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Marta Fana, “Non è lavoro, è sfruttamento”

di Alessandro Visalli

Il libro di Marta Fana è del 2017, ed è un duro ed informato atto di ricognizione ed accusa delle condizioni nelle quali trenta e più anni di controriforme hanno condotto il mondo del lavoro precipitando il mondo in occidente in una spirale distruttiva ed autoalimentata di impoverimento prima di tutto umano. Alcuni fenomeni emergono contemporaneamente per la buona ragione che sono tutti parte di un nuovo modo di produzione e riproduzione che si afferma a partire dall’esito della crisi terminale del modo di produzione che per semplicità chiameremo ‘keynesiano’: un immane spostamento delle risorse dalla distribuzione via lavoro a quella via rendite e profitti; la crescita della ineguaglianza e della concentrazione patrimoniale in pochissime mani; la mutazione dei meccanismi di creazione di valore sempre più dalla produzione materiale ai servizi, in particolare finanziari; la frammentazione ed il coordinamento delle catene produttive lungo linee di dispersione della prima e di concentrazione dei secondi, segmentati per valore aggiunto; l’indebolimento, in corrispondenza alle trasformazioni sopra indicate, della forza e della posizione del lavoro e dei lavoratori non strategici.

Forniscono le gambe a tutto questo, costituendone insieme un effetto ed una precondizione: una ‘piattaforma tecnologica’ fatta di automazione flessibile; strutture di comunicazione contemporaneamente ubiquitarie e monopolistiche; l’interconnessione centrata sui valori e gli interessi di una ristretta èlite cosmopolita e delle sue aziende multinazionali.

Questa trasformazione va insieme ad una nuova visione dell’uomo che si vede solo e costantemente sfidato, e che quindi rintraccia il senso, unito ad un certo orgoglio, nel riuscire a prevalere con le proprie sole forze e distinguersi. Questa antropologia è, in via definitoria, contraria alla permanenza di una classe media e di ogni stabilità.

Marta Fana parte dalla tragica lettera di un povero ragazzo suicida poco più di un anno fa, per formulare il suo atto di accusa contro gli effetti di tutto questo. Gli effetti di una risposta feroce che è stata messa a punto a forza di controriforme portate avanti, dalla destra come dalla sinistra, per decenni a indebolire costantemente il mondo del lavoro, renderlo flessibile e precario, apparentemente allo scopo di combattere la disoccupazione, in realtà coltivandola.

Necessariamente, infatti, questo mondo si regge su una costante e ben coltivata deflazione salariale e crescente disoccupazione cosiddetta ‘strutturale’ (o ‘naturale’) che è la necessaria premessa per concentrare il valore nei segmenti superiori della catena e in particolare nelle mani di chi controlla i capitali.

L’inganno più atroce è che questa necessità di classe è stata venduta per anni come una conquista di libertà, e spesso anche come espansione dei diritti. Ma di una libertà e di diritti rigorosamente individuali e da fruire da soli, mentre ogni autentica libertà presuppone non già l’assenza di impedimento, ma l’abilitazione nella costitutiva connessione tra individuo e cornice normativa della società. Dunque nessuno è libero da solo, crederlo è una forma estremamente grave di sociopatia di cui soffre chi crede, normalmente a partire dai suoi privilegi erroneamente considerati naturali, di essere al sicuro dalla necessità del sostegno e non riconosce che questo gli viene in effetti solo dalla società nel suo complesso, che lo ha concesso. Come avevano scritto in “Ripensare i fondamenti: la libertà”, il vero scopo, per essere ‘liberi’, deve essere di garantire che nella realtà sociale tutta, istituzioni incluse, sia possibile dispiegare delle socialità nelle quali gli individui possano scegliere senza coazione e disponendo delle necessarie risorse materiali. La libertà si deve dare, cioè, nella sfera dell’oggettività o non essere. Questo era lo scopo del socialismo che abbiamo del tutto dimenticato nel 1989: la libertà, insomma, è generata dalla cooperazione sociale.

Averlo del tutto dimenticato, in primo luogo nel mondo del lavoro e della produzione, ha portato a questa discesa agli inferi nella quale i rapporti di forza, che sono la sostanza dei processi economici, sono nascosti sotto una spessa coltre di inganni. In primo luogo, dunque, come scrive Marta Fana bisogna ricostruire tutto l’immaginario del lavoro.

Ed a questo fine bisogna anche capire le manovre che tendono a nascondere questi rapporti di forza, indicando nemici di comodo, come il contrasto generazione, del tutto inconsistente (dove la direzione causale è rovesciata) o l’immigrazione, notevolmente amplificato (dove lo sguardo è mal diretto). Bisogna capire che il nemico dei lavoratori poveri e delle loro periferie non sono le generazioni precedenti, che avrebbero accumulato il debito (quando a farlo, casomai, sono stati i meccanismi messi in campo per danneggiare i lavoratori), né i poveri che si affollano verso le poche risorse disponibili (quando sono invece coloro i quali queste risorse rendono scarse).

Per mostrare la vera direzione della lotta Marta Fana ricostruisce puntualmente l’evoluzione degli ultimi trenta anni, mostrando le retoriche messe in campo (i “bamboccioni”, ad esempio) e il loro scopo, ma anche i singoli meccanismi: il coworking (p.9), la chiamata a voucer introdotti dalla riforma Biagi (p.16), il lavoro intermittente, consolidato dalla Fornero (p.21), il Job Act (p.25).

E quindi le forme di fusione tra tecnologia e debolezze normative che ricordano il lavoro senza diritti ottocentesco: le piattaforme e la gig economy che ricordano, con la logistica dell’ultimo metro sempre più frenetica e pericolosa con l’algoritmo sulla piattaforma che registra ogni tuo respiro, ogni momento di pausa, e definisce un rapporto di forza del tutto impersonale capace di schiacciare completamente ogni singolo.

Ma anche la logistica, Amazon, Dhl che si concentrano sempre più sulla digitalizzazione e la robotizzazione nell’aspirare nei loro ‘spazi digitali’ ogni frammento di valore catturabile. Tutto questo non deve essere inteso come ‘modernità’ e sviluppo, molto spesso si tratta solo di una vernice brillante su forme antiche: cottimi e caporalati (p.46).

Né si tratta di tecnologia, è più vero che la tecnologia segue e viene sviluppata in questa direzione perché serve il totale controllo dei tempi per spostare i rapporti di potere di fronte alla sfida che gli ultimi anni settanta, ovunque, avevano portato al controllo capitalista, lo avevamo visto in “Le lotte operaie alla Fiat negli anni settanta”, lo riguarderemo rileggendo il libro di Bruno Trentin “Il sindacato dei consigli”. Come scrive Marta Fana, “non si sta affermando che la robotizzazione dei processi, la gestione e l’indirizzo politico del suo impatto a livello sociale ed economico non siano un tema urgente bensì che la svalutazione del lavoro precede questa trasformazione. Anzi in un certo senso la frena dal momento che la mancata tensione indotta da un aumento del costo del lavoro riduce l’incentivo delle imprese a investire in innovazioni tali da risparmiare sul fattore lavoro” (p.55). Come controprova si potrà osservare l’effetto più probabile degli investimenti rivolti a modernizzare ed efficientare le industrie (ad esempio “industria 4.0”) negli effetti che produrrà almeno nel medio termine sull’occupazione.

I ‘sacrifici’ che da Lama alla Fornero, sono stati imposti ad unica direzione sono, insomma, andati a danno del sistema produttivo, che infatti è in costante degrado.

Ma lo sfruttamento e la precarietà non sono una caratteristica solo del mondo delle imprese private, l’egemonia neoliberale e i vincoli indotti sulla finanza pubblica hanno portato anche il settore pubblico ad ampliare forme di sfruttamento e precarizzazione massive. Esternalizzando i servizi, spesso con catene di subappalti in cui non di rado si arriva ad erogare poche ore per lavoratore (spesso del tutto fittizie, in quanto la prestazione va comunque garantita) per compensi totali qualificabili come miseri sussidi (l’autore cita i servizi di pulizia in cui spesso si aggirano ormai, nella catena dei subappalti, nell’ordine di 300,00 €/mese, p.62). Ma anche generalizzando il metodo dei voucher o promuovendo forme di “lavoro gratuito” (p.73), anche molto precoce attraverso la cosiddetta ‘alternanza scuola-lavoro’.

Si arriva all’assurdo di dichiarare di combattere la disoccupazione lavorando gratis.

Allargando lo sguardo si tratta di riconoscere il degrado del nostro sistema di istruzione e la relazione tra produttività e sistema generale di innovazione ed efficienza del paese (non già del singolo lavoratore e tanto meno funzione del suo costo per ora lavorata). È la crescita, alla fine, a trainare la produttività, e non viceversa (p.140). Si tratta di queste dimensioni che stanno rendendo il nostro paese tragicamente subalterno; una coltivazione dei ‘camerieri d’Europa’ (p.117).

In conclusione Marta Fana ci propone una semplice constatazione: è il potere sociale che determina gli assetti economici e anche l’applicazione tecnologica. Invece di “abituarsi alla povertà”, come ebbe a dire il responsabile economico del PD renziano, Taddei, bisogna abolire il lavoro povero per riconquistare la ricchezza.

Bisogna “ribaltare i rapporti di forza e sottrarre al dominio dell’impresa le scelte strategiche su cosa, come e quanto produrre, e di conseguenza anche quanto lavoro domandare e occupare”. Con questo programma direttamente ripreso dalle bandiere cadute a terra negli anni settanta Fana sottolinea che le relazioni con le quali abbiamo aperto sono strettamente connesse e necessarie: la frammentazione del lavoro segue la frammentazione dei processi produttivi. Per internalizzare il lavoro e renderlo di nuovo forte bisogna, con opportune politiche industriali, ridurre questa frammentazione, riorientare la tecnologia, ridurre gli orari e creare lavoro non orientato al mercato.

In particolare, la decisione di ridurre l’orario medio, pur scaturendo anche da valutazioni di tendenza, deve essere politica. Deve imporre un calendario ex ante, ovvero deve essere lo scopo che la società si dà, ed alla quale il sistema si deve adeguare nel tempo definito. In effetti tutte le forme di regolazione (ad esempio ambientali, sociali, di sicurezza, etc.), che articolano le nostre libertà, sono state introdotte così.

Uno degli effetti, su cui André Gorz rifletteva, è che nella microgestione necessaria di questo nuovo pacchetto di ‘diritti sociali’ che si possono godere solo insieme (al tempo liberato flessibile), si svilupperebbe anche quella attenzione sociale, quelle azioni collettive (ad esempio sindacali), ed iniziative popolari che si metterebbe in continuità con la tradizione mobilitazione per le ferie pagate, i permessi, i congedi di maternità, l’erogazione di servizi, la formazione, che vivificherebbero le capacità di riflessione, autoorganizzazione a livello delle imprese, la capacità di proposta e di creatività.

Porrebbe, in sostanza il grande tema, lasciato cadere, dell’organizzazione del tempo e della produzione entro i luoghi di lavoro produttivi. Come abbiamo già detto, il tema del potere, che è necessariamente connesso con quello del lavoro e della sua dignità.

È un vasto e lungo programma, ma è del tutto necessario.

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