Print Friendly, PDF & Email

economiaepolitica

Politiche espansive e crescita debole. Siamo in una stagnazione secolare?

di Vittorio Daniele

King World News Richard Russell1. Una lunga convalescenza

Da qualche anno, le Banche centrali delle principali economie mondiali (Stati Uniti, Eurozona e Giappone) stanno attuando politiche fortemente espansive. La base monetaria, sotto forma di liquidità o di riserve detenute dalle banche commerciali, è aumentata enormemente: negli Stati Uniti, all’inizio del 2016, era quattro volte quella del 2008. La BCE ha adottato una serie di misure espansive, finanziando a basso costo il sistema bancario e attuando un programma di acquisto di attività (quantitative easing) di 80 miliardi di euro mensili per una durata prevista di due anni.

Si tratta di un’iniezione di liquidità senza precedenti, che ha fatto scendere i tassi d’interesse a breve e a lungo termine a valori prossimi allo zero (e, in alcuni casi, negativi, come in Giappone o in Europa). Ciò avrebbe dovuto stimolare gli investimenti e, dunque, i consumi e il reddito. I risultati sono, però, largamente inferiori alle attese. Nell’Eurozona, i dati sul Pil e sull’inflazione mostrano, infatti, come la ripresa sia molto debole. Anche negli Stati Uniti, dove la crescita è più elevata di quella europea, il Pil rimane al di sotto del potenziale (Fig. 1).

Figura 1. Pil potenziale e reale negli Stati Uniti, 1980-2015

15

Valori concatentati 2009. Fonte: FRED, Federal Reserve Bank of St. Louis, https://research.stlouisfed.org/

A fronte del ristagno della domanda aggregata, la liquidità immessa dalle Banche Centrali si è riversata sui mercati finanziari. Nell’Eurozona, le banche che hanno ottenuto liquidità a bassissimo costo dalla BCE hanno massicciamente acquistato titoli di Stato. I tassi sono diminuiti, con benefici effetti sulle finanze pubbliche, mentre i prezzi delle attività, inclusi quelli delle azioni e delle obbligazioni private, sono considerevolmente aumentati. La politica monetaria non ha avuto, però, gli effetti sperati sull’economia reale. Quali le ragioni?

 

2. Intrappolati in una stagnazione secolare?

Nel 2013, per spiegare l’andamento dell’economia statunitense dopo la Grande recessione, Larry Summers, ripropose la tesi della stagnazione secolare[i]. Una tesi avanzata da Alvin Hansen nel 1938, quando ancora il mondo era scosso dalla Grande Depressione[ii]. Hansen ipotizzò che con la crisi degli anni ‘30 si fosse avviata un’era nuova per le economie avanzate. Un’era di effimere riprese, durature recessioni, crescente sottoccupazione: una stagnazione secolare, appunto. Secondo Hansen, alla base della stagnazione vi erano tre cause: la fine dell’espansione geografica che aveva caratterizzato il XIX secolo; il declino del tasso di crescita della popolazione; l’utilizzo di nuove tecnologie a minore intensità di capitale rispetto a quelle impiegate nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico. Riducendo il fabbisogno d’investimenti, quelle forze avrebbero spinto l’economia verso un equilibrio di bassa crescita ed elevata disoccupazione.

I “miracoli di crescita” degli anni ‘50 e ‘60 fecero dimenticare la fosca profezia di Hansen. Nel decennio seguente, però, quando il tasso di sviluppo cominciò a declinare, il concetto di stagnazione tornò attuale. Furono i marxisti a riproporlo. Nell’economia capitalistica – scriveva Paul Sweezy – il saggio di aumento del consumo è tendenzialmente inferiore a quello dei mezzi di produzione, per cui il ristagno è la regola verso la quale tende costantemente la produzione capitalistica[iii]. Le crisi erano, dunque, i sintomi di un malessere strutturale, dovuto alla cronica insufficienza di domanda aggregata rispetto alla capacità produttiva. Nelle economie avanzate – argomentarono i marxisti – la spesa pubblica, il debito pubblico e privato e la finanziarizzazione avevano consentito di sostenere la domanda e di sfuggire alla trappola della stagnazione. Ma l’indebitamento eccessivo e la finanza scollegata dalla produzione, nello stesso tempo, creavano instabilità e ponevano le condizioni per le crisi.

Hansen aveva considerato la crisi degli anni ’30 come l’esito del progressivo affievolimento dell’impeto di crescita dell’economia statunitense. Anche la Grande recessione iniziata nel 2007 è stata considerata il culmine di un fase in cui l’indebitamento pubblico e privato, e un abnorme sviluppo finanziario, hanno sostenuto la crescita supplendo alla cronica carenza di domanda aggregata[iv]. Il declino del tasso d’interesse naturale (o whickselliano) e di quello reale (Fig. 2) sarebbe il sintomo acuto della stagnazione da domanda, dell’eccesso di risparmio rispetto agli investimenti. Nelle economie industrializzate – osserva L. Summers – coniugare crescita adeguata, utilizzazione della capacità produttiva e stabilità finanziaria è sempre più difficile. Dagli anni ’90, le fasi di ripresa economica sono state, in larga misura, alimentate da bolle e condizioni d’insostenibilità finanziaria.

Figura 2. Il declino del tasso d’interesse naturale 1961-2014

24

Fonte: T. Laubach, J. C. Williams (2003), Measuring the Natural Rate of Interest, Review of Economics and Statistics, 85, 4, 1063-1070 e aggiornamenti.

 

3. I “venti contrari” alla crescita

Alla base della stagnazione secolare vi sarebbero diverse forze che agirebbero come “venti contrari alla crescita”. La prima forza è demografica. Nei paesi industrializzati, il declino del tasso di crescita della popolazione e il progressivo invecchiamento si rifletterebbero negativamente sulla domanda per investimenti e per consumi. Nell’ultimo quinquennio, il tasso di fertilità totale in Giappone è stato pari a 1,4, negli Stati Uniti a 1,9, in Europa a circa 1,7 bambini per donna. Nel 2015, in Giappone e in Italia si contavano, rispettivamente, 44 e 35 ultrasessantacinquenni ogni 100 persone in età da lavoro. Nel 2030, si stima, In Italia si avranno dai 34 ai 45 anziani ogni 100 persone in età da lavoro, in Giappone 43. Si tratta dei valori più elevati al mondo[v].

La seconda forza riguarda la distribuzione del reddito. Dagli anni ’80, la diffusione del lavoro precario e a basso salario si è accompagnata con un aumento delle disuguaglianze. La quota dei salari sul reddito è diminuita. Tra il 1991 e il 2013 è calata di 4,8 punti percentuali negli Stati Uniti, di 5,9 in Giappone e di 6,7 punti in Italia. Diversi studi indicano come il declino della quota dei salari e le disuguaglianze distributive abbiano effetti depressivi sulla domanda aggregata[vi].

Forze contrarie alla crescita deriverebbero anche dai cambiamenti strutturali. Nelle economie avanzate, in cui l’attività economica è sempre più basata sulle nuove tecnologie (l’economia di Google, Facebook o Wall Mart) e sulla finanza, la quantità di capitale investito per unità di prodotto tende a diminuire e, con esso, la domanda per investimenti.

La stagnazione avrebbe anche cause dal lato dell’offerta. Tra queste, il rallentamento della produttività e dell’innovazione tecnologica[vii]. Ma sono le forze della domanda ad essere decisive. Anche se, in futuro, il progresso tecnico crescesse allo stesso tasso registrato finora, per effetto dei fattori demografici e della disuguaglianza, la crescita rallenterebbe ugualmente.

Tra le diverse interpretazioni della stagnazione secolare – quella mainstream e quella neomarxista – esistono aspetti comuni ma anche fondamentali differenze. In entrambe, però, l’essenza della stagnazione secolare consiste nello squilibrio tra capacità di produrre e capacità di assorbire la produzione. Se la tendenza alla stagnazione è insita nella dinamica delle economie avanzate, politiche monetarie espansive e bassi tassi d’interesse non possono contrastarla. Possono, al più, alimentare temporaneamente la domanda, ma a rischio di creare instabilità finanziaria.

*Università Magna Graecia di Catanzaro

__________________________________

Note
[i] L. H. Summers (2014), U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound, Business Economics, 49, 2, 65-73
[ii] A. Hansen (1939), Economic Progress and Declining Population Growth, The American Economic Review, 29, 1, 1-15. Sull’ipotesi della stagnazione secolare, R. E. Backhouse, M. Boianovsky (2015), Secular Stagnation: The History of a Macroeconomic Heresy, paper prepared for the Blanqui, Rome, 14 May 2015. Per una rassegna: V. Daniele (2015), Una stagnazione secolare?  Italia, Giappone, Stati Uniti, 1950-2015, WP, Università Magna Graecia di Catanzaro, https://www.researchgate.net/publication/284693684_Una_stagnazione_secolare_Italia_Giappone_Stati_Uniti_1950-2015
[iii] P. M. Sweezy (1970), La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri, Torino, p. 257. H. Magdoff, P. M. Sweezy (1987), Stagnation and the Financial Explosion, Monthly Review Press, New York.
[iv] H. Summers, U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound, Business Economics, 49, 2, 65-73.
[v] Dati United Nations, Population Division, World population prospects, the 2015 revision.
[vi] E. Hein (2012), The Macroeconomics of Finance-Dominated Capitalism – and its crisis, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, pp. 115-116.
[vii] Su questi aspetti, J. R. Gordon (2012), Is US economic growth over? Faltering innovation confronts the six headwinds, Centre for Economic Policy Research (CEPR), Policy Insight n. 63, September.

Comments

Search Reset
0
joseph halevi
Thursday, 05 May 2016 12:36
Secondo me il modo come gli organismi economici tradizionali valutano il divario tra output effettivo e potenziale e' fuorviante. Ho seguito un po' la metodologia OCSE sul tema e mi sembra fondata su una forzatura neoclassica dato che i modelli di riferimento sono funzioni di produzione ad elasticita' di sostituzione costante. Fintanto che i metodi di economia applicata non si liberano dei concetti di sostituzione e di tendenze di lungo periodo i risultati delle istituzioni che questi metodi usano non significano gran che ed e' meglio lasciarli perdere.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit