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Lettere dal Sahel XX

di Mauro Armanino

 

Il figlio della ricchezza

 Niamey, giugno 2025. Questo sembra essere il significato del suo nome, Edwin, migrante liberiano sepolto oggi nel cimitero cristiano di Niamey sotto il sole. In inglese antico, ‘Figlio della Ricchezza’ o della Prosperità. Morto nell’ ospedale universitario della capitale dopo che Medici Senza Frontiere prima e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni poi, si occupino della sua malattia. Troppo tardi e a 32 anni Edwin ha terminato un viaggio e iniziato l’altro, l’ultimo, verso una terra sconosciuta. La famiglia, informata dell’accaduto, ha chiesto di poter vedere per foto il suo volto e la video della sepoltura.

Era in Algeria e, certamente espulso e deportato, ha raggiunto Assamaka, la prima città nigerina passata la frontiera desertica dell’Algeria. Malato è stato condotti ad Arlit, chiamata piccola Parigi molti anni fa, Agadez il polo migrante e, viste le peggiorate condizioni di salute, l’ospedale di Zinder, prima capitale del Niger. Da lì il vano tentativo di tenerlo in vita nell’ospedale universitario di Niamey. La prima migrazione di Edwin si è fermata tra la sabbia e il vento del Sahel e, da martedì scorso, ha continuato con quella più impegnativa di tutte giacché non si trova in nessuna carta geografica.

Edwin, ‘Figlio della Ricchezza’, secondo l’etimologia classica del nome. Figlio dunque come non mai quando, stamane, nudo come alla nascita, il corpo offerto per l’ultimo segno di rispetto, la pulizia, prima di essere posto nel feretro di legno.

Edwin, figlio generato da una madre che non c’era e da un padre troppo lontano per accompagnarlo alla soglia dell’ultima migrazione. Edwin figlio, come un’ identità che niente e nessuno potrà cancellare, mutilare o rimuovere dal volto che ci rende vulnerabili agli occhi degli altri. Non c’è nulla di più bello che la riconoscenza del legame dell’ origine. 

Solo la dimenticanza di questa primigenia e fondante appartenenza comune può condurre alla creazione dell’altro come nemico, delle armi per eliminarlo e delle guerre per giustificarne la scomparsa. Edwin indifeso nel feretro e la cui ricchezza è stata apparentemente rubata. Eppure lo ricorda il noto scrittore argentino Jorge L. Borges...’ solo es nuestro lo que hemoso perdido’, ci appartiene solo ciò che abbiamo perduto. Forse Edwin non è mai stato così ricco come quando, nudo e poi ricoperto da un lenzuolo bianco, è stato deposto nel grembo del feretro come all’inizio.

La tomba scavata su misura era pronta ad accogliere il feretro che portava una croce in rilievo sulla parte superiore. Nel silenzio del cimitero, con due corde, si è fatta scendere la cassa nella quale il corpo di Edwin giaceva immobile perché con lo spirito già altrove. ‘L’amore della libertà ci ha condotti qui’, dice il motto nazionale della Liberia, Paese originario di Edwin. Sullo sfondo dell’emblema si scorge una nave, a ricordo degli schiavi tornati in Africa dagli Stati Uniti per inventare la libertà. La nave di Edwin è il feretro e il mare è il Sahara, nome che appunto significa mare.

Edwin è stato sepolto nel Sahel, che poi è una riva che costeggia il mare di sabbia. Da qui ha continuato il viaggio per una terra dove non ci sono malattie, armi, guerre e frontiere che respingono gli stranieri. Edwin, ‘Figlio della Ricchezza’, racconterà agli altri migranti come lui, che l’amore della libertà come sua unica ricchezza, lo aveva condotto su quella riva.

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La guerra di cui non si parla

Niger, giugno 2025. Miete più vittime delle altre registrate nel mondo. L’anno scorso i conflitti armati riconosciuti tali erano 61. Quest’unica guerra uccide più che tutte i conflitti messe assieme. Si tratta della povertà o, se vogliamo, della miseria che porta con sé, troppo spesso nel silenzio, milioni di persone. Un po' come le cosiddette ‘morti bianche’ cioè quelle sul lavoro. Un’altra vera e propria battaglia quotidiana che vede come protagonista chi non è certo di tornare a casa dopo esserne uscito per lavoro, il mattino. Si calcola che l’anno scorso le ‘morti bianche’ hanno raggiunto i tre milioni.

La povertà è peggio perché per gli economisti si perde nelle statistiche mentre per la gente è una sparizione continua che passa inosservata. A essere cancellati sono i poveri. Le tracce della miseria durano a lungo perché coinvolgono i bambini, le donne e i giovani. La miseria è il frutto più immediato di guerre, movimenti forzati di popolazione, avversità climatiche ma soprattutto di classi politiche ammalate di potere e spoliazione del popolo nel più breve tempo possibile. Cause esterne, interne e purtroppo ‘eterne’ si perpetuano perché abbiamo smarrito la vergogna.

Sembra davvero scomparsa, la vergogna, dal lessico e soprattutto dal volto, le parole e le azioni. Si tratta di un sentimento, innato e allo stesso tempo culturale, che manifesta l’inadeguatezza tra ciò che è giusto e il nostro agire e sentire. La crescita, tutta occidentale, dell’individualismo e del fin troppo citato relativismo, non possono che produrre l’esilio della vergogna. Gli atti, le scelte, le parole e financo l’abbigliamento non tengono più in conto lo sguardo dell’altro. Il ‘principio responsabilità’ è stato spazzato via dall’utilitarismo capitalista che tutto mercifica e traduce, senza vergogna, in denaro.

Investire somme abissali, destinate a servizi sociali, in armi, ordigni letali studiati e programmati allo scopo di uccidere il ‘nemico’ fa ormai solo vergognare i pochi irriducibili ‘idealisti’. Nel frattempo nel Sahel imperversa la vulnerabilità alimentare per milioni di persone, l’indigenza al quotidiano, la carenza di strutture educative e sanitarie. Mancano dispositivi che facilitino l’ingresso dei giovani nel mondo lavorativo. Irréducibles. La classe politica non si vergogna di nulla e così gli intellettuali attirati dalla retorica che sembra promettere loro un futuro. Persino i leader religiosi, senza vergogna, puntellano il sistema fatiscente.

Il Fondo Monetario Internazionale che non è un ente di beneficenza, ha rilasciato un documento che, prendendo in considerazione il Prodotto Interno Lordo dei Paesi, stila la lista dei 10 Paesi col reddito pro capite più basso in Africa. Con tutti i limiti che questa operazione sappiamo comporta, rimane utile affacciarsi su questa strana e drammatica classifica che nasconde ciò che mostra ed evidenzia ciò che nasconde. Ci sono numeri che offuscano le cause e facilitano l’azione di sminamento del sentimento di vergogna che dovrebbe toccare i politici per primi.

Senza sorpresa, l’Africa subsahariana domina la classifica. I conflitti cronici, la debolezza istituzionale e una élite politica sempre più spesso militarizzata, non sembra in grado di offrire alternative coerenti ed efficaci alla precarietà di vita dei popoli che dovrebbe servire. Nell’ordine della lista si trova il Sudan del Sud, lo Yemen, il Burundi, la Repubblica Centrafricana, il Malawi, il Madagascar, il Sudan, il Mozambico, la Repubblica Democratica del Congo e il Niger, Paese nel quale ho il privilegio di trovarmi. Tutto ciò dovrebbe far vergognare chi profitta della miseria degli altri per arricchirsi o per illudere i poveri con vuote e false promesse di un domani migliore.

Finché la vergogna non ritornerà a essere una materia di insegnamento nella grammatica della vita quotidiana, sarà difficile cambiare lo sguardo sul mondo.

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Mitologie saheliane ma non solo

Niamey, luglio2025. Viviamo di miti e cioè di racconti o narrazioni che offrono credibili spiegazioni della realtà che ci circonda. Sono caratterizzati da eroi, dei o personaggi fantastici che influiscono sull’interpretazione del mondo e dettano scelte, comportamenti e visioni credibili della realtà. Ogni epoca e cultura, anche quelle ritenute ‘scientifiche’ o ‘tecnologicamente avanzate’, ha i suoli miti, evidenti o impliciti, riconosciuti o mascherati da apparente razionalità. Nella vita reale sono i miti accettati o subiti che orientano buona parte delle azioni che compiamo. I miti sono anche ciò che possono manipolare la realtà onde renderla funzionale al tipo di mondo e dunque di potere che ogni narrazione perpetua.

In Africa uno dei miti che va per la maggiore è quello della durata ‘divinamente voluta’ dei mandati presidenziali. La componente mitica del potere, pensato come espressione di un’elezione dai contorni divini, fa supporre che capo non cerchi che il bene e la difesa del popolo. Non casualmente si allungano o trasformano la durata dei mandati che le costituzioni opportunamente avevano regolato per evitare abusi di potere. Quindi si cambia la costituzione o si inventano sistemi per aggirarne i limiti fino, se necessario, al colpo di stato istituzionale o a quello che passa attraverso le armi. Quest’ultimo mezzo apre la via al secondo e altrettanto allettante mito.

Quello della violenza e dunque delle armi che aiutano a tradurla in pratica come mezzo di trasformazione o di conquista del potere. Dietro questo mito si trova quello dei sacrifici umani che, soli, garantirebbero le fondamenta della stato, della nazione e la sua identità. I cimiteri, le fosse comuni, i monumenti e le feste nazionali sono solo alcune delle espressioni di questo mito fondatore della storia. La facilità con cui si fabbricano, commerciano, usano e prosperano gli armamenti non è casuale. Il mito della potenza, nato con lo stato e da esso nutrito, non ha memoria. Il mese prossimo si realizzò la prima esplosione atomica a Hiroshima. Questa tragedia è volutamente dimenticata.

I regimi militari che sembrano accompagnare la vita politica di una parte consistente dei Paesi del Sahel, sono anch’essi visti come ‘mitica’ soluzione alla corruzione del sistema politico organizzato attorno ai partiti e alle costituzioni. Sarà l’uniforme, le armi tenute in riserva, l’apparente o reale disciplina che sembrano incarnare, i militari come via di salvezza per il popolo si afferma come un altro mito che riesce ad aggregare ideali, giovani e aspirazioni sopite. La disciplina e l’uomo forte dallo statuto simile a quello dello sceriffo gemellato con l’idea del re tradizionale, offrono ai militari una riserva quasi inesauribile di fiducia del popolo. I miti sono spesso e volentieri militarizzati e armati.

Infine è la nazione, intesa come popolo che si identifica dentro uno spazio geografico e culturale prescelto per l’eternità, uno dei grandi miti creati della modernità. I confini, le bandiere, l’esercito, la cultura e la religione formano, così si pensa, un tutto omogeneo e coerente, frutto di una mitica discendenza fatti di eroi, navigatori e santi. Le competizioni sportive con l’inno nazionale, cantato con la mano sul cuore dagli atleti, rappresenta quanto di più emozionante ci sia nella vita. La nazione mitizzata si afferma come unico ambito identitario e garanzia per usufruire dei diritti inerenti al cittadino. Alle frontiere si fa esperienza, spesso drammatica, di questo mito nazionale.

Al confine infatti i ponti spesso diventano muri, reticolati, zone di non-diritto o di commercio transfrontaliero. I fiumi, i mari e i deserti si trasformano troppe volte in cimiteri non custoditi. Il mito che ne assicura il supporto simbolico sembra godere di un futuro assicurato. Ecco perché smitizzare l’immaginario ereditato e fare dei poveri e oppressi la propria ‘patria’ è l’unico sentiero da seguire.

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Quando l’ ipocrisia è al potere

Niamey, luglio 025. Tutto o quasi assomiglia a una grande finzione ben orchestrata.’Fingere’ è infatti l’etimologia greca della parola ipocrisia come atteggiamento con cui si ‘finge’ di avere sentimenti, opinioni, virtù morali che in realtà non ci abitano. Ciò per trarre in inganno gli altri sulle proprie reali intenzioni e trarne i benefici. Ci si spaccia dunque per benefattori, salvatori della patria, onesti fautori del bene comune, politici integerrimi e incorruttibili e soprattutto venditori di fugaci promesse di rinnovamento, rifondazione o novità. Non raramente si prende Dio come garante od ostaggio di quanto affermato dietro giuramento. Dalle parole mercenarie, svendute o, banalmente, manipolate, nasce l’ipocrisia.

Nel Sahel abbiamo la sabbia e la polvere che da essa è generata. La polvere si deposita nottetempo oppure nei momenti e luoghi meno opportuni. Si infiltra sorniona o, più raramente, domanda il permesso prima di entrare per accomodarsi nelle case e nelle cose. Si adagia e adatta a ogni superficie e circostanza. A modo suo la polvere è democratica perché non fa differenze di classe, religione o genere. Non è politicamente corretta perché assume un ruolo destabilizzante tanto nei regimi civili che in quelli militari. Ricorda agli imperi, alle diplomazie e agli strateghi che prima o poi dovranno fare i conti con lei. La polvere è il colore delle civiltà, della barbarie e dell’ipocrisia.

L’ipocrisia è l’applicazione e l’estensione della polvere alla vita personale, sociale e politica. Polvere e ipocrisia vanno assieme e si completano in una secolare complicità. Affinità elettive potremmo dire perché un elemento abbisogna dell’altro per portare a compimento la propria peculiare identità. Ci sono infatti le grandi ipocrisie, le finzioni, le farse che si sviluppano nella diplomazia tra Paesi, nelle istituzioni internazionali, nell’uso della giustizia a seconda delle convenienze del momento. I premi Nobel per la pace affidati a guerrafondai, le guerre umanitarie e le giustificazioni per usare le armi contro inermi popolazioni civili. Non si tratta che di ipocrisie che la polvere copre di legittimità.

Arriviamo alle finzioni che, essendosi installate nella durata, sono state naturalizzate. In questo particolare ambito vanno inseriti buona parte dei politici, dei religiosi e degli intellettuali. Mentire, che non è una delle forme per applicare l’ipocrisia, non desta scandalo, stupore o sconcerto perché, com’è noto, le loro promesse impegnano solo chi le ascolta. I mezzi di comunicazione, con qualche lodevole eccezione, appartengono al settore citato perché ciò che si comunica sarà funzionale al sistema che li finanzia. Inutile il codice deontologico che obbliga a cercare e trasmettere la verità.

Il sistema sanitario internazionale, di cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità è l‘espressione, non fa che confermare tristemente quanto appena rilevato. Chi finanzia questo ente onusiano ha il diritto e dovere di imprimere i finti orientamenti che organizzano i ‘loro’ interessi globali. Il sistema capitalista è nato dalla drammatica ipocrisia chiamata sfruttamento e così pure le ideologie che nel frattempo hanno dilaniato il mondo di guerre. Il nazionalismo, nelle sue diverse varianti, nasce e si perpetua con finzioni che continuano a mietere vittime e inneggiano agli eroi, morti con onore.

La grande ipocrisia e quella particolare non potrebbero vedere la luce senza le finzioni quotidiane che, in maniera capillare, attraversano persone, relazioni umane e la struttura sociale nel suo insieme. Parole, scelte, giudizi e azioni nella vita diaria, così come la polvere di cui sopra, sono spesso marcati da ‘micro ipocrisie’ alle quali non si dà più importanza tanto sono parte del paesaggio. L’abbandono dei valori che reggono la democrazia, la censura della dimensione spirituale della persona, la riduzione di tutto e tutti a beni commerciali, costituiscono e perpetuano il quotidiano tradimento della non negoziabile dignità umana. Questo e altro non sono che forme di ipocrisia.

Rovesciare il potere dell’ipocrisia non è difficile come si crede. Basta lasciar soffiare fratello vento di verità che, cominciando dalle parole, inventa un mondo libero dove pace e giustizia si baciano.

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I miraggi del Sahel

Niamey, luglio 025. In senso proprio il miraggio è un fenomeno ottico che si verifica, in condizioni particolari, su ampie superfici piane, per cui è visibile l’immagine di oggetti lontani, apparentemente riflessi in una distesa liquida posta in basso o che sembra galleggiare in alto. In senso figurato il miraggio si presenta come una prospettiva tanto allettante quanto ingannevole, qualcosa di illusorio, un sogno irraggiungibile e irreale. Entrambi i sensi della parola miraggio sono attualizzati nell’affascinante e complesso spazio saheliano. I migranti, commercianti e contrabbandieri trasfrontalieri che attraversano, spesso senza ritorno le zone desertiche, fanno esperienza del senso proprio. Si possono notare in lontananza sorgenti d’acqua, laghi e fiumi inesistenti. Il resto dei popoli del Sahel, invece, incappano spesso e volentieri nel senso figurato del termine. Le promesse di sicurezza, benessere, giustizia e buon governo si rivelano come effimere illusioni, sostenute e nutrite da un’efficace propaganda totalitaria.

In un non lontano passato si sentiva il sordo e inconfondibile tuono dei ‘Mirages’, i Miraggi, ben noti caccia francesi all’opera nel Sahel. Al momento sono i droni che operano nel silenzio e, dopo la cacciata dei militari francesi, altri sono i militari sul posto. Noti o meno noti si trovano i mercenari russi del gruppo Africa Korps, soldati cinesi per evitare problemi all’oleodotto di loro proprietà, mercenari turchi e qualche centinario di militari italiani ufficialmente adibiti all’addestramento degli omologhi nigerini. Sullo sfondo permane comunque la collaborazione mai rinnegata con le forze statunitensi che, tra l’altro hanno formato alcuni dei militari che hanno preso parte all’ultimo colpo di stato. La promessa di debellare in tempi rapidi le varie formazioni dei gruppi armati di ispirazione ‘jihadista’ si è gradualmente rivelata un tragico miraggio che continua a sfornare vittime, militari e civili nello spazio saheliano. I cimiteri e i lutti nazionali non si danno tregua alcuna.

Le bandiere dei tre Paesi federati del Sahel centrale, Niger, Burkina Faso e Mali, così numerose e fiammanti dei giorni del golpe e nelle varie tappe di costituzione dell’Alleanza degli Stati del Sahel, AES, sono sbiadite, sfilacciate o dimenticate alle rotonde della capitale. Persino i tricicli che, numerosi, esibivano con fierezza la bandiera nazionale, si trovano adesso oberati di mercanzie, passeggeri e animali da macello. La promessa e l’ambizione di una rapida, totale e radicale sovranità nazionale, autentico ‘mantra’ dei regimi militari dei Paesi citati, lasciano gradualmente il posto allo smarrimento, allo sconcerto e la disillusione del quotidiano, molto più complesso del previsto. Da un paio di mesi i funzionari statali non ricevono il salario, i prezzi elevati dei prodotti di consumo di base e l’ostinata chiusura della frontiera col confinante Benin, hanno trasformato il tutto in un miraggio senza limiti. La demolizione, infine, di negozi, abitazioni e laboratori informali, ha completato il disastro sociale.

Malgrado le retoriche panafricaniste, monetariste e antimperialiste dei Paesi in questione, il miraggio dell’Occidente non si è spento e sono ormai migliaia i migranti e richiedenti asilo ‘parcheggiati’ in insufficienti centri di accoglienza e di transito. Le espulsioni sistematiche e disumane dei militari algerini, tunisini e le milizie libiche non lasciano scampo a coloro che si trasformano in ostaggi di un sistema di compravendita umana. L’isolamento diplomatico ed economico del regime che ha chiuso i conti con numerose organizzazioni internazionali, ha comportato una brusca riduzione degli aiuti esteriori. Persino ‘potenze umanitarie’ come l’Alto Commissariato per i Rifugiati e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, delle Nazioni Unite, sono in difficoltà finanziaria con ricadute drammatiche su migranti, richiedenti asilo e rifugiati. L’illusione di gestire con umanità questi movimenti di persone si rivela una missione impossibile. Il Paese ospita migliaia di sfollati interni.

Per convertire i miraggi non c’è terapia migliore della realtà che com’è noto è sovversiva. Chiamare le cose col loro vero nome è un gesto rivoluzionario, scriveva Rosa Luxemburg, filosofa socialista.

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Un ritorno, esplosivo, dal Sahel

Casarza Ligure, agosto 2025. Lo stacco dal ritorno in patria definitivo, dopo 14 anni di permanenza, si sente giusto all’ingresso del’aeroporto internazionale Diori Hamani, primo presidente della repubblica del Niger. Gli addetti al controllo doganale osservano con qualche commento i regali ricevuti prima di partire e ordinati nella valigia. Si impilano i quadretti con la forma e la bandiera del Paese con le croci di assai note di Agadez, inframezzate da magliette, stoffe locali, portamonete e cinture in cuoio per chiudere con monili per la famiglia e amici. Passate le formalità rimane un tempo di attesa prima dell’imbarco che si riempie di ricordi e letture degli scritti di saluto e di addio di amici e conoscenti. C’è poi il decollo dell’aereo e le luci della capitale Niamey, più numerose del solito, si allontanano fino a scomparire come per ricordare che lo stesso è accaduto nel Paese in questi ultimi anni. Luci e tenebre abitano nel Sahel dove il malessere politico, economico e i gruppi armati sembrano essersi dati l’appuntamento.

Nell’aereo con destinazione Istanbul, il sedile alla mia sinistra è occupato da un nigerino che confessa di dirigersi ad Amburgo in Germania dove risiede da anni lavorando e formandosi. Alì conferma il malessere di una parte crescente della popolazione nei confronti della giunta militare che, naturalmente, non può adempiere quanto promesso al momento del golpe ‘di palazzo’ di due anni or sono. Si trova in disaccordo con le restrizioni che il potere opera nei confronti di chi osa esprimere un pensiero diverso da quello ufficiale e lamenta il tradimento di alcune figure importanti della società civile. Sembra di trovarsi dinnanzi a un orizzonte che si allontana mano a mano che lo si avvicina come un’utopia smarrita nel deserto. Il nuovo aeroporto di Istanbul è, come l’afferma la pubblicità, uno snodo mondiale e tutte le destinazioni sembrano confluirvi. Dall’area di transito si raggiungono le porte d’imbarco e, nei lunghi passaggi si constata la vittoria del mercato globale.

Si è aggirati, accerchiati, osservati e pedinati da luci, vetrine, inservienti eleganti e seducenti, musiche, suoni e soprattutto mercanzie da acquistare in fretta. Lo stesso spettacolo a cui si assiste negli aeroporti di una certa importanza. Ad esempio quello di Roma Fiumicino, raggiunto il pomeriggio del giorno seguente. Erano passati tre anni dall’ultima mia partenza e avevo nel frattempo dimenticato che, lontano dal Sahel, c’erano ancora tante persone del mio stesso colore della pelle. Riabituare gli occhi ai ‘bianchi’ che saturavano il paesaggio dopo essere stato minoranza ‘etnica’ per tanti anni è stata un’esperienza di riappropriazione del tutto inattesa e sconcertante. Nell’ennesimo salone di attesa e transito si risente la lingua che mi abita e che ha almeno in parte, definito il racconto del mio mondo. Chiedere spiegazioni richiede una buona dose di coraggio perché c’è il timore che la lingua conosciuta non corrisponda più a quella parlata in quel momento.

Senza volerlo si ascoltano commenti e scambi tra persone e membri della stessa famiglia. Un bimbo, seduto accanto e, certamente preso da compassione, offre un biscotto. Dice a suo padre seduto accanto che poco prima un signore voleva fare altrettanto e che lui non ha accettato perché il biscotto poteva essere avvelenato. A questo punto ho naturalmente rifiutato il biscotto adducendo la stessa scusa. Poi, al momento di raggiungere la porta d’imbarco un ultimo ostacolo. Una signora slanciata in abito militare mi ha intimato di mostrare le palme delle mani. Vi ha apposto un sorta di cerottino bianco e così ha fatto sulle due scarpe. Con mia sorpresa, dopo aver chiesto all’altro militare la ragione di questo inedito controllo, mi è stato detto che si tratta di controlli occasionali per verificare se la persona non porti sostanze esplosive.

Ho ammesso alla signora, prima di congedarmi, che in realtà sono esplosivo ma non nel senso del controllo effettuato. In effetti, a mia conoscenza, non c’è nulla più esplosivo di un Dio preso sul serio. La discesa dell’aereo a Genova, destinazione finale, è stata utile per conoscersi col vicino di viaggio, rivelatosi carabiniere in pensione e fermamente contrario alle manifestazioni di appoggio al popolo palestinese. Nell’area ritiro bagagli dell’aeroporto giganteggia a sinistra la foto del pesto e a destra quella della nota focaccia di Genova.

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Assediati e assedianti a nord del Sahel

Casarza Ligure, agosto 2025. Non ci sono assediati senza assedianti. L’uno e l’altro vanno assieme e non è sempre agevole definire i confini tra le due complementari realtà. Se qualcuno ha letto la storia umana come lotta di classe si potrebbe anche interpretarla come antagonismo tra oppressi e oppressori o allora tra assediati e, appunto, assedianti. Il recente ed ennesimo dramma che proprio in questi giorni ha contribuito ad allungare la lista dei morti nel mare Mediterraneo di Lampedusa, ne rende difficile se non impossibile la determinazione. Chi, in questo caso erano gli assediati o gli assedianti rimane una questione aperta secondo da quale punto di vista si legga la vicenda e si usino le parole per descriverla. A nord del Sahel c’è il deserto del Sahara, il Maghreb, il Mediterraneo come ‘Mare Nostro’ e poi le prime avvisaglie dell’Europa meridionale. Chi assedia e chi è assediato è da precisare o scongiurare ogni volta.

L’assedio è inteso come un’operazione di accerchiamento di un luogo per impedirne l’uscita o l’accesso. E’ il caso di numerosi villaggi e città nel Sahel centrale come in altre regioni del continente. Sono letteralmente accerchiati da gruppi armati di matrice ‘jihadista’ spesso gemellati col banditismo che punta all’accaparramento di beni, risorse, armi e droga. In questi casi tutto si complica soprattutto per la penuria dei beni di prima necessità e, in specie per una parte dei giovani, l’adesione ai gruppi armati diventa uno dei modi possibili per sopravvivere. L’assedio si impone come una forma particolare di violenza dove la presenza dello stato brilla per la sua assenza. Applicato talvolta per anni è in grado di mutare la vita economica, sociale e politica di intere porzioni del Continente. A volte assediati e assedianti sembrano declinarsi con contorni ben definiti.

Attorno allo stesso Mediterraneo si trova l’altro e innominabile dramma della terra di Gaza, in Palestina-Israele. Assediati e assedianti, ancora loro, sembrano definirsi agevolmente, se vogliamo essere onesti con la realtà, per chi incarna l’uno o l’altro. La citazione di Marek Edeleman, uno dei capi resistenti, assediati nel ghetto ebreo di Varsavia dai nazisti durante la seconda guerra mondiale è illuminante. David Rosemberg, in un discorso del 2017 conclude con le parole di Edelman, dichiarato persona non grata in Israele. Egli testualmente affermava...’ Noi combattiamo per la dignità e la libertà. Non per un territorio o un’identità nazionale...essere Ebreo significa stare sempre dalla parte degli oppressi e mai con gli oppressori’. L’assediato può trasformarsi nel tempo e secondo le circostanze in assediante e chi era perseguitato in persecutore.

Queste ben conosciute mutazioni attraversano la nostra storia personale e collettiva. L’Europa da continente ‘migrante’ si è gradualmente tradotto in terra di destinazione per immigrati. In Italia, tra il 1876 e il 1915, la ‘grande emigrazione’, sono partiti circa 30 milioni di connazionali, in parte poi rientrati in patria. L’Europa dichiarata in stato di ‘assedio’ da parte di forze politiche che trescano e fomentano la paura trai cittadini era la stessa che ‘assediava’ altri continenti, per lavoro e soprattutto col colonialismo. La frontiera tra assediato e assediante è labile e attraversa ogni persona, società e civiltà. Esattamente come quella tra oppresso e oppressore, colonizzato e colonizzatore perché, ricordava il martinicano naturalizzato algerino Frantz Fanon, nel colonizzato si nasconde il colonizzatore. Per questo c’è chi sceglie di stare sempre e in ogni caso dalla parte degli oppressi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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