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GEAB 34 parte I - La Grande Fuga della Cina dal Dollaro
Ed eccoci di nuovo agli affezionati lettori con l'appuntamento mensile con il GEAB Report di Europe2020. Se non sapete di chi stiamo parlando, potete approfondire a questo post dedicato a quanto durerà la crisi economica.
Il GEAB 34 si articola in tre parti: una prima parte dedicata alla grande fuga della Cina dalla trappola del dollaro, una seconda parte dedicata al default del debito americano, una terza sul prezzo dell'oro e suggerimenti finanziari.
In questo post traduciamo ampi stralci della prima parte: la fuga della Cina dal dollaro.
La parola agli esperti di Europe2020.
Estate 2009: il crollo del sistema monetario internazionale è in arrivo
La prossima fase della crisi sarà il risultato di un sogno cinese.
In effetti, cosa mai potrebbe sognare la Cina, catturata - a sentire Washington - nella trappola del dollaro dei suoi 1400 miliardi di titoli di debito denominati in dollari?
Se ascoltiamo i leader americani e le loro schiere di esperti dei media, la Cina sogna solo di restare prigioniera, ed anche di intensificare la durezza della sua condizione di prigionia acquistando sempre più T-Bond (titoli del debito americano) e dollari.
In realtà, tutti sanno cosa sognano i prigionieri, no?
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Crisi globale, fase II: Obama e la Cina
di Raffaele Sciortino
A Davos, sconsolata, la global élite ha dovuto prendere atto del fallimento dei primi due tentativi - il salvataggio settembrino delle banche e poi il piano Paulson - di bloccare o anche solo tamponare negli States la crisi che dall’autunno è anzi divenuta mondiale. Il denaro proveniente dalla prima metà del Tarp (350 miliardi) è servito alle banche a malapena a ripianare le perdite accumulate nei primi tre trimestri del 2008 che già si annunciano perdite per l'ultimo trimestre superiori alle attese. Il mare di liquidità iniettato, senza controlli, dall’amministrazione Bush non ha riattivato il circuito del credito che ha continuato a languire. E dopo i subprimes ecco all’orizzonte la bolla dei mutui “sicuri”, degli immobili commerciali, dei prestiti per auto e delle credit cards, dei prestiti agli studenti; senza contare che i governi statali già bussano a Washington. Insomma, un incubo per il neo-eletto presidente.
L’articolo si incentra sul quadro immediato e sul dibattito negli States in merito alle strategie di risposta alla crisi per poi rifare il punto sul rapporto Usa-Cina (vedi la prima puntata: La prima crisi veramente globale?) accennando di sfuggita alle questioni di fondo.
Nuovo pacchetto…
Obama in questa situazione non ha comunque avuto vita facile nel far passare al Congresso il suo pacchetto di stimoli all’economia, ingente in termini assoluti (quasi 800 miliardi $) ma da molti, come il liberal Krugman, ritenuto ancora insufficiente per un efficace rilancio.
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Keynes a Pechino
Rosario Patalano
In un recente intervento, Zhou Xiaochuan, governatore della Banca Centrale della Repubblica Popolare Cinese (People’s Bank of China), ha rilanciato ancora una volta il tema della riforma del sistema monetario internazionale, proponendo l’istituzione di una moneta mondiale (global currency) svincolata da qualsiasi rapporto con una entità statale emittente. Qualche giorno prima il premier cinese Weng Jiabao aveva espresso preoccupazione sulla crescita del debito pubblico americano. Se le due dichiarazioni si leggono sinotticamente l’interpretazione è univoca: i cinesi temono il collasso del dollaro e sono terrorizzati dall’idea di polverizzare i proventi dei loro surplus commerciali, investiti, come è noto, prevalentemente in titoli di stato USA (Treasury Bond), dei quali sono diventati il maggior detentore.
Che Pechino stia ormai elaborando da tempo una strategia di uscita dalla dipendenza dal dollaro è noto (dal 2005 lo yuan renmimbi è ancorato ad un paniere di monete e non più alla sola divisa Usa), ma è una novità che la Cina abbia indicato con estrema chiarezza le linee di riforma dell’ordine monetario internazionale che proporrà in sede internazionale, dichiarando di puntare alla costituzione di una moneta mondiale svincolata dalla sovranità statale e affidata interamente al controllo del Fondo Monetario Internazionale (IMF), opportunamente rinnovato e potenziato.
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Gli inutili venti della seconda grande crisi
Sergio Cesaratto
Il G 20 appena concluso non ha portato ai risultati concreti necessari per far fronte alla seconda grande crisi. Si scontravano due posizioni. Quella americana che chiedeva un maggior impegno europeo nel sostegno di politica fiscale alla ripresa, e quella europea volta a imporre una maggiore disciplina e supervisione internazionale sul settore finanziario indicato al grande pubblico come il responsabile della crisi. Né gli uni né gli altri hanno prevalso, e le misure decise riguardano sostanzialmente altro. Ma gli europei sono probabilmente i grandi sconfitti. Vediamo perché.
1. Grande mattatore della vigilia è stato Sarkozy che aveva minacciato di alzare i tacchi se gli americani non avessero accettato i suggerimenti europei di una più forte regolazione dei mercati finanziari. Ha così costituito una inedita alleanza con la Merkel ferma nell’attribuire le cause ultime della crisi nella dissolutezza del consumatore americano, mai sazio di beni e di debiti, laddove i tedeschi son saldi nella loro proverbiale assennatezza finanziaria. Eppure lo scorso autunno Sarkozy aveva strepitato contro sia la passività della politica fiscale dei tedeschi che la flemma della BCE, chiedendo di istituzionalizzare il coordinamento di politica fiscale e monetaria fra i paesi dell’Eurozona (l’Eurogruppo) così da costituire una controparte politica alla BCE.
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Il piano Geithner e il capitale paziente
Maurizio Donato*
The recovery rate for the mezzanine tranche rated AAA is about 5% and 32% for senior one. So 30 cents per dollar is a fair price.
Dopo lunghe discussioni e non pochi contrasti con gli altri responsabili economici dell’amministrazione, il Segretario al Tesoro Usa ha rivelato i dettagli del piano con cui il governo intende risolvere i problemi delle banche a rischio di insolvenza[1]. Come è noto, nonostante centinaia di miliardi di dollari e un piano di stimolo fiscale spesi nel tentativo di sbloccare il mercato del credito, il versante finanziario della crisi è dominato dall’incertezza circa il destino dei ‘titoli tossici’ presenti nel portafoglio delle banche. Avendo scartato l’ipotesi della nazionalizzazione, il governo americano ha preferito puntare sul salvataggio delle banche, stanziando mille miliardi di dollari per costituire un fondo a maggioranza pubblica che comprerà le attività finanziarie che gravano sui bilanci delle banche in crisi.
La notizia del piano è stata accolta favorevolmente da Wall Street, meno dalla grande stampa (New York Times, Financial Times del 24/3/09) e dalla comunità degli economisti da cui non sono mancati commenti sfavorevoli[2] o quanto meno scettici circa le modalità di funzionamento e l’eticità complessiva dell’operazione.
Tra i favorevoli, Brad DeLong[3] ha scritto a proposito di un ‘capitale paziente’ (non nel senso del malato, dal suo punto di vista) che potrebbe fare un buon affare, considerando che il programma pubblico – diviso in tre diverse componenti – finanzierebbe fino all’85% del prezzo dei titoli, rendendo convenienti transazioni che al momento non si verificano, stante le differenze tra la valutazioni dei titoli da parte dei venditori, che li ritengono sottovalutati, e i compratori per cui valgono molto meno del prezzo richiesto.
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Euro contro Dollaro. E oltre.
Vladimiro Giacché
1. Scene da una crisi
“Questa è l’amara verità: l’economia mondiale si trova nella sua fase più difficile dai tempi della grande crisi post ’29”. Se anche un quotidiano poco incline alle esagerazioni come la Frankfurter Allgemeine Zeitung chiude così un editoriale in prima pagina, vuol dire che la situazione è davvero seria. E in effetti è proprio così. La crisi ormai investe tutto e tutti: le banche, le imprese industriali, gli Stati.
Che la situazione fosse da “allarme rosso”, lo si è capito nel secondo fine settimana di ottobre, quando un G7 riunito d’urgenza e poi gli Stati più importanti dell’Unione Europea hanno deliberato un pacchetto di aiuti d’emergenza per le banche. Cosa era successo? Molto semplicemente, le banche non si prestavano più denaro tra loro. Perché non si fidavano più l’una dell’altra, e - in qualche caso - perché speculavano sulle difficoltà altrui. La liquidità non circolava più. Lo stesso taglio concertato dei tassi di interesse da parte di Fed e Bce, avvenuto qualche giorno prima, era risultato del tutto inefficace da questo punto di vista.
In casi come questi l’operatività delle banche si rallenta e si ferma, le più mal ridotte falliscono, le altre cessano di erogare il credito alle imprese (o lo erogano a tassi molto elevati). Quindi cominciano a fallire le imprese. Ma le imprese che falliscono non restituiscono neppure i prestiti che avevano già ricevuto.
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I Racconti del terrore nella Crisi
di Pino Cabras
I professionisti dell’ottimismo cercano di scorgere una ripresa, una luce in fondo al tunnel della Grande Crisi. Noi, che pure non siamo professionisti del pessimismo, ci limitiamo a osservare sgomenti l’inanità degli sforzi dell’amministrazione Obama, tesa a salvare il sistema senza avere soluzioni. Ancora dollari, migliaia di miliardi (ossia milioni di milioni) sono iniettati nel sistema finanziario in un’operazione disperata di costosissimo “mesmerismo”. Come il signor Valdemar descritto da Edgar Allan Poe, il sistema è morto ma la trance degli infiniti “salvataggi” in limine mortis ci fa giungere ancora le sue voci aspre e spezzate, mentre la decomposizione avanza. Il racconto di Poe si conclude così: «di fronte a tutti i presenti, non rimase che una massa quasi liquida di putridume ributtante, spaventoso». Chiameremo così anche l’inflazione?
Nel giro di pochi mesi, gli Stati Uniti hanno incenerito il denaro di un po’ di generazioni a venire. Il problema della solvibilità dell’Impero più potente della Storia si presenterà ormai con un rendiconto ineludibile. A breve.
Krugman, ancora fresco di Nobel, è sempre più sconfortato, di fronte alla coazione a ripetere del Tesoro USA. Uno dopo l’altro, i “bailout” senza fondo vanno a beneficio delle banche e delle assicurazioni.
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Un regalo di obama alle banche
di Jeffrey D. Sachs
Il piano Geithner-Summers implica un enorme trasferimento di ricchezza, forse per centinaia di miliardi di dollari, dai contribuenti agli azionisti delle banche. Ne sono una prova i rialzi dei prezzi dei titoli bancari già nella settimana che ha preceduto l'annuncio. Il valore di questo salvataggio di massa è di gran lunga superiore al bonus destinato ad Aig e Merrill. Ma il meccanismo è molto meno ovvio e la reazione dell'opinione pubblica è stata debole, almeno finora. Per ripulire i bilanci delle banche esistono alternative molto più efficaci e più eque.
Timothy Geithner e Larry Summers hanno annunciato il loro piano: depreda la Federal Deposit Insurance Corporation e la Federal Reserve per garantire credito agli investitori che acquistano dalle banche attivi tossici a prezzi esagerati. Se il piano sarà attuato, il risultato sarà un enorme trasferimento di ricchezza, forse per centinaia di miliardi di dollari, dai contribuenti (su cui ricadranno le perdite di Fdic e Fed) agli azionisti delle banche. Il rialzo dei prezzi dei titoli bancari nella mattina dell'annuncio, e anche nella settimana di indiscrezioni e allusioni che l'ha preceduto, sono un'indicazione del salvataggio di massa in atto. Ci sono modi molto più equi e molto più efficaci per raggiungere l'obiettivo di ripulire i bilanci delle banche.
Come funziona
Ecco come funziona una parte importante del piano. Sarà creato un gigantesco fondo di investimento (o forse più di uno) per acquistare attivi tossici dalle banche. I bilancio dei fondi di investimento sarà così organizzato: per ogni dollaro di attivi tossici che acquistano dalle banche, la Fdic garantirà un prestito fino a 85,7 centesimi (i 6/7 di un dollaro), il Tesoro e gli investitori privati metteranno ciascuno 7,15 centesimi di capitale. Il prestito della Fdic sarà “non recourse”, ovvero se il valore degli attivi tossici acquistati dagli investitori privati scenderà al di sotto dell'ammontare del prestito Fdic, i fondi di investimento non lo restituiranno e la Fdic si ritroverà con gli attivi tossici.
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Il gioco di Ponzi
di Perestroika
Dai domiciliari a casa, Bernie Madoff, autore della più colossale truffa di tutti i tempi (si parla di oltre 60 miliardi di dollari), è finito in prigione, in attesa del processo in cui rischia una condanna fino a 150 anni di galera. Ma la sua vicenda personale si intreccia con la nostra storia e i tempi di crisi sistemica che stiamo vivendo e dovrebbe farci riflettere. Cosa ne pensa il guru dell’economia Nouriel Roubini di questa vicenda? Cosa simboleggia?
La sua risposta in questa intervista:
Gli americani sono vissuti in una bolla economica di Madoff e Ponzi per un decennio ed anche oltre. Madoff è lo specchio dell’economia americana e dei suoi superindebitati rappresentanti: un castello di carte di debiti su debiti costruito da famiglie, imprese finanziarie ed aziende che ora è crollato.
Quando di vostro non investite nulla sulla vostra casa e di conseguenza non avete nessuna partecipazione azionaria sulla casa, il vostro indebitamento è praticamente infinito e state giocando il gioco di Ponzi.
E anche la banca che vi ha fatto un prestito a interessi zero, un falso prestito NINJA (No Income, No Jobs and Assets - fatto cioè senza alcuna garanzia di reddito, occupazione o patrimonio) con solo interessi iniziali con ammortamento negativo e un tasso irrisorio di partenza, stava giocando il gioco di Ponzi.
E anche le società di equity che in questi ultimi anni hanno fatto a debito oltre mille miliardi di Leveraged Buyout, per guadagnare fino a 10 volte tanto o anche di più, erano società Ponzi che giocavano il gioco di Ponzi.
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Alle origini della più grande truffa della Storia
di Ugo Natale
In vasti settori dell’opinione pubblica americana c’è oggi la tendenza a ritenere Bush il colpevole della crisi che ha messo in ginocchio gli USA. Non vi è alcun dubbio che la presidenza di Bush junior sia stata una delle peggiori disgrazie capitate a questa giovane nazione. Sarà evidentemente la Storia a giudicarlo, anche se è già lecito dire che Bush il giovane è stato sicuramente il peggiore presidente della storia americana, certamente come immagine ma forse non come contenuti, almeno per quanto riguarda l’attuale crisi economica e finanziaria, perché per cercare di spiegare la più grande truffa finanziaria messa in atto da quando l’uomo ha cominciato a camminare da bipede, bisogna andare indietro a tempi pre-bushiani.
Nel 1980 il grande predicatore fu eletto presidente degli USA. Ronald Reagan era il classico discendente dei primi “pellegrini”. quelli cioè che di giorno massacravano gli Indiani e la sera si battevano il petto con la Bibbia. Uno dei suoi motti era:«L’intervento dello Stato non è la soluzione ai nostri problemi, anzi è proprio la presenza dello Stato ad essere il problema».
Gli sciacalli “banchieri” e “finanzieri” capirono che il cowboy era disposto a lasciare incustodito il pollaio e si misero quindi al lavoro. La loro strategia era semplice. Individuare il punto debole del recinto e convincere il cowboy a togliere i paletti che sostenevano il recinto di protezione. Una volta fatto ciò, la festa sarebbe stata assicurata.
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Nouriel Roubini: «Vedo la luce in fondo al tunnel»
di Isabella Bufacchi
Chi ha il coraggio di domandare a Dr. Doom Nouriel Roubini se la crisi ha toccato il fondo, se il peggio è passato, deve anche avere il coraggio di ascoltare la risposta che, sintetizzata in due lettere, è prevedibilmente "no". Per il professore di economia della New York University che gode oramai di una indiscussa fama mondiale per aver previsto con ampio anticipo e accurate analisi la crisi che ha messo in ginocchio il mondo, i mercati devono ancora scontare qualche altra cattiva notizia: è dell'opinione - in verità non è il solo - che i rialzi delle Borse di questi ultimi giorni siano un "bear market rally", con nuovi ribassi in arrivo. Tuttavia, in una intensa presentazione tenuta ieri a Milano in un incontro a porte chiuse organizzato da Calyon Crédit Agricole, Dr. Doom ha concesso un barlume di speranza: "la luce in fondo al tunnel c'è", ha detto, anche se a denti stretti. E ha subito posto una serie di condizioni: purchè i Governi e le Banche centrali dei Paesi maggiormente colpiti dalla peggiore recessione dalla Grande Depressione del ‘29 – Stati Uniti, Unione Europea, Cina e Giappone in primis – "adottino misure anti-crisi molto aggressive di breve periodo". Quel che è stato fatto finora, tra stimoli fiscali e politiche monetarie anche non convenzionali, non basta. La gravità della crisi è tale ("l'economia mondiale rischia di cadere nel baratro della depressione", per dirla come la dice Roubini) da richiedere sforzi maggiori, azioni più tempestive e scelte più coraggiose da parte dei Governi. Ecco in sintesi il Doom-pensiero sulle principali questioni aperte che stanno più a cuore ai mercati, aggiornato al 20 marzo 2009.
Le banche
La "buona notizia" per Dr. Doom è che dopo il fallimento di Lehman Brothers il rischio sistemico dovuto alla bancarotta di una grande istituzione finanziaria è stato neutralizzato: i Paesi del G7 e l'Unione europea "hanno ammesso che far fallire Lehman è stato un errore" e hanno promesso che faranno di tutto per evitare che un evento di tale portata si ripeta.
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Un'economia senza controllo e indirizzo: e siamo andati in mille pezzi
di Rossana Rossanda
Che si tratti di una crisi "nel" capitalismo o, come pensa Immanuel Wallerstein, "del" capitalismo le sinistre non sembrano opporvi né una propria diagnosi né un'alternativa. Chiedono per il lavoro dipendente un aumento dei salari e per la disoccupazione più ammortizzatori sociali. E qui si fermano: non sono in grado di esigere che si sfondi il patto di stabilità, né che si tassino robustamente i ceti medioalti. Non solo perché hanno davanti per lo più governi di destra, ma perché è anche loro la persuasione che tassare i più abbienti ridurrebbe gli investimenti nella produzione. Come se da oltre un ventennio non fosse in atto una diversione dei profitti dalla produzione alla finanza, la cui "creatività" è stata agevolata dallo sparire dei controlli sugli scambi e dalla totale liberalizzazione del mercato, che si sarebbe riequilibrato da solo. La tesi di una oggettività delle "leggi economiche", sulle quali ogni intervento del politico sarebbe dannoso, si era aperta un varco nel Pci degli anni sessanta, e dopo l'ondata del 68 si sarebbe affermata con quell'inatteso «la produzione è un bene in sé» di Berlinguer, per poi trionfare infine nel 1989. Risultato: nei primi anni 2000 i redditi da lavoro e pensioni erano scesi di dieci punti nella composizione della ricchezza rispetto agli anni '70. Le banche hanno facilitato i prestiti per l'immobiliare a ceti mediobassi, già diminuiti nella possibilità di rimborsare i crediti. Oggi, a bolle esplose, istituti di credito e di assicurazione falliti, calo precipitoso dell'occupazione e dei Pil, né governi né media sono in grado di dirci a quale composizione del reddito siamo. Nel solo dicembre gli Stati Uniti hanno perduto quasi settecentomila impieghi, e la previsione della Cgil di perderne cinquecentomila in Europa appare già superata dai dati spagnoli, francesi e tedeschi.
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Capitalismo tossicodipendente
Cronache della crisi che cavalca non risparmiando nessuno
Francesco Schettino
chi caga sotto la neve pure se fa la buca e poi la copre
quanno a neve se è sciolta la merda viè sempre fòri.
(Amendola/Girardi – Delitto a Porta Romana)
impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa produzione.
(K.Marx, Il Capitale, III; 48)
Ormai che la crisi si è manifestata, per quanto in piccola parte, nella sua cruenta e potenziale realtà, nessuno ha più la possibilità e la volontà – a parte forse la magnifica accoppiata Berlusconi-Scajola – di nascondersi dietro manifestazioni di mal celato ottimismo o, peggio ancora, all’ombra delle erudite curve degli insulsi economisti borghesi, magari pure premio-nobel. È così che, forse anche per tentare di non far trapelare del tutto la drammaticità della fase, attraverso un’inondazione mediatica di numeri e di dichiarazioni prodotte dai più insigni agenti del capitale mondiale sui mezzi di (dis)informazione di massa, si stanno iniziando a delineare più precisamente i pesanti effetti dell’esplosione della crisi più che trentennale che, ormai, senza più alcun dubbio, rappresenta il momento più difficile del modo di produzione capitalistico almeno dai primi del novecento.
Cifre apocalittiche, talvolta impronunciabili, vengono ormai quotidianamente rese pubbliche e regolarmente sono peggiori rispetto a quelle del giorno precedente.
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Il sistema finanziario statunitense è di fatto insolvente
di Nouriel Roubini*
Per coloro che sostengono che il tasso di crescita dell’attività economia stia ritornando positivo – e cioè che le economie si stiano contraendo ma ad un ritmo più lento rispetto al quarto trimestre del 2008 – gli ultimi dati non confermano questo relativo ottimismo. Nel quarto trimestre del 2008 il prodotto interno lordo è diminuito di circa il 6% negli Stati Uniti, del 6% nell’Eurozona, dell’8% in Germania, del 12% in Giappone, del 16% a Singapore e del 20% in Corea del Sud. Quindi, le cose sono addirittura più agghiaccianti in Europa e in Asia rispetto agli Stati Uniti.
Esiste, in effetti, un rischio crescente di una depressione globale a forma di L che sarebbe addirittura peggiore dell’attuale dolorosa recessione globale a forma di U. Ecco perché.
Innanzitutto, notate come la maggior parte degli indicatori mostrino che la derivata seconda dell’attività economica sia ancora fortemente negativa in Europa e in Giappone e vicina alla negatività negli Stati Uniti e in Cina. Alcuni segnali del fatto che la derivata seconda stava volgendo alla positività per Stati Uniti e Cina si sono rivelati dei fuochi di paglia. Per gli Stati Uniti, gli indici Empire State e Philly Fed per l’attività manufatturiera sono ancora in caduta libera; le richieste dei sussidi di disoccupazione sono ancora a livelli preoccupanti, suggerendo un’accelerazione della perdita di posti di lavoro. E l’incremento delle vendite di gennaio è un caso fortunato – più un rimbalzo da un dicembre molto depresso, dopo le impetuose vendite post-festività, che una ripresa sostenibile.
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O le banche o la vita. Meglio nazionalizzare
Joseph E. Stiglitz
I consigli del premio Nobel per l'Economia a Barack Obama. Tanto per cominciare, seguire il detto: «l'inquinatore paga». E a New York la storica rivista della sinistra Usa chiama a raccolta ospiti illustri e presenta gli articoli con cui dimostra di aver previsto tutto. I suoi lettori accorrono, soprattutto per capire se c'è una via per uscire a sinistra dalla crisi Fare in fretta, prima di buttare altri soldi in salvataggi
La notizia che la nazionalizzazione delle banche potrebbe essere necessaria anche secondo Alan Greenspan dimostra quanto la situazione sia disperata. Come è evidente da tempo, l'unica soluzione è che il nostro sistema bancario sia rilevato dal governo, forse sulla falsariga di quanto fecero Norvegia e Svezia negli anni '90. Bisogna farlo, e farlo in fretta, prima che altri soldi vadano sprecati in manovre di salvataggio.
Il problema delle banche americane non è solo un problema di liquidità. Anni di comportamentisconsiderati, tra cui la concessione di crediti inesigibili e l'avere giocato d'azzardo con i derivati, le hanno ridotte in bancarotta. Se il nostro governo rispettasse le regole del gioco - che prevedono tra l'altro la chiusura delle banche il cui capitale è inadeguato - sono molte, se non moltissime, le banche che uscirebbero dal mercato.
Nessuno sa con certezza quanto sia grande il buco; secondo alcune stime la cifra ammonterebbe a duemila o tremila miliardi di dollari o più. Dunque la domanda è: chi si farà carico della perdite? Wall Street non chiederebbe di meglio che uno stillicidio continuo del denaro dei contribuenti. Ma l'esperienza di altri paesi suggerisce che quando sono i mercati finanziari a comandare, i costi possono essere enormi. Paesi come l'Argentina, il Cile, l'Indonesia, per salvare le proprie banche hanno speso il 40% e oltre del loro prodotto interno lordo. Il costo per il governo è di particolare importanza, dato l'indebitamento ereditato dall'amministrazione Bush, che ha visto il debito nazionale lievitare da 5.700 miliari di dollari a oltre 10.000 miliardi di dollari.
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Perchè il piano di Obama non salverà l'economia
di Paul Krugman
Il piano del presidente Obama mirante a stimolare l´economia era "imponente", "colossale", "gigantesco": così è stato riferito agli americani nel periodo immediatamente precedente alla sua approvazione. Seguendo i telegiornali ci si sarebbe potuti chiedere una cosa sola: il piano non sarà per caso troppo mastodontico, troppo ambizioso?
Eppure, molti economisti e tra loro anche il sottoscritto sostenevano che il piano fosse inadeguato e troppo prudente. Gli ultimi dati confermano queste preoccupazioni, e suggeriscono che le politiche economiche dell´Amministrazione Obama già adesso stanno rivelandosi inadeguate e lente rispetto alle necessità.
Per comprendere come stanno andando male le cose si consideri, per esempio, che tra le varie proposte di budget dell´Amministrazione si era messo in conto per l´intero anno 2009 un tasso medio di disoccupazione dell´8,1 per cento. In realtà quel livello di disoccupazione è stato raggiunto già nel mese di febbraio e sta continuando a salire rapidamente. L´occupazione è già diminuita considerevolmente di più in questa recessione che nella crisi del periodo 1981-82, giudicata la più grave dai tempi della Grande Depressione. Di conseguenza, la promessa di Obama di creare o salvare 3,5 milioni di posti di lavoro entro la fine del 2010 con il suo piano appare a dir poco scoraggiante.
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Crisi globale – Proletarizzazione globale – Contro-prospettive
Prime ipotesi di ricerca
Karl Heinz Roth
Introduzione
Stiamo entrando in una situazione storica mondiale nella quale tutti i meccanismi di scambio tra vita politica e vita socioeconomica sono disposti in modo nuovo. Per la mia generazione, questo sarà il secondo mutamento d'epoca dopo il periodo 1967-1973. Tutti i fatti e gli indicatori principali delle trascorse settimane suggeriscono l'inizio di una crisi economica mondiale che sorpassa sin da ora il livello raggiunto da quella del 1973 e dalle crisi intermedie del 1982 e del 1987. La crisi attuale si sta avvicinando alle dimensioni della crisi mondiale e della depressione che ne è seguita negli anni tra il 1929 e il 1938.
Come dobbiamo reagire a fronte di una simile sfida gigantesca? Questa è ormai la domanda decisiva. Per questo ho completamento riscritto un saggio sul quale stavo lavorando e che avevo impostato come una replica alle critiche indirizzate alle mie ipotesi sulla «condizione del mondo» nel 2005. Presento qui i pensieri e i risultati della ricerca che ho prodotto sinora; lo stato è provvisorio, si tratta di una sintesi, perché tali risultati dovranno essere rivisti, corretti e ampliati in un dialogo costante prima della pubblicazione del libro. Vi sono compresi i primi risultati della discussione tenutasi il 27 novembre alla Schorndorf Manufaktur, le conclusioni del dibattito collettivo della lista Wildcat, gli esiti di un seminario dell'Interventionistische Linke del 13 dicembre, nonché i risultati di diverse discussioni che ho intrattenuto con alcuni amici.
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Crisi finanziaria: il peggio deve ancora venire
Nouriel Roubini, Stephen Roach, David Smick, Robert Shiller e Dean Baker
"Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l'inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare." Albert Einstein
Cinque economisti hanno dato avventimenti che non sono stati ascoltati, è ora di gettare uno sguardo alla prossima fase della crisi globale. Ecco cosa dicono:
• Attenzione: Si avvicinano tempi bui. Nouriel Roubini
• Uno shock letale. Stephen Roach
• Buona fortuna, Barack. David Smick
• Quanto manca? Robert Shiller
• Si deve controllare il dollaro. Dean Baker
Nouriel Roubini. Avviso: Si avvicinano tempi bui.
Le peggiori previsioni dello scorso anno si sono realizzate. La pandemia finanziaria globale che alcuni avevano previsto è già qui. Ma siamo ancora nelle prime fasi di questa crisi. La mia previsione per l'anno che inizia, purtroppo, è ancora più pessimista: le bolle, che sono state molte, hanno appena iniziato ad esplodere.
L'idea che più ha preso piede è che i prezzi di molti attivi finanziari a rischio sono caduti così tanto, che abbiamo toccato il fondo. E' vero che essi hanno subìto una forte contrazione rispetto al loro massimo alla fine del 2007, ma è anche vero che possono scendere ancora di più. Nei prossimi mesi, le notizie macroeconomiche negli Stati Uniti e in tutto il mondo saranno molto peggiore di quelle attese. I dossier sui guadagni delle aziende sorprenderebbero qualsiasi analista di valori che ancora creda che la situazione economica sarà lieve e breve.
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La comune legge
I piccoli protezionisti del mercato
Ugo Mattei
La parola d'ordine è che serve una «nuova Bretton Woods». Per stabilire però norme non vincolanti per gli stati nazionali. In nome della continuità, per escludere i paesi emergenti e le vittime del neoliberismo dalle decisioni necessarie per uscire dalla recessione economica
Difficile immaginare un gruppo più screditato rispeto a quello dei ministri economici del G7 che si è tenuto a Roma in vista dello sfoggio muscolare annunciato per quest'estate alla Maddalena, quando i capi di stato degli otto paesi più industriailizzati si incontreranno per decidere la sorte del mondo. Un gruppo di impotenti «ex potenti» che si ritrova per discutere di una crisi di fronte alla quale non ci sono che due certezze dettate dal puro buon senso: a) che essa è la conseguenza strutturale di un modello di sviluppo capitalistico di cui i paesi del G7 sono stati, chi più chi meno, i principali interpreti da Bretton Woods (1944) in poi; b) che la soluzione della crisi non può essere indicata dagli stessi interpreti che l'hanno causata. In primo luogo, per la «dipendenza da percorso» (path dependency) che li rende del tutto prigionieri di modi di pensare superati. In secondo luogo, perchè essi continuano a non dialogare con quei soggetti politici internazionali con i quali viceversa si dovrebbe concertare qualsiasi via d'uscita. Mi riferisco da un lato ai paesi del Bric (Brasile, Russia, India, e Cina), dall'altra a rappresentanze estese dei continenti che più hanno subito (e ancor stanno subendo) gli effetti della dissennata politica del saccheggio post-coloniale, dal mondo arabo all'Africa al Sud Est Asiatico al cono sud Americano solo per citarne alcuni.
In questo scenario surreale, con i generali senza truppe in preda ai sussulti finali di un delirio di onnipotenza inconcludente, si invoca l'intervento del «diritto» e delle «regole». Si cerca così di mettere all'ordine del giorno la necesità di produrre dei legal standards per ovviare al Far West finaziario; standards, si fa intendere,dalla vocazione potenzialmente espansiva che si candidino a disciplinare una nuova globalizzazione delle regole, senza perciò «limitarsi» alla finanza.
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La terza fase della crisi è in periferia
Domenico Moro
Dopo il crollo del sistema finanziario in Usa e in Ue e dopo la sovrapproduzione industriale, si apre una nuova stagione di difficoltà economica che investe i paesi emergenti portando allo scoperto la fragilità della loro crescita fondata su un esagerato indebitamento. Rispetto al pericolo di insolvenza e di bancarotta statale di queste nazioni, che sono soprattutto dell'Est, i più esposti sono i creditori dell'Europa Occidentale, tra cui l'Italia
Di recente si sono verificati due fatti significativi della situazione in cui versa la Ue ed in particolare il suo nocciolo duro, l'eurozona. Il primo è il calo dell'euro sul dollaro del 22% rispetto al picco raggiunto nel luglio del 2008, dopo un lungo periodo di crescita. Il secondo è l'approvazione da parte del governo tedesco di una legge che consente allo Stato l'espropriazione delle banche che versano in una situazione di grave difficoltà.
Si tratta di una novità epocale, perché la Legge fondamentale tedesca, a differenza di altre Costituzioni europee, prevede limiti specifici all'esproprio, e perché in questo modo si vengono a negare i principi di economia liberista su cui la Repubblica Federale Tedesca si è fondata sin dagli anni 50 in contrapposizione alla socialista Repubblica Democratica Tedesca.
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Contro lo statalismo liberista
di Emiliano Brancaccio
General motors e Chrysler reclamano 40 miliardi di dollari dall’Amministrazione Obama per non fallire, e proprio al fine di ottenere gli agognati fondi pubblici annunciano quasi 50.000 tagli ai posti di lavoro, la più grande ondata di licenziamenti nella storia americana. E’ proprio il caso di dire che viviamo in tempi gattopardeschi, nei quali il liberismo viene messo sotto accusa solo dalla cintola in su.
Da un lato viene ormai da più parti invocata la protezione statale di singoli settori produttivi o addirittura il passaggio da mani private a mani pubbliche di pezzi importanti del capitale finanziario e industriale. Ma dall’altro lato non abbiamo assistito al minimo ripensamento riguardo ai processi di erosione dello stato sociale o alla completa soggezione alle leggi del mercato nelle quali versa la grande maggioranza dei lavoratori subordinati. Senza nemmeno accorgercene, siamo insomma piombati nell’epoca dello statalismo liberista, un ossimoro niente affatto rassicurante con il quale saremo costretti a misurarci per un tempo non breve.
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Dissesto geopolitico globale
La quinta fase della crisi economica: il dissesto geopolitico globale
Rilasciato ieri il GEAB numero 32: è il report mensile del gruppo Europe2020. Chi ne sentisse parlare per la prima volta, puo’ approfondire qui.
Il nuovo report, che anticipa le tendenze geopolitiche per il quarto trimestre del 2009, non è dei più confortanti. Lo scenario tratteggiato dagli esperti di Europe2020 è a tinte fosche.
Ne pubblichiamo, come sempre, ampi stralciin italiano.
Nel Febbraio 2006 il report stimava che la crisi economica si sarebbe articolata in quattro fasi principali:
- avvio
- accelerazione
- impatto
- decantazione
A causa della incapacità dei leader globali di comprendere la portata della crisi in corso (vista la loro determinazione nel curare le conseguenze anzichè le cause della crisi), la crisi sistemica globale entrerà nel quarto trimestre del 2009 in una quinta fase: la fase del dissesto geopolitico globale.
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Cure omeopatiche per la crisi
Pierre Carniti
Come fanno gli omeopati, si sta tendando di tamponare un disastro scatenato dai debiti facendo altri debiti, ma non servirà se si lascia immutato tutto il resto. In Italia, poi, non si fa neanche questo. Pochissime risorse e disperse, invece di canalizzarle in tre direzioni precise
Più passa il tempo e più un aspetto diventa chiaro. La crisi economica non è stata prevista e le misure intraprese per contrastarla, se va bene, possono frenare la caduta, ma non costituiscono una convincente “exit strategy”. La ragione è presto detta. Non si va molto lontano reagendo come se si dovesse affrontare una normale crisi congiunturale legata cioè all’andamento del ciclo economico. Magari, solo un po’ più grave, più profonda e verosimilmente più prolungata delle altre.
Che è più o meno la reazione che ha inizialmente preso piede negli Stati Uniti, dove la crisi è fragorosamente esplosa un anno fa. In effetti l’amministrazione Bush ha pensato di poterla contrastare mettendo sul piatto un pacchetto di 160 miliardi di dollari di “stimoli all’economia”. Nel giro di pochi mesi si è però capito che la cura non funzionava. Ed, invece di valutare meglio le cause e quindi i più appropriati rimedi, si sono semplicemente aumentate le “dosi”. Nell’illusione che bastasse contrastare i sintomi anziché che curare la malattia. Lo stanziamento è stato così elevato prima a 700 miliardi, poi a circa 800, per arrivare infine (con la presidenza Obama) a più di 1000 miliardi. Che potranno lievitare fino a 2000, con la costituzione di un “fondo con i privati” per i titoli tossici. Ammesso che riesca ad avere un futuro la proposta formulata dal segretario al tesoro Geithner.
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Visioni della crisi/Crisi “nel” o ”del” capitalismo?
di Osvaldo Pesce
L’attuale crisi economica mondiale mette in discussione la globalizzazione – attuata nel corso degli ultimi dieci anni dagli USA, seguiti dall’Europa - che non può più essere perseguita. Il meccanismo di crescita dell’economia si è inceppato, i vari paesi vengono a turno stravolti dai crack finanziari e coinvolti nella stagnazione produttiva, e per evitare che la crisi si riversi su di loro questi devono “chiudersi” in parte all’esterno e cercare soluzioni proprie
Oggi si prospettano tre diverse opzioni dei governi per far ripartire l’economia:
1. aumentare il debito pubblico nei vari paesi;
2. rispondere alla crisi con la guerra;
3. sviluppare blocchi continentali.
Prima strada: debito pubblico.
Il debito pubblico è già considerevole in USA (circa il 65% del PIL); i fondi federali vengono utilizzati per “salvataggi” che puntellano le attività finanziarie (banche) e alcune industrie decotte (i colossi automobilistici), lasciando tuttavia la situazione sostanzialmente invariata.
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Una formula per questa crisi
Giorgio Gattei*
1. In macroeconomia c’insegnano che i consumi sono funzione dei redditi delle famiglie. E se poi si approssimano i redditi delle famiglie alle retribuzioni dei lavoratori, allora i consumi risultano funzione inversa dei profitti dei capitalisti. La relazione è corretta, ma insufficiente. Infatti, quando i redditi e le retribuzioni superano un certo livello diventa possibile per le famiglie, oltre che consumare, acquisire un patrimonio di beni immobili e titoli mobiliari.
Nemmeno questa relazione è però sufficiente perché in epoca di finanziarizzazione sia i consumi che il patrimonio possono essere alimentati anche dal ricorso al credito, che è debito D per le famiglie. Ne risulta così che i consumi C e il patrimonio P delle famiglie sono alimentati dai redditi Y e dall’indebitamento D. Per sintetizzare si può scrivere:
C + P = f (Y, D)
Ovviamente la sostenibilità dell’indebitamento dipende dal tasso d’interesse che viene praticato dalle banche, con un doppio effetto di retroazione positivo se il tasso d’interesse diminuisce. Infatti da un lato aumenta la facilità di ricorso al credito che alimenta la costituzione di maggiori consumi e patrimoni, dall’altro cresce il valore del patrimonio già posseduto (essendo il valore del patrimonio in funzione inversa del saggio d’interesse) che consente un ulteriore ricorso al credito.
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