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micromega

La via stretta della sinistra

di Rosa Fioravante e Paolo Ortelli

Per giustificare il loro conservatorismo, i partigiani dell’ordine
costituito non possono davvero dire che questo stato di cose
sia meraviglioso o perfetto. E quindi hanno deciso di dire che
tutto il resto è orribile.
ALAIN BADIOU

L’accelerazione della crisi politica italiana e il braccio di ferro istituzionale che ne è conseguito si sono temporaneamente risolti con l’insediamento di un governo giallo-verde, non senza aver lasciato un’impronta sul dibattito pubblico. Il quale sembra essersi assestato intorno a una nuova faglia, che opporrebbe nazionalismo sovranista ed europeismo neoliberista: popolo ed élite nella retorica salviniana, populisti sfascisti e fronte repubblicano in quella del campo progressista e del centrosinistra.

È evidente il pericolo che la discussione politica si trasformi in una falsa contrapposizione tra establishment e anti-establishment (o in un continuo referendum sull’Unione Europea tramite una domanda mal posta), che cela due destre tra loro diverse, ma egualmente regressive. Destre complementari: l’una tenta di trarre legittimazione dall’esistenza dell’altra. Gli strenui difensori dello status quo si aggrappano alla paura dei barbari alle porte; la falsa alternativa reazionaria manipola le agitazioni e le frustrazioni di chi più ha subito le fallimentari scelte degli ultimi anni per giustificare la propria spregiudicata corsa al potere.

Siamo davanti a una delle molte versioni dell’Italia eternamente gattopardesca, i cui protagonisti sono accomunati, a ben vedere, dal tentativo di occultare i conflitti sociali e gli interessi contrapposti che esistono nel paese e in Europa. A nessuno di loro interessa mettere in discussione i reali rapporti di forza presenti nella società, né tanto meno un modello di sviluppo che ha dato prova di generare ingiustizie, sprechi, tensioni, conflitti.

In Italia come altrove si propone così una versione parossistica e accelerata della cosiddetta postdemocrazia. Ancora una volta, la politica sembra voler rinunciare alla propria autonomia; ancora una volta, i diritti dei più deboli vengono esclusi da qualunque possibilità di rappresentanza. E ancora una volta, mentre si lanciano fieri appelli per difendere la democrazia dalla “minaccia populista”, si finge di ignorare che il “ricatto dei mercati” sta dissolvendo la vera essenza della democrazia stessa: la possibilità di decidere del nostro destino.

Ben prima di subire i colpi dell’alt-right salviniana e della demagogia pentastellata, le nostre istituzioni si sono screditate e indebolite da sole, minate dalla dittatura dell’economico sul politico e dall’ostinata negazione della sofferenza sociale in un paese nel quale tra il 2005 e il 2015 il 97% delle famiglie ha visto calare i propri redditi.

Allargando il campo, ci accorgiamo di vivere in una società dei paradossi: abbiamo conoscenze e mezzi tecnologici sempre più potenti, potenzialmente in grado di risolvere per sempre il “problema economico”, di sconfiggere la povertà e di contrastare il riscaldamento globale, ma sempre più li impieghiamo in processi che alimentano le disuguaglianze, generano insicurezza e precarietà – quando non indigenza –, cannibalizzano la democrazia, isteriliscono i rapporti umani e rendono insostenibile lo sfruttamento del pianeta.

Osservando il crollo della civiltà del XIX secolo, Karl Polanyi trasse un insegnamento valido ancora oggi: in un sistema di mercato sempre più sganciato dalla “sostanza umana e naturale”, le persone reagiscono all’eccesso di concorrenza cercando protezione, e se a questa non provvede lo stato sociale si rivolgeranno, come negli anni trenta, all’autoritarismo corporativo e razzista dei fascismi.

È dunque illusorio, ancor prima che pericoloso, arrendersi alla difesa dello status quo in nome della difesa delle istituzioni. Basterebbe ricordare le parole di Norberto Bobbio all’indomani della caduta del Muro di Berlino, tanto celebri quanto inascoltate:

O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo «storico») abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia? La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?

Dopo la sconfitta del comunismo sovietico – utopia di uguaglianza capovolta nel suo contrario – la sinistra è andata incontro a un’altra sconfitta storica, sia ideologica che, infine, elettorale, praticamente in tutto l’Occidente. E questa volta il motivo è opposto: la sinistra ha rinunciato a voler trasformare il mondo; ad affrontare, appunto, “il bisogno e la sete di giustizia”.

Le disuguaglianze globali, la crisi della democrazia e l’emergenza climatica non si possono soltanto denunciare: bisogna capire come contrastarle. Se a livello internazionale e accademico il dibattito sul “come fare” si evolve impetuosamente, stupisce rilevare che in Italia i soggetti politici si dimostrano pressoché impermeabili alle innovazioni. Non c’è traccia, al di qua delle Alpi, del dibattito sulle forme alternative di proprietà promosso del Labour inglese, delle idee sulla riconfigurazione della forma partito ai fini dell’egemonia culturale nella società elaborate da Podemos, della problematizzazione del nesso nazionale-sovranazionale per come emerge dal patto di Lisbona fra Jean-Luc Melénchon, Catarina Martins e Pablo Iglesias. Eppure sarebbe un errore gravissimo lanciarsi all’opposizione del governo appena insediato senza prima mostrare di avere un’alternativa concreta: un’alternativa di lotta sociale e difesa del lavoro, che sappia proporre dei modelli per superare il capitalismo finanziario e magari, con un po’ più di coraggio, il capitalismo tout court.

In quel che resta della sinistra italiana, protesta e apatia si alternano all’insegna di un immaginario politico completamente paralizzato. E se fino a pochi anni fa si tendeva a farne una questione di ricambio della classe dirigente, oggi è evidente che, qui come altrove, per passare dalla denuncia alla proposta si rende necessario anche un ricambio di cultura politica. Per superare tanto la subalternità culturale e la vocazione al compromesso dei partiti del PSE quanto lo spirito di velleitaria testimonianza della sinistra antagonista. Per passare da un orgoglioso identitarismo che celebra la propria storia, i simboli e i protagonisti del passato, o tutt’al più dei valori astratti, a un nuovo senso della missione storica: incidere sulla realtà presente, andare alla radice dei problemi. Rivendicare nientemeno che il futuro, per scongiurare un collasso della civiltà che ci riporterebbe a epoche buie.

Secondo Zygmunt Bauman, la globalizzazione ha annullato ogni ancoraggio geografico per le élite, rendendole indipendenti dai luoghi sui quali ricadono gli effetti delle loro decisioni. Per costruire un’alternativa, crediamo che sia necessario reimmettere la geografia nella storia, e dunque nella politica. Questo non significa soltanto opporsi alle rigidità dell’eurozona e rivendicare per gli stati un più ampio margine di manovra rispetto a un sistema che tende a imporre ricette uguali per territori e sistemi produttivi dalle esigenze diverse. Significa riconoscere le specifiche caratteristiche della crisi italiana: per esempio, il sistema della corruzione a partecipazione mafiosa, o la rinuncia delle classi dirigenti di tutti gli schieramenti a perseguire una politica economico-industriale e una strategia in politica estera. Significa riconoscere che le economie del Nord e del Sud Italia si collocano in differenti catene di produzione del valore, a livello internazionale. Significa osservare come l’impatto della recessione sia stato più contenuto nelle grandi metropoli, ma devastante in provincia e nelle piccole città.

Reimmettere la geografia nella politica significa anche mettersi in cammino in prima persona, nel mondo della vita reale; emanciparsi dalla “bolla” dei social network, i cui algoritmi filtrano i contenuti che appaiono nella nostra News Feed in base alle preferenze e posizioni già espresse, e così facendo cristallizzano le opinioni, inibiscono il dialogo, offrono uno sguardo parziale sulla realtà illudendoci che abbia una valenza generale.

Per tutti questi motivi, con un collettivo di venti-trentenni, precari o studenti nella vita privata e militanti o attivisti nella vita pubblica, abbiamo creato una scuola di formazione politica: Ragione in Rivolta. Senza rivendicare appartenenze a partiti che giudichiamo insufficienti, l’abbiamo immaginata anche a partire dai nostri problemi quotidiani, dei quali riteniamo sia finalmente giunto il tempo di discutere le radici politiche. Per non arrendersi al precariato, alla nostalgia o alla definitiva estinzione della socialdemocrazia, bisogna pensare e mettere in pratica un’altra via. Ragione in Rivolta propone due giorni di lezioni, incontri e workshop con docenti universitari, giovani ricercatori ed esperti: un punto di partenza, soprattutto se sapremo dare gambe e voce al progetto. Proveremo a fare luce nel caos dello scenario internazionale per studiare come si evolvono forze e rapporti di forza globali, discuteremo della democrazia economica come soluzione all’erosione del capitalismo teorizzata da Erik Olin Wright, ci porremo il tema dell’egemonia culturale e del consenso nel XXI secolo parlando di innovazione democratica e democrazia digitale.

Per chi ancora ha voglia di provarci, Ragione in Rivolta è il 16 e 17 giugno a Milano, presso la Casa della cultura.

Comments

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Mario Galati
Monday, 11 June 2018 14:51
Quando si preparano "workshop" per rinverdire la socialdemocrazia, la perdita di tempo è assicurata.
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