che è effettivamente tale, piena di progetti che promettono guadagni, ma nel complesso senza ciò che egli chiama utopico, per lo più in tono sprezzante2.”

La prassi utopica, la concreta utopia, non è un sognare irresponsabile, una regressione infantile, una fuga dinanzi al pericolo, essa mantiene, nell’oltrepassare, disciplina, lucidità e senso critico. Sperare significa assumersi la responsabilità della prassi senza ingenuità e senza cinismo:

Dunque il sogno diurno richiede una valutazione specifica, perché esso passa a tutt’altro territorio e lo apre. Esso va dal sogno a occhi aperti del tipo comodo, scimunito, rozzo, evasivo, deviante e paralizzante, fino al sogno responsabile, calato nella cosa in modo acuto e attivo, e fino al sogno configurato dell’arte. Soprattutto si mostra che il «sognare diurno», a differenza del consueto «sogno notturno», può anche avere nerbo e invece dell’ozio, anzi dell’autosnervamento, che qui certamente c’è, può contenere uno stimolo instancabile affinché si arrivi anche a conseguire quel che ci si è raffigurato3.”

Bloch ci riporta alla responsabilità dei nostri sogni, e specialmente la sua analisi sui sogni non può che indurci a capire che spessissimo il male di vivere trova il suo radicamento nell’incapacità collettiva di discernere la speranza autentica dall’inautentica. Le speranze che si appiattiscono sulla linea dell’offerta e del consumo, e che con pirotecnici inganni attraggono torme sempre più ampie di umanità, privano la stessa di energia vitale, la rendono sempre più simile alla figura dantesca degli ignavi, perennemente all’inseguimento di un drappello, una corsa in cui il nulla e l’estraniamento ne diventano la cifra. Se la speranza inautentica diffonde il suo metafisico vuoto, ciò è dovuto alla vergogna introiettata da tanta sinistra dopo il 1989, ed alla sua complicità con il mondo della finanza. Ricominciare dalla speranza significa porre il pathos della distanza verso il presente, per pensarlo, e dunque riscoprirsi come soggetti della storia, e non come oggetti fatalmente trascinati nell’anomia del sistema liberista. Dinanzi agli effetti del neoliberismi, la speranza può fare capolino con la nostalgia della comunità. Tale nostalgia non è semplicemente reminiscenza di un passato idealizzato, è la nostalgia del futuro che in tanti, malgrado il cinismo dei giorni, cominciano ad ascoltare, e dunque a rilevarne l’assenza. Coltivare la nostalgia per il futuro è dunque il fine dei prossimi anni, dare ad essa la parola per riannodare i fili della storia che sembrano affranti dalla “fine della storia.” Imparare a sperare non è semplice, significa disimparare l’atto della reminiscenza. Spesso la cultura storica non si trasforma in speranza, poiché si guarda al passato con venerazione, o si ricostruisce il presente secondo il percorso positivo e deterministico delle scienze, per cui la contingenza non ha spazi di libertà. Reimparare a sperare significa accogliere la lezione della storia e dei grandi pensatori per elaborarla in nuove forme di vita. La lezione di Marx va ascoltata, ma senza nostalgie da epigoni, e senza venerazione. Marx stesso affermava di non essere marxista e pertanto voleva sottrarsi all’operazione della santificazione, della glaciazione del suo pensiero. Dobbiamo dunque cogliere l’occasione, affermava Bloch, per l’esodo, e perché questo sia, bisogna vivere l’XI Tesi su Feuerbach di Marx che invita alla trasformazione del mondo, ma in modo assolutamente nuovo, pur nella continuità della tradizione. La Filosofia e la politica ad essa imprescindibile vive la progettualità concreta nel segno della storia trasformata in esperienza in forme nuove:

La filosofia marxista è la filosofia del futuro, dunque anche del futuro che è contenuto nel passato; pertanto essa, in questa concentrata consapevolezza del fronte, è vivente teoria-prassi della tendenza capita, familiarizzata con l’accadere e votata al novum. E decisivo resta quanto segue: la luce nel cui raggio il totum processuale e non concluso viene riprodotto e spinto in avanti, si chiama docta spes, speranza concepita in modo materialistico-dialettico. Il tema fondamentale della filosofia, la quale resta ed è nel suo divenire, è la patria non ancora divenuta, non ancora riuscita, qual si enuclea e si forma nella lotta dialettico materialistica del nuovo col vecchio4.”

Imparare a sperare, dunque, significa non cadere nell’empiria dei fatti, in un realismo della pura quantità che con l’inganno ideologico vuol convincerci che vi è un solo modo per fare i conti, per elaborare finanze, per programmare il presente il futuro. Bloch definisce tale agire dell’intelletto, che in modo asfittico impone la tassonomia unica al fenomeno, un modus agendi presente già in Cartesio e che fa assomigliare l’azione dell’intelletto alla produzione automatica della manifattura. Il lavoro collettivo da svolgere per riaprire il presente alla dotta speranza è rompere con il gelo delle forme stereotipate per riscoprire l’eccedenza, la possibilità che convive con il ritmo della manifattura che sta occupando cuori e menti, e che necessita dell’azione di uno sguardo emancipativo. La speranza necessita dello sguardo che, mentre comprende il presente, ed astrae dal suo grembo le possibilità potenziali, nel contempo si rappresenta il futuro, e dunque si orienta verso di esso, verso un esodo che non può attendere. Lo sguardo della speranza è dunque orientato su più prospettive temporali. Ritrovare questo sguardo è la sfida a cui non possiamo sottrarci.


Note
1 E. Bloch, Principio speranza, Garzanti, 2005, pag.25
2 Ibidem pag. 45
3 Ibidem pag. 78
4 Ibidem pag. 28

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