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lantidiplomatico

"Le ineffabili "catene globali del valore"

Tallone d'Achille degli oppositori della moneta unica?

di Thomas Fazi

C'è una tesi molto diffusa in ambito altreuropeista, cioè tra coloro che riconoscono i difetti dell'Unione europea e in particolare della moneta unica ma che ritengono velleitario e controproducente l'ipotesi di un recupero della sovranità nazionale - e in particolare della sovranità monetaria - in un contesto globale di integrazione economica sempre più profonda, esemplificata dalla diffusione delle cosiddette "catene globali del valore", cioè dalla dispersione internazionale della produzione (sarebbe a dire che è ormai comune per molti paesi esportare prodotti che a loro volta contengono componenti importati da altri paesi, ecc.).

L'assunto di fondo di questa argomentazione è che tale livello di integrazione produttiva presuppone inevitabilmente un movimento verso forme sempre più avanzate di integrazione commerciale (come il mercato unico europeo) e monetaria (come, appunto, l'euro) e che - per contro - le monete nazionali, i cambi fluttuanti e più in generale qualunque ostacolo posto alla libera circolazione delle merci e dei capitali sono da intendersi come fondamentalmente incompatibili con la "globalizzazione" e con il commercio internazionali e condurrebbero presumibilmente all'autarchia. Da cui la netta - e comprensibile, secondo tale logica - opposizione a qualunque ipotesi di fuoriuscita dalla moneta unica.

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In Italia uno dei maggiori sostenitori di questa tesi è il prof. Riccardo Bellofiore, che l'ha recentemente ribadita in un'intervista sul ventennale della moneta unica: «[L'esistenza delle] catene transnazionali del valore - scrive Bellofiore - rende futile, sbagliato, controproducente e miope il ragionare in termini nazionali avendo di fronte una realtà di profonda integrazione fra aspetti reali e finanziari nell’area europea. La moneta unica ha favorito e accelerato la costruzione e integrazione di queste catene di valore reali e dei flussi finanziari».

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La stessa tesi è stata sostenuta anche dal presidente della BCE Mario Draghi in un intervento tenuto a dicembre Scuola superiore Sant’Anna di Pisa: «La rimozione delle barriere tariffarie ha favorito l’espansione dei flussi di commercio lordi in entrata e in uscita dai paesi, in corrispondenza alle diverse fasi del processo produttivo ... stimolando la frammentazione dei processi produttivi che è tipica delle catene di valore. La moneta unica, comprimendo i costi dei regolamenti delle transazioni e delle coperture dai rischi di cambio ha ulteriormente rafforzato questa tendenza».

Il problema, come ha fatto recentemente notare Ashoka Mody (link nei commenti), ex vicedirettore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, è che questa narrazione è palesemente smentita dalla realtà dei fatti. Tanto per cominciare, né il mercato unico - né tantomeno la moneta unica - hanno dato un particolare impulso al commercio intraeuropeo. Come si può vedere nella prima immagine - che mostra la percentuale delle esportazioni intra-UE e intra-eurozona dei paesi che poi avrebbero dato vita alla UE e alla moneta unica sul totale delle loro esportazioni - il commercio tra i suddetti paesi registra un costante aumento nel corso degli anni '80 - dunque prima della creazione del mercato unico - per poi ristagnare in seguito all'inaugurazione del mercato unico (1992) e declinare vertiginosamente in seguito all'introduzione dell'euro, tanto che oggi il commercio intra-UE ed intra-euro (sul totale delle esportazioni) risulta pari o addirittura inferiore al livello registrato negli anni '80.

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Particolarmente interessante il caso della Germania, le cui esportazioni - come si può vedere nella seconda immagine - sono cresciute molto più rapidamente nei confronti dei paesi extra-euro (sia all'interno che all'esterno dell'Europa) rispetto ai principali paesi dell'euro. È altrettanto interessante notare come i tre paesi europei extra-euro nei confronti dei quali le esportazioni tedesche sono cresciute più rapidamente - Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia - sono molto più integrati nella catena del valore tedesca della maggior parte dei paesi dell'eurozona.

Come dice Mody, i dati mostrano chiaramente che né il commercio internazionale, né la partecipazione alle catene globali del valore richiedono "mercati unici" né tantomeno monete uniche. Anzi. Questo - nota sempre Mody - è confermato da tutti i principali studi sul tema, che non hanno trovato alcuna correlazione positiva tra integrazione monetaria e commercio internazionale, né alcuna prova che le fluttuazioni dei tassi di cambio e i relativi "costi di transazione" rappresentino un impedimento al commercio e/o all'integrazione produttiva.

Questo è confermato da un rapporto della BCE (link nei commenti) sul tasso di partecipazione dei paesi OCSE e non-OCSE alle catene globali del valore. Come si può vedere nelle altre due immagini, tra i primi venti paesi dell'OCSE per partecipazione alle alle catene globali del valore, notiamo che ben nove paesi si trovano al di fuori dell'eurozona e/o della UE, né fanno parte di altre unioni monetarie o commerciali; e - cosa altrettanto interessante - che il tasso di partecipazione dei paesi non-OCSE (molti dei quali classificabili come "in via di sviluppo") è solo marginalmente inferiore a quello dei paesi più industrializzati.

La conclusione di quanto detto è ovvia. Come scrive Costas Lapavitsas nel suo ultimo libro:

«Il punto cruciale da osservare ... è che le principali trasformazioni dell'economia mondiale a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi quattro decenni, tra cui lo sviluppo delle nuove tecnologie, la diffusione delle catene globali del valore, la crescita del commercio e l'ascesa della Cina, non hanno necessitato di condizioni analoghe a quelle del mercato unico europeo. ... Semmai è proprio l'ideologia del mercato unico a rappresentare un residuato di un'altra epoca. L'internazionalizzazione della produzione e la diffusione del commercio non richiedono un mercato unico [o una moneta unica]. Allo stesso modo, l'uscita dal mercato unico [e/o dell'euro], o la sua abolizione, non equivalgono assolutamente a una chiusura autarchica dentro i confini nazionali».

Sarebbe a dire che l'idea che esista un'alternativa dicotomica tra commercio internazionale e autarchia, e che il primo presupponga la rinuncia a pressoché qualunque forma di autonomia economia (monetaria in primis), è del tutto falsa. L'esempio della stragrande maggioranza dei paesi al mondo dimostra che - ammesso e non concesso che l'attuale livello di integrazione e di interdipendenza vada mantenuto - si può benissimo essere integrati nelle filiere produttive internazionali e al contempo mantenere una relativa sovranità economica e dunque politica (a partire dalla sovranità monetaria e dalla gestione del tasso di cambio). Anzi, per parafrasare Benjamin Franklin, potremmo dire che chi è pronto a dar via la propria sovranità nell'illusione di comprarsi un po' di commercio in più, è destinato a non avere né la sovranità né il commercio."

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