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Il dollaro basso è pilotato politicamente, mentre l’euro alto è al suo rimorchio
di Carlo Gambescia
Un’interessante intervista di Giacomo Vaciago. Qualche riflessione.
Vorremmo richiamare l’attenzione dei nostri lettori sull’intervista concessa ieri dall’economista Giacomo Vaciago al quotidiano il Riformista. (http://www.ilriformista.it/ ). A suo avviso il vero problema economico-politico di oggi, non è l’ (apparente) debolezza del dollaro, ma (l’apparente) forza dell’euro.
Messa così, l’affermazione può apparire paradossale. Ma Vaciago, da vero economista “spurio” sa che la chiave dell’economia va trovata nella politica. E che dunque il dollaro basso è pilotato politicamente, mentre l’euro alto è al suo rimorchio.
Nota Vaciago: “Lei mi chiede se l’euro potrà soppiantarlo [il dollaro] a livello mondiale? Le risulta che Merkel, Sarkozy e Prodi e altri si incontrino ogni lunedì della settimana per concordare una politica economica comune? A me no e la verità è che soltanto questo servirebbe, per rendere l’euro davvero forte: un governo politico forte dei tre paesi della moneta unica. Ma per ora l’euro si regge soltanto su gambe tecnocratiche. Cioè deboli”.
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Lo speculatore scatenato
di Ernst Lohoff
Tobin Tax e nazionalismo keynesiano: una mistura indigesta
Per definizione i Nobel per l’economia non possono avere pensieri emancipatori: l’idiota di professione James Tobin, cui il premio fu attribuito nel 1981, ha formulato una proposta particolarmente ottusa, in circolazione da tempo senza troppo successo. Tale proposta mira niente meno che a mettere le briglie a una porzione della sovrastruttura finanziaria grazie a una tassazione della speculazione valutaria secondo la filosofia del buon vecchio capitalismo produttivo di marca protestante e a ricondurre così l’amato capitale monetario ai mulini fordistici degli investimenti per i posti di lavoro che ormai da tempo stanno girando a vuoto: in questo modo l’ilota dell’economia di mercato potrà continuare a guadagnarsi la sua birra col sudore della fronte.
Le teste che sfornano progetti per la creazione di "lavoro" fanno propria la volgare forma mentis dello schiavo salariato, invece di cogliere l’occasione per un sussulto liberatorio anche solo verbale e denunciare così come coercizione assurda l’eterna terapia occupazionale per lo scopo a sé capitalistico. Non occorrono posti di lavoro ma un impiego fondamentalmente diverso delle forze produttive al di là della razionalità aziendale e che potrebbe rendere possibile una grande quantità di tempo libero e una buona vita per tutti.
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Una debacle finanziaria causata dai derivati sul credito
di Antonio Pagliarone
"Così la speculazione comincia proprio nella depressione. Dal punto di vista economico privato, l’investimento in borsa è fruttifero come qualsiasi altro. L’"investimento" in borsa però non crea né valore né plusvalore. Esso ha per scopo soltanto un aumento dei corsi e trasferimenti di capitale. Questo capitale si rivolge alla borsa, dimenticando il carattere illusorio di questi investimenti."
Henryk Grossmann, "La legge generale dell’accumulazione e il crollo del capitalismo".
Se la crisi finanziaria degli Stati Uniti verificatasi nel 1998 poteva essere imputata alle dinamiche dei derivati sui cambi e sui tassi di interesse legati al fenomeno della "dollarizzazione" di paesi come Brasile, Messico, Giappone e Sud-Est asiatico, culminata con il crollo dell’Argentina, il crash che ha colpito il paese più sviluppato del pianeta nell’estate del 2007, con gravi ripercussioni sul sistema finanziario internazionale, è stato provocato inequivocabilmente dalla massa di derivati sui tassi di interesse e dai credit default swaps.
Ciò che sconcerta è l’ipocrisia generale manifestatasi in occasione della notizia secondo la quale più di due milioni di famiglie americane, che avevano contratto un mutuo per la casa, erano divenute inadempienti; nel frattempo i mass media terrorizzavano la gente paventando una crisi generalizzata per colpa di questi debitori senza criterio. Non solo, le banche americane furono accusate di elargire crediti "facili"senza alcuna garanzia e quant’altro potesse servire per allarmare ulteriormente i lavoratori già depressi per la vita che fanno ogni giorno.
Ad ogni crash finanziario vengono ripetute le solite lagne di una bolla speculativa che sicuramente si sgonfierà presto grazie a miracolosi interventi delle banche centrali o addirittura dei governi (in particolare la Fed e l’amministrazione USA). Nessuno si è preoccupato di notare che tali tracolli si ripetono troppo spesso e ogni volta con esiti sempre più rovinosi per l’economia mondiale.
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Stato e mercato
Sole 24 Ore, il «momento Minsky» e il liberismo impossibile
Riccardo Bellofiore
Valentino Parlato ha invitato il Sole 24 Ore all'apertura di un dibattito. L'invito è stato raccolto da Fabrizio Galimberti. L'occasione è il salvataggio della Northern Rock da parte dello stato, ma la discussione investe spazio e ruolo del liberismo. Vorrei proporre un punto di vista inusuale, forse intrigante anche per i giornalisti del Sole, che sono di buone letture.
La crisi dei subprime, in incubazione da tempo, si è fatta seria a marzo, ed è esplosa a luglio. Proprio a marzo e a luglio George Magnus, senior economic advisor dell'Ubs di Londra, in due rapporti ha avvertito che si avvicinava un «momento Minsky». L'espressione è circolata nei blog finanziari, ed è diventata una valanga. Non ha risparmiato il Financial Times o il Wall Street Journal, il Guardian e Le Monde Diplomatique, da noi persino Repubblica. Di che si tratta?
Hyman P. Minsky è un economista eterodosso americano, morto nel 1996. Una Cassandra che ricordava sempre che la «stabilità è destabilizzante». La crescita capitalistica degenera ineluttabilmente in instabilità finanziaria. Quando le bolle scoppiano, la deflazione da debiti è dietro l'angolo. I suoi libri sono tradotti, in italiano da editori prestigiosi. Ma nessuno se ne ricordava più. Come mai tanta notorietà, ora?
La risposta è facile: Minsky ha avuto fastidiosamente ragione. La sua visione è semplice e potente.
Nel capitalismo, produzione e investimento devono essere finanziati, e al centro del sistema dei pagamenti ci sono le banche. Dopo una grave crisi, il ciclo riparte con una crescita «tranquilla». Gli operatori sono in posizione coperta»: le entrate di cassa coprono le uscite. Le cose vanno bene, l'ottimismo si diffonde, debitori e creditori riducono la stima del rischio.
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Il paradosso mercantilista: lo Stato finanzia Wall Street
di Tito Pulsinelli
Negli Stati Uniti, dall’inizio dell’anno il settore finanziario ha licenziato 88.000 funzionari ed impiegati, mentre nel 2006 persero il lavoro 50.237 persone. I licenziamenti dall’inizio di agosto sfiorano i 21.000 (1).
C’è stata una forte impennata nell’esecuzione dei pignoramenti ed espropriazioni di appartamenti ed edifici: 179.600 nel solo mese di luglio. Il senatore C. Dodd retiene che “da uno a tre milioni di persone potrebbero perdere la loro casa”.
Queste poche cifre indicano con chiarezza la gravità della crisi del settore inmobiliario degli Stati Uniti, che covava sotto la cenere mediatica da molto tempo, ma veniva sistematicamente ignorata o minimizzata. Ora che l’esplosione è avvenuta, emergono le caratteristiche distruttrici di un collasso che sta facendo tremare il cosiddetto sistema finanziario internazionale.
I “furbetti della bolla immobiliare”, vale a dire gli usurai globali che avevano gonfiato all’infinito il valore dei titoli dell’industria del mattone, oggi alzano bandiera bianca. La “bolla” gli è scoppiata in faccia perché non c’è più una relazione credibile tra il valore di un edificio reale e quello dei “titoli” che li rappresentano.
Una cosa è un edificio, altro sono i titoli immobiliari o gli hedge funds che li “assicurano”; una cosa è l’economia reale altro è l’economia cartacea del capitalismo globalista. Tra le due c’è un abisso, su cui regna sovranamente la plutocrazia finanziaria.
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Il grande casino mondiale della finanza
di Giulietto Chiesa
Allora facciamo un po' di conti: la Banca Centrale Europea ha sganciato più di centoventi miliardi di euro per sostenere le banche europee che hanno speculato sulla bolla edilizia e dei facili prestiti americani. La Federal Reserve ha tirato fuori assai meno per sostenere i truffatori d'oltre Oceano, cioè 12 miliardi di dollari, più 25, totale 37. Li chiameremo truffatori perché stimiamo abbastanza il premio Nobel Joseph Stiglitz, il quale ha scritto, senza troppi complimenti, che Alan Greenspan non poteva non sapere, negli anni scorsi, a partire dal 2002, che la politica della Federal Riserve, da lui guidata, avrebbe condotto al baratro.
Come definire un signore dall'immenso potere, come Greenspan, che trascina il mondo intero verso un disastro, sapendo perfettamente quello che fa? Un truffatore, certamente. Ma anche un irresponsabile. E, quindi, seconda domanda: come possiamo stare tranquilli venendo a sapere che alla testa di cruciali istituzioni di influenza planetaria ci sono persone irresponsabili?Anche perché non è che Alan Greenspan agisse da solo. Con lui c'era il presidente degli Stati Uniti, per esempio. E via scendendo per li rami di questa foresta imperscrutabile che è oggi la finanza mondiale.
L'allarme rosso è venuto quando si è scoperto che una delle maggiori banche europee, BNP Paribas (che è ora anche molto presente sul mercato italiano) ha dovuto chiudere, per palese insolvenza, ben tre “fondi” che avevano speculato, anche loro, insieme alle banche americane, sui mutui ultra-agevolati che sono stati concessi ai risparmiatori americani.
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Quella maledetta casa di Slawson Avenue
La crisi dei mutui subprime e i mercati finanziari globali
di Sbancor
Una crisi sistemica potrebbe iniziare così. Oggi, giovedì 9 agosto alle ore 14.15 mi telefona un amico da un’agenzia di stampa tedesca. Mi dice che circolano rumors in Germania sulla crisi di una banca. Soggiunge, preoccupato, che “i rumors” si sono spinti fino a sostenere che per qualche ora è stato chiuso il mercato interbancario. Gli prometto di informarmi. Recupero lentamente un po’ di lucidità dal torpore postprandiale. Apro Bloomberg scorrendo le market news. La prima notizia che attrae la mia attenzione è che la British Bankers Association ha comunicato che il tasso overnight interbancario, il cosiddetto London Interbank Offered Rate (LIBOR) è salito dal 5,35% al 5,86%. Il livello più alto dal 2001. Sembra che a determinare l’incremento siano le preoccupazioni sui mutui immobiliari “subprime” americani. Ora i “subprime” sono la grande paura che da febbraio agita i mercati. Si tratta di mutui ipotecari concessi a clienti che hanno redditi bassi e lavoro spesso precari, in quartieri che certo non assomigliano a Beverly Hills.
Non so se qualcuno di voi è pratico di Los Angeles, ma la strada che viene in mente a me, quando si parla di “subprime” è Slawson Avenue. La prima parte è abitata da afroamericani. La seconda da ispanici. La seconda suscita qualche apprensione a percorrerla di giorno. Non voglio pensare cosa accade lì la notte. Finii a Slawson per un errore di guida, tanti anni fa, e sono ancora grato al Signore per aver riportato indietro la mia pelle intatta.
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Le colpe di Greenspan
L'America immersa nei debiti
di Joseph E. Stiglitz
I pessimisti che da tempo prevedevano che l'economia americana stesse andando incontro a guai seri, sembrano infine riscuotere i loro giusti meriti. Francamente, però, non c'è di che stare allegri vedendo i prezzi delle azioni crollare in conseguenza di sempre più frequenti insolvenze da parte dei mutuatari. La situazione, tuttavia, era assolutamente prevedibile, come prevedibili sono le conseguenze che si ripercuoteranno sia su milioni di americani che dovranno far fronte a gravi difficoltà finanziarie, sia sull'economia globale. Tutto risale alla recessione del 2001.
Con l'avallo di Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve, il presidente George W. Bush aveva fatto approvare uno sgravio fiscale finalizzato ad avvantaggiare gli americani più ricchi, ma non a risollevare l'economia dalla recessione che aveva fatto seguito allo scoppio della bolla di Internet. Una volta commesso quell'errore, alla Fed restava ben poca scelta: se voleva rispettare il proprio mandato, consistente nel mantenere la crescita e l'occupazione, doveva necessariamente abbassare i tassi di interesse.
E così ha fatto, ma con modalità che non hanno precedenti: ha infatti portato i tassi di interesse fino all'uno per cento.
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