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Contro l’Antropocene : il Capitalocene
di Caterina Molteni
Il legame tra le origini del capitalismo e lo sviluppo della crisi ambientale. Una rilettura dell’Antropocene attraverso l’analisi di Jason W. Moore e la proposta di una lettura storica, e non solo geologica, delle relazioni che co-costituiscono uomo e natura
In una recente conferenza, Donna Haraway ripropone un’espressione di Virginia Woolf, «Think we must! We must think!»,[1] per chiedere di osservare le proprie abitudini di pensiero e di linguaggio poiché, velate da un’apparente normalità, sono alla base delle principali discriminazioni di genere e semplificazioni che rendono impossibile pensare il presente. Nel corso della conferenza, la propulsiva spinta che accompagna il discorso di Haraway la condurrà a parlare di Chthulucene, argomento che verrà ripreso nella seconda parte di questo saggio. La riflessione qui presentata comincia invece dall’osservazione, grazie alle analisi di Jason W. Moore, teorico del Capitalocene, delle problematiche sorte dall’avvento dell’Antropocene: un’era geologica ormai accettata dal sentire comune, in cui l’uomo diventa attore principale di cambiamenti irreversibili sulla natura.
«Shut down a coal plant, and you can slow global warming for a day;
shut down the relations that made the coal plant, and you can stop it for good»
Jason W. Moore
La periodizzazione storica dell’Antropocene vede al suo inizio la progettazione della macchina a vapore.
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Karl Korsch
di Riccardo Bellofiore
Breve premessa (2017). Gli amici, e compagni, di PalermoGrad mi chiedono un testo che ‘introduca’ all’incontro del 11 luglio sull’attualità del Capitale (qui i dettagli dell’incontro), a 150 anni dalla pubblicazione del primo libro. Scartabellando tra vecchie cose, è saltato fuori questo mio pezzo su Karl Korsch: testimonianza di un interesse e (per molti versi) di una sintonia mai rinnegati per il consiliarismo, e per quel filone marxiano e non marxista (la distinzione si deve a Maximilien Rubel) che da Luxemburg va a Paul Mattick e, appunto, Korsch. È un testo scritto per un gruppo di studio a Torino, a Palazzo Nuovo (non ricordo in che corso), quando l’università era aperta fino alle 23 per facilitare la frequenza degli studenti-lavoratori, nel lontano 1976 (fanno giusti giusti 41 anni …). Le mie pagine possono forse utilmente fungere da ‘apripista’ ad una ben più sostanziosa “Introduzione” di Karl Korsch alla ripubblicazione in Germania del primo libro del Capitale nel 1932. Il testo venne tradotto da Gian Enrico Rusconi nella raccolta di scritti di Korsch intitolata Dialettica e scienza nel marxismo. Molte delle tesi di quella “Introduzione”, come anche del Karl Marx di pochi anni dopo, hanno retto al tempo, e rimane da chiedersi in che misura sia vero che il Capitale “per molti aspetti solo ora inizia a vivere il suo tempo”. Altre, com’è naturale, vanno messe in discussione, come cerco di accennare nel mio scritto. Quello che è certo è che, come anche Korsch non manca di rilevare, la teoria di Marx non è strettamente economica, è più propriamente di scienza sociale in senso lato eppure profondo,‘una teoria storica e sociologica’ che mal sopporta gli steccati disciplinari, che certo non si superano con un vuoto stile inter-disciplinare (vale qui la lezione di Adorno).
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Estendere la democrazia per erodere il capitalismo
intervista a Erik Olin Wright
Nell'ambito della riattivazione contemporanea delle risorse critiche interne all'analisi marxista del capitalismo, un posto preminente spetta alla ricerca di Erik Olin Wright, per la sua attenzione al problema della definizione e della registrabilità empirica delle classi. Per agevolare la comprensione del lavoro di Olin Wright, pubblichiamo, accanto a un'intervista recentemente effettuata a cura di Lorenzo Zamponi e Marta Fana, anche una presentazione complessiva di Denise Celentano della sua figura intellettuale
Che fine ha fatto oggi, la classe operaia, e quali speranze ha di costruire un’alternativa al capitalismo? Ne parliamo con Erik Olin Wright, docente di sociologia all’Università del Wisconsin, importante marxista americano contemporaneo, nonché studioso, da oltre 40 anni, delle classi sociali e delle loro trasformazioni. Wright è stato a Firenze per un seminario organizzato da COSMOS, il centro studi sui movimenti sociali della Scuola Normale Superiore, dove ha presentato la sua proposta strategica: dimenticare sia il gradualismo socialdemocratico sia la rottura comunista, e investire su un lungo processo di erosione del capitalismo, che permetta di costruire nel tempo alternative in grado di sostituirlo.
* * * *
Secondo l’ultimo rapporto Istat, la classe operaia in Italia è morta. Lei pensa che sia così? La classe operaia è morta, nel XXI secolo?
Molto dipende da ciò che si intende per “la classe operaia”. Ci sono modi di definire la classe operaia secondo cui effettivamente è in declino in termini di percentuale della popolazione. Se si definisce la classe operaia come i lavoratori manuali dell’industria, allora la classe operaia è indubitabilmente in calo in termini di numeri, e forse lo è al punto che la sua morte può essere annunciata dal vostro istituto di statistica. Ma quella è una definizione particolare della classe operaia in un’economia capitalistica.
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“Sulle orme di Marx. Lavoro mentale e classe operaia”
Prefazione
di Mauro Casadio
E’ disponibile il quaderno di Guglielmo Carchedi dedicato a “Lavoro mentale e classe operaia”, per una analisi marxista di Internet. Pubblichiamo qui di seguito la prefazione Mauro Casadio al volume curato dalla Rete dei Comunisti e da Noi restiamo. Per l’acquisto dell’opuscolo è richiesta una sottoscrizione di 5 euro scrivendo a: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it..
Lo scontro di classe internazionale ha prodotto nel ‘900 una rivoluzione ed una trasformazione radicale delle classi e del capitalismo. Prima con le rivoluzioni, che hanno cambiato il mondo aprendo una prospettiva socialista in Russia, in Cina, e poi nelle “campagne” che hanno circondato le città ovvero Cuba, Vietnam e tutte le altre esperienze antimperialiste. Uno scontro vero dove una alternativa sociale è emersa e si è imposta anche se con i limiti di una trasformazione che doveva fare i conti con un’assenza di esperienze storiche precedenti.
A questo pericolo “mortale” per l’imperialismo vissuto come la “grande paura” del secondo novecento, perchè cosi era percepito e cosi era effettivamente, il capitalismo ha risposto sul piano politico, militare, ideologico. Solo però, di fronte alla crisi di sovrapproduzione degli anni ’70 si è cominciato a reagire anche sul piano di un cambiamento strutturale del modo di operare del capitale che ha avviato a sua volta una propria “rivoluzione” produttiva e sociale.
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La crisi marxista del Novecento: un’ipotesi d’interpretazione
di Stefano Garroni
ma perché quell’angoscia
s’è fatta chiaro cosciente dolore.
O tempo, scatena ancora
Le parole d’ordine leniniste.
Dobbiamo forse affondare
In uno stagno di lacrime?”
(Majakovskij)
Quelle che qui seguono sono schematiche osservazioni, spero raccolte con una certa logica e sistematicità, il cui scopo è prospettare una possibilità di lettura d’un groviglio di eventi, quanto mai complicato e dalle molte sfaccettature, che – nonostante certa uggiosa retorica <novista> – costituiscono tuttora la nostra contemporaneità. Che si tratti di una possibilità di lettura significa non solo il limite della mia cultura (ad es., non sono un economista, né uno storico), ma anche che la cosa stessa si dispone secondo diverse prospettive e angolazioni (aspetto questo che certamente non meraviglia chi abbia qualche familiarità con la dialetticità della storia).
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Non c’è comunità senza antagonismi
di Giulio Di Donato
Il dibattito sul “populismo di sinistra”, sulla scia delle elaborazioni di Ernesto Laclau, si fa sempre più interessante. Al fine di far confrontare ed esprimere opinioni diverse sull’argomento, riceviamo e ospitiamo un contributo di Giulio Di Donato, autore, con Tonino Bucci, del volume “Quale sinistra?” (Rogas edizioni, 2016)
La tradizione filosofica, da Platone e Aristotele in poi, ha sempre pensato l’uomo come un animale comunitario. La stessa razionalità che il pensiero greco del logos ha elevato a tratto specifico della natura umana, è da intendersi – lo si è visto non semplicemente come “ragione”, ma anche come “linguaggio”, come propensione a vivere in uno spazio pubblico di relazioni. Eppure, quel rischio che già a Platone doveva apparire come il principale pericolo per la sopravvivenza della polis greca, il rischio di regressione del collettivo nel singolare, del cittadino nella sfera dell’individualità, sembra aver sopraffatto la politica del nostro tempo. La brama di possesso, il desiderio dell’affermazione di sé sugli altri, il prevalere della pleonexia suonano come una conferma attuale dei timori platonici, il segno di una definitiva vittoria delle istanze dell’anima umana più ostili alla sopravvivenza di una comunità politica.
Siamo allora destinati a ripiegarci nel privato, indifferenti al governo di oligarchie sempre più sottratte al controllo dei governati, senza più possibilità di proiettare nella politica domande di cambiamento della nostra stessa vita? Uno scenario apocalittico al quale la realtà tende ad assomigliare, ma che – per fortuna – non potrà mai realizzarsi del tutto, a meno di un collasso di qualsiasi forma di comunità. Non può esistere una società che riesca ad abolire del tutto la necessità della politica. Nessun sistema istituzionale – per citare il famoso autore de “La ragione populista”, il filosofo argentino Ernesto Laclau – potrebbe spingersi fino al limite di mantenere isolate tra loro le istanze individuali e assorbirle in maniera differenziale all’interno del sistema stesso – cioè senza che si stabiliscano relazioni orizzontali e si formino identità collettive.
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Henri Lefebvre lettore di Antonio Gramsci?
André Tosel (Université de Nice)
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1/2017, dal titolo "L'egemonia dopo Gramsci: una riconsiderazione" a cura di Fabio Frosini. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1017/951
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Quando con Domenico Losurdo e Fabio Frosini abbiamo deciso di varare la rivista “Materialismo Storico” e abbiamo cominciato a costruirne il Comitato scientifico, tra i primissimi nomi ai quali ci siamo rivolti c’è stato subito quello di André Tosel, con il quale in passato tante volte avevamo collaborato - ricordo tra le altre cose il convegno di Nizza della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx su L 'idée d’époque historique, del settembre 2000 - e al quale ci legava non solo un’immensa stima culturale ma anche un grande affetto.
André accolse con entusiasmo la proposta e ci incoraggiò nella nostra iniziativa inviandoci per l’occasione due testi inediti. Il primo è stato pubblicato sul numero 1-2/2016 della nostra rivista, con il titolo Althusser e la storia. Dalla teoria strutturale dell’intero sociale alla politica della congiuntura aleatoria e ritorno (pp. 161-84). Il secondo è un saggio sul mancato incontro intellettuale di Lefebvre con Gramsci, che pubblichiamo in questa circostanza.
Adesso che André ci ha lasciati. Continueremo nei prossimi numeri a pubblicare i suoi lavori inediti in Italia: ci sembra il modo migliore e culturalmente più fecondo per ricordare un intellettuale e un compagno al quale tanto dobbiamo e che tanto ci mancherà [Stefano G. Azzarà].
* * * *
Per quanto ne sappiamo, la questione dei rapporti tra il pensiero di Henri Lefebvre e quello di Antonio Gramsci non è mai stata studiata. Il punto interrogativo è particolarmente giustificato dal momento che l’autore dei Quaderni del carcere è assai poco citato nell’opera sovrabbondante di Henri Lefebvre.
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Perché l’uscita dall’euro è internazionalista
III. Oltre il rifiuto del politico. L’euro come anello fondamentale del recupero della lotta politica
di Domenico Moro
È necessario sul piano politico e prima ancora sul piano teorico il superamento di una visione unilaterale della realtà, che guardi unicamente o al livello statale o a quello sovrastatale. In ogni fase storica va definito qual è il rapporto concreto che lega i livelli statale e sovrastatale dell’accumulazione di capitale. Nell’epoca del capitalismo globalizzato lo stato nazionale non si eclissa, si trasforma. Le funzioni che è più utile tenere al suo interno e sulle quali il controllo della classe dominante è più saldo, vengono rafforzate. Viceversa, vengono delegate a organismi sovrastatali le funzioni il cui controllo da parte della classe dominante è più debole o incerto o la cui modifica è richiesta dalle caratteristiche della fase dell’accumulazione capitalistica.
La conseguenza principale dell’unione economica e valutaria europea (Uem) non è stata l’eliminazione della sovranità nazionale dello stato, ma la modificazione dei rapporti di forza tra le classi all’interno dello Stato, a favore dello strato di vertice e internazionalizzato del capitale. Di conseguenza, l’obiettivo politico principale della classe lavoratrice nel contesto europeo non è tanto la rivendicazione della sovranità nazionale, quanto il recupero e l’allargamento dei livelli precedenti di sovranità democratica e popolare.
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Discussioni su globalizzazione, Unione Europea e destino nazionale
di Alessandro Visalli
Su Sinistrainrete è stato pubblicato un interessante dibattito a distanza tra Franco Russo, autore di un articolo dal titolo “L’Unione Europea nella globalizzazione” e Mimmo Porcaro, che replica con “La UE e l’Italia dentro la ‘fine’ della globalizzazione”.
Il saggio di Franco Russo cerca di esaminare le reazioni di organi della Ue, e suoi rappresentanti, alla sbandierata politica americana all’insediarsi di Trump. La tesi alla quale reagisce è quella (certamente prematura) che il ciclo della globalizzazione si sia chiuso, e si stia affacciando una nuova fase di protezionismo e difesa degli interessi nazionali. Secondo Russo questa idea nasconde in seno quella che il commercio senza protezioni, il “libero commercio” (sul quale abbiamo letto la posizione di Engels nel 1888), sia in sè portatore di pace e relazioni armoniche. Invece per l’autore, ma evidentemente anche per il “generale” (come era soprannominato Engels), nel mercato mondiale si svolgono sempre scontri egemonici: il libero commercio è intrecciato con i poteri imperiali, politici e militari (all’epoca inglesi) e con la competizione, non meno del protezionismo. Ma per Russo la particolarità contemporanea è che questa costante competizione, nelle attuali condizioni, avviene tra “grandi spazi economico-politici”.
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Perchè Lenin?
di Tariq Ali
Pubblichiamo la traduzione di un estratto dal nuovo libro di Tariq Ali “The Dilemmas of Lenin“
Perchè Lenin? Per prima cosa quest’anno è il centenario dell’ultima più grande rivoluzione d’Europa. A differenza di quelle precedenti la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 trasformò le politiche mondiali e, nel processo, trasformò il ventesimo secolo con l’assalto frontale al capitalismo ed al suo impero, accelerando la decolonizzazione. Secondariamente l’ideologia dominante odierna e le strutture di potere che difende sono talmente ostili alle lotte sociali e di liberazione del secolo scorso che la riscoperta di quanta più memoria politica e storica possibile è di per sé un atto di resistenza. In questi brutti tempi persino l’anticapitalismo in offerta è limitato. E’ apolitico e non storico. Il vero scopo della lotta contemporanea non dovrebbe essere di imitare o ripetere il passato ma di assorbire le lezioni sia positive che negative che offre. E’ impossibile raggiungere questo scopo però se si ignora il soggetto dello studio. A lungo, nello scorso secolo, coloro che onoravano Lenin per lo più lo ignoravano. Lo santificavano ma raramente ne leggevano gli scritti. Più spesso che non, e in ogni continente, Lenin è stato male interpretato e usato in malo modo per scopi strumentali proprio dai suoi sostenitori: partiti e sette, grandi e piccoli che ne reclamavano il mantello.
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Seimila anni di società complesse
di Pierluigi Fagan
Sugli ultimi raggiungimenti dell’archeologia complessa[1] su cui basare la proto-storia[2], ci informa M. Liverani con la riedizione del suo: Uruk, la prima città, Laterza, Bari Roma, 1998-2017. Il periodo è quello Antico Uruk – Tardo Uruk in Mesopotamia, tra il 4000 ed il 3000 dove una società a doppia circonferenza centro-periferia, ruota intorno ad una forte credenza condivisa[3], amministrata da un centro templare. Questo possiede una sua élite e sua mano d’opera ma si avvale anche di corveé generali stagionali per la coltivazione di propri campi di orzo che poi, sottratto l’automantenimento del centro templare, viene accumulato e reinvestito in scopi sociali. In termini di libertà, concetto caro ai moderni, il popolo era suddito per le questioni politiche e fiscali ma libero dal punto di vista economico. Le élite templari dicendosi suddite degli dei ed amministrando la credenza condivisa, accumulavano potere gerarchico sociale. L’economia era mista tra pubblico e privato, sia nel possesso di terra che nella sua lavorazione, non meno che nell’artigianato e nel sistema di scambio esterno mercantile.
L’emersione di queste prime forme di gerarchia che iniziano la prima complessità delle società sembra provenire da un processo funzionale, l’autorganizzazione sociale trova la via più facile per reggere la propria crescente complessità[4] riducendosi spontaneamente in un centro che quindi non si afferma per coercizione.
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L’eccezione esemplare. La Rivoluzione Finlandese
di Eric Blanc
La dimenticata rivoluzione finlandese è forse fonte di maggiori insegnamenti che gli stessi avvenimenti del 1917 in Russia, stando alla ricostruzione di Eric Blanc*, che presentiamo nella traduzione di Valerio Torre del blog Assalto al cielo (assaltoalcieloblog.wordpress.com)
Nel secolo appena trascorso, i lavori di ricerca storica sulla rivoluzione del 1917 si sono per lo più concentrati su Pietrogrado e sui socialisti russi. Ma l’impero russo era prevalentemente composto da non-russi, e le convulsioni nella periferia erano solitamente esplosive come quelle del centro.
Il rovesciamento dello zarismo nel febbraio del 1917 scatenò un’ondata rivoluzionaria che inondò immediatamente tutta la Russia. Forse la più eccezionale di queste insurrezioni è stata la rivoluzione finlandese, che uno studioso ha definito «la più esemplare guerra di classe nell’Europa del XX secolo».
L’eccezione finlandese
I finlandesi costituivano una nazione differente da qualsiasi altra sotto il dominio zarista. Appartenuta alla Svezia fino al 1809, quando fu annessa alla Russia, la Finlandia godeva di autonomia governativa e libertà politica ed ebbe infine anche un parlamento proprio, democraticamente eletto. Benché lo zar tentasse di limitarne l’autonomia, la vita politica di Helsinki somigliava più a quella di Berlino che di Pietrogrado.
In un’epoca in cui i socialisti nel resto della Russia imperiale erano costretti ad organizzarsi in partiti clandestini ed erano perseguitati dalla polizia segreta, il Partito socialdemocratico finlandese (Psd) faceva politica legalmente.
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"Il marxismo occidentale" di Domenico Losurdo
Recensione di Elena Fabrizio
In un testo del 1993 (Cultura e imperialismo) lo studioso palestinese Said, nell’indagare la complicità della cultura occidentale con il progetto egemonico imperialista, imputava a Foucault, alla teoria critica della Scuola di Francoforte e in genere il marxismo occidentale di non essersi dimostrati «alleati affidabili della resistenza all’imperialismo», addirittura di fare parte «di quello stesso, offensivo “universalismo” che ha per secoli collegato la cultura all’imperialismo».
Sul versante africano, lo storico ed economista Hosea Jaffe (Abbandonare l’Imperialismo, 2008), nel denunciare il più grande «abbandono» della storia dell’umanità, il «terzo mondo» abbandonato dall’imperialismo del «primo mondo», richiamava alla lotta di classe anti-imperialista attraverso un’azione collettiva, politica ed economica di contro abbandono marcata dalla distanza che separa il marxismo-leninismo dal marxismo occidentale. Quest’ultimo, concentrandosi sulla dicotomia socialismo versus capitalismo e avendo amputato il capitalismo della sua radice imperialistica, meritava l’appellativo di «eurocentrico e amerocentrico» e convinceva Jaffe a guardare alla Cina, il paese che ha realizzato la più grande rivoluzione anticoloniale della storia, e alla sua economia «anti-imperialista in sé e nei suoi effetti» quali possibili sostegni di una storia rivoluzionaria alternativa dei paesi anti-imperialisti.
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Cos'è il populismo?
Recensione di Laura Sugamele
Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo?, traduzione Elena Zuffada, con un intervento di Nadia Urbinati, Università Bocconi editore, Milano 2017, pp. 137
La questione attorno alla quale ruota questo saggio scritto da Jan-Werner Müller, professore di politica alla Princeton University, è il populismo, un argomento ormai alla ribalta delle discussioni politiche e che sta investendo la società attuale, che vede coinvolti i movimenti di destra come quelli di sinistra; dal movimento del Front National di Marine Le Pen a quello greco di Syriza e di Podemos in Spagna; gli Stati Uniti con Donald Trump e il movimento cinque stelle in Italia.
L’autore pone il populismo come realtà presente nella politica attuale, contrasto e contrapposizione alla democrazia, laddove il termine viene adoperato o etichettato come «anti-establishment» (p. 5), nel senso che si frappone a una determinata idea politica o ad un progetto politico.
Ciò su cui si pone immediatamente attenzione nel testo è l’idea che l’opinione pubblica ha del populismo o dei movimenti populisti in generale, come di un qualcosa caratterizzato più che altro da contenuti irrilevanti e da una emozionalità e una aggressività che porta i populisti a puntare sul malcontento popolare facendo incanalare la generale frustrazione, in direzione di una opposizione alle politiche europee.
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L’inganno della sovranità europea
Una risposta a Tomaso Montanari
di Ferdinando Pastore*
Nell’era del pensiero unico neo-liberista, nella quale appare inverosimile mutare le politiche d’indirizzo economico, presentate alla collettività come necessarie, ineluttabili, dettate dal pilota automatico, si rincorrono, in Italia, tentativi di ricostruzione della sinistra, che di continuo sono progettati mediante appelli alla società civile al fine di attuare la Costituzione italiana
Costituzione, società civile, corpi intermedi
Già gli appelli alla società civile, entità astratta e non corrispondente ad alcun blocco sociale, sembrano in aperta contraddizione con lo spirito costituzionale, dato che essi si servono delle medesime caratteristiche di spoliticizzazione della società che sono insite nella prassi neo-liberista: il primato dell’economia sulla politica, il mito del privato rispetto al pubblico, la denazionalizzazione della moneta, lo smantellamento dello stato sociale, l’annientamento dei corpi intermedi ormai chiusi in apparati ermetici ma al contempo innocui e congeniali per il mantenimento dello status quo.
Difatti, proprio quando ci si rivolge alla società civile, si lascia intendere che i diritti sociali, ispirati a principi solidali e non mercantilistici, un tempo protetti dallo Stato, hanno perso la loro funzione politica: quella di dare rappresentanza allo scontro sociale.
Essi sono così sostituiti dagli interessi dei gruppi di pressione, che ancora organizzati in apparati burocratici, in realtà, perseguono fini privati, tendenti al mero profitto economico e trovano terreno fertile nel momento in cui il neo-liberismo ha operato una mutazione sostanziale dell’individuo ormai ridotto a imprenditore di sé stesso e a eterno soggetto desiderante, non più in grado di prendere coscienza delle condizioni di sfruttamento nei rapporti produttivi e di alienazione nella propria condizione esistenziale (1).
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“Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo”
G. Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
Dopo il salvataggio delle banche venete, per l’economista siamo giunti ad un sistema che privatizza i profitti e socializza le perdite: “L’intervento dello Stato a favore dei capitali privati, tra l'altro, implica aumenti significativi del debito pubblico”. Così boccia la visione dello Stato come semplice “ancella” del capitale privato e non vede in Italia forze politiche capaci di proporre un'alternativa: “A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi”. Difendere la Costituzione? “Non basta”.
«Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite». Con una recente intervista in cui dichiarava che alle presidenziali francesi non avrebbe votato «né per la fascista Le Pen né per il liberista Macron» Emiliano Brancaccio aveva diviso il popolo della sinistra. Ora - a partire dal recente provvedimento del governo che in una notte ha stanziato ben 5 miliardi per il salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza - l'economista ragiona sulle contraddizioni del nuovo intervento statale in economia, fatto soprattutto di compravendite a favore del capitale privato. Il mondo intorno a noi si trasforma mentre, secondo lui, in Italia la sinistra si attarda in «una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici e ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo».
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La Germania incantata
Collettivo Clash City Workers
Il ruolo svolto dalla Germania a livello politico ed economico all'intemo del contesto europeo - e, più in generale, di quello mondiale - è sotto gli occhi di tutti e nelle parole di molti di più.
Il nesso che si è affermato tra le sue performance economiche e la sua preminenza politica ha, inoltre, posto la Germania alternativamente come nemico da combattere o come modello da imitare.
La luce del 'miracolo' tedesco non dovrebbe però impedirci di ricostruirne la genesi, considerarne i fondamenti e, così facendo, cogliere la vasta zona d'ombra che, come vedremo, lo avvolge se si guarda alla realtà sociale. Così facendo emergono delle linee di frattura assai diverse: non tanto lungo i confini geografici bensì interne alla società tedesca stessa, che la accomuna a una situazione presente in tutta Europa.
Due eventi possono essere considerati al contempo come spartiacque della recente storia tedesca e come snodi nel processo di edificazione della sua egemonia:
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Dopo la rivoluzione: i primi atti del potere sovietico
di Vladimiro Giacchè*
Uno stralcio dell’introduzione di Vladimiro Giacché al volume Lenin, Economia della rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 2017, da oggi in libreria; sono state riprodotte le pagine 14-19, eliminando poche righe di testo, nonché alcune note e riferimenti testuali. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore questa parte del libro è stata pubblicata da Marx XXI e condividiamo su Fattore K
Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà. Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare innanzi tutto quelle premesse della civiltà che sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la marcia verso il socialismo?
LENIN, Sulla nostra rivoluzione, 17 gennaio 1923
Quando Lenin, il 30 novembre 1917, licenziò per la stampa Stato e rivoluzione, accluse un poscritto in cui informava il lettore di non essere riuscito a scrivere l’ultima parte dell’opuscolo originariamente prevista. E aggiunse: «la seconda parte di questo opuscolo (L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) dovrà certamente essere rinviata a molto più tardi; è più piacevole e più utile fare “l’esperienza di una rivoluzione” che non scrivere su di essa».
L’esperienza in questione era iniziata il 25 ottobre 1917 (7 novembre secondo il calendario gregoriano, che dal marzo 1918 sarebbe stato adottato anche in Russia). La notizia era stata comunicata ai cittadini russi attraverso un appello, scritto dallo stesso Lenin, in cui si dava notizia dell’abbattimento del governo provvisorio guidato da Kerenskij e del passaggio del potere statale «nelle mani dell’organo del Soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario».
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Marxismo Oggi: dalla rivista al sito
di Alexander Höbel
1. Perché “Marxismo Oggi”
Più volte nella storia si è assistito a fasi di crisi del marxismo; più volte, anzi, lo stesso marxismo è stato dato per morto. Eppure la materialità e irriducibilità delle contraddizioni reali hanno ogni volta posto di nuovo all’attenzione di studiosi e opinione pubblica, intellettuali e masse, il valore e l’utilità del marxismo come strumento analitico della realtà.
Negli ultimi decenni si è assistito a un’offensiva più decisa, una sorta di destrutturazione-delegittimazione dell’approccio e dello stesso lessico marxista, ad opera dei sostenitori del “pensiero unico” e dalle loro “corazzate” mediatiche. L’ondata neoliberista iniziata già negli anni Settanta, l’omologazione culturale avanzata nel decennio successivo e il crollo del “socialismo reale” nel 1989-91 hanno determinato le condizioni fondamentali per tale controffensiva ideologica, celata dietro il velo della “fine delle ideologie”.
L’approccio marxista veniva il più possibile espunto dalle università, dalle case editrici, dai centri di ricerca, oltre che ovviamente dai mass-media.
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Sul concetto di socializzazione
di Sebastiano Isaia
L’esistenza di una classe che non possiede
null’altro che la capacità di lavorare, è una
premessa necessaria del capitale (K. Marx).
La Comunità non troverà pace, armonia e
felicità fin quando non ruoterà attorno
al sole dell’individuo che non conosce
classi sociali.
Socializzare il Capitale non è un’ipotesi come un’altra, ma una vera e propria sciocchezza concettuale, un’assurdità dottrinaria, un ossimoro che si giustifica solo con una profonda ignoranza circa il concetto di Capitale da parte di chi dovesse sostenere il carattere rivoluzionario di quel vero e proprio pastrocchio ideologico. Vediamo, in breve, perché.
Comincio affermando senza alcun tentennamento che un abisso ideale e reale separa il concetto di socializzazione dei presupposti materiali della produzione della ricchezza sociale (mezzi di produzione, materie prime, ecc.) dai concetti di nazionalizzazione e statizzazione (1) di questi stessi presupposti – che nelle sue opere “economiche” Marx definisce «condizioni oggettive di lavoro».
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Non comune
Jacques Rancière
Non la smettiamo un secondo di «fare del comune» e di «essere fatti dal comune». Tutto sta nel sapere quale
A prima vista sembrerebbe paradossale presentare, nell’ambito di questa mostra e nel contesto di una conferenza sul comunismo, una relazione dedicata al non comune. Per spiegare questa scelta devo cominciare scartando subito un malinteso. Il non comune di cui parlo non è l’individuale, il separato, l’unico. Per abbordare la questione del comune e del comunismo bisogna uscire dalla concezione che oppone la comunità alla solitudine o all’egoismo dell’individuo separato. In molti discorsi che vengono fatti sul comune, la comunità o il comunismo, è come se si trattasse di creare un comune che non esiste, come se la condizione degli individui nelle nostre società fosse una condizione di isolamento da denunciare, e cui dovremmo porre rimedio. Ci trasciniamo dietro ancora oggi la visione secondo cui il socialismo e il comunismo del XIX secolo hanno ereditato il pensiero contro-rivoluzionario. Questa visione ha fatto della Rivoluzione francese il compimento della catastrofe individualista moderna cominciata col protestantismo e proseguita con l’Illuminismo. Questo individualismo avrebbe strappato gli individui alla solidarietà e alla protezione del grande tessuto sociale costituito dalle gerarchie tradizionali, trasformandoli in atomi isolati. Ma conviene uscire da questa drammaturgia tragica dell’individualismo. Noi non siamo in alcun modo degli esseri isolati. I nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni individuali si inseriscono in una moltitudine di forme di comunità.
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Il salvataggio delle banche? Vuol dire che i soldi ci sono…
Radio Città Aperta intervista Maurizio Donato
Il “salvataggio” delle due banche venete, a beneficio di BancaIntesa, grida vendetta già al primo sguardo (vedi qui ). Per esserne sicuri, però, bisogna far parlare gli economisti. Radio Città Aperta ha intervistato Maurizio Donato, docente all’università di Teramo
Grazie della tua disponibilità. Aiutaci a capire un pochino meglio di cosa si tratta… IntesaSanPaolo ha firmato con i liquidatori della Popolare di Vicenza e Veneto Banca il contratto di acquisto al prezzo simbolico di un euro di alcune attività e passività facenti capo alle due banche venete, con autorizzazione unanime del consiglio di amministrazione. Si parla di operazioni di salvataggio delle due banche… A noi sembra un grande affare a pochissimo prezzo per Intesa San Paolo. Però da profani ci affidiamo a te per capire qualcosa di più.
I profani, come dici tu, ci beccano spesso, perché non c’è dubbio che si tratta di un buon affare in cui sono coinvolti diversi attori, a cominciare dalle banche. E la parola che hai detto – “alcune attività” – è un po’ la parola chiave. Cioè, ci sono attività redditizie e queste Intesa San Paolo ha voluto acquistare, sia pure alla cifra simbolica di un euro, e ci sono attività che sono andate male, crediti irrecuperabili o difficilmente recuperabili. Ed è qui il punto, se vuoi, politico della questione: i debiti irrecuperabili, Intesa San Paolo ha detto: “quelli non li compro, se li accolli la bad bank dello Stato italiano”, cioè i contribuenti, “e noi invece prendiamo solo quello che ci interessa”. E’ interessante perché possano venire fuori questioni che riguardano almeno tre soggetti: il governo italiano, l’Unione europea e la crisi in generale. Se vuoi diciamo qualche parola su ognuna di queste questioni.
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Il Comunista negato
Un soggetto in bilico tra regresso e coazione a ripetere
di Giovanni Mazzetti
Presentazione quaderno n. 7/2017
Quando cadde il muro di Berlino, e i paesi del cosiddetto comunismo reale attraversarono un profondo cambiamento sbarazzandosi dei preesistenti regimi, l’Associazione per la Redistribuzione del lavoro aveva appena avviato il suo cammino con la pubblicazione dei primi due libri dedicati ai profondi mutamenti che stavano intervenendo nel processo della riproduzione del lavoro. Ma il rivoluzionamento politico in corso, col crollo della prima disastrosa esperienza di comunismo, imponeva di non eludere un confronto approfondito con quanto stava accadendo. Il gruppo di ricerca dell’epoca si concentrò così su un’analisi delle cause del crollo di quei regimi e sulle ripercussioni che probabilmente avrebbero avuto sui paesi del mondo occidentale. Questo lavoro, durato tre anni, portò alla pubblicazione di due testi: Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario (Editori Riuniti) e L’uomo sottosopra (Manifestolibri), oltre alla pubblicazione di numerosi saggi su giornali e riviste tesi ad approfondire singoli aspetti della questione.
Nonostante quelle riflessioni avessero una buona circolazione non trovarono un terreno favorevole al loro attecchimento, né sollecitarono una confutazione critica. D’altronde, invece di sfociare in un nuovo approccio culturale, la crisi del comunismo si trasformò pian piano in un progressivo sfilacciamento delle precedenti convinzioni e dei valori che le accompagnavano.
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Discorso sul colonialismo
Aimé Césaire
Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza.
Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi più impellenti è una civiltà ferita.
Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda.
Fatto sta che la civiltà così detta «europea», la civiltà occidentale, così come si è costituita in due secoli di regime borghese è incapace di risolvere i due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del proletariato e il problema coloniale; che deferita alla sbarra della «ragione» come a quella della «coscienza», quella stessa Europa è incapace di giustificarsi; che, quanto più, si rifugia in una ipocrisia sempre più odiosa, tanto più diminuiscono le sue possibilità di ingannare.
L'Europa è indifendibile.
Questa sembra essere la constatazione che scambiano a bassa voce gli strateghi americani.
La cosa in sé non sarebbe grave.
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La Ue e l’Italia dentro “la fine” della globalizzazione. Una replica
di Mimmo Porcaro
Per dimostrare che la globalizzazione è viva e vegeta Franco Russo deve riconoscere che i processi di internazionalizzazione degli scambi, della finanza e della produzione sono sempre stati e sono ancor di più oggi il luogo di un aspro conflitto in cui i diversi stati usano tutti i mezzi, compreso il protezionismo e lo scontro militare, pur di difendere le proprie imprese. (vedi il saggio di Franco Russo)
Con il che, però, Franco Russo dichiara che la globalizzazione è morta (o meglio che essa, come il sottoscritto pensa da molto, in realtà non è mai nata). L’idea di globalizzazione contro cui polemizzano i critici non è infatti quella che prende atto dell’internazionalizzazione, ma quella secondo cui tale internazionalizzazione, rafforzando l’interconnessione dei mercati e della produzione, realizza una situazione di sostanziale autoregolazione del mercato che rende superflua o meramente ausiliaria la funzione degli stati nazionali. Lo stesso Russo ci da invece vari esempi di attivo intervento degli stati nazionali nella battaglia competitiva, intervento che può spingersi fino alla guerra: e questo, in sede di polemica spicciola, potrebbe bastare per dire che Franco dimostra il contrario di quello che afferma. Ma qui non si tratta di polemica spicciola, bensì di una discussione che ci accompagnerà a lungo. Bisogna quindi approfondire.
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