E il desiderio disse: niente!
di Ennio Abate
In margine ad un convegno su Elvio Fachinelli del 1998
Ripubblico questo mio resoconto ragionato di un convegno su Elvio Fachinelli tenutosi a Milano nel 1998 dopo aver letto su LE PAROLE E LE COSE un ricordo di lui nel trentennale della sua morte scritto da Sergio Benvenuto (qui). Ho letto varie opere di Fachinelli e ho spesso citato il suo scritto “Gruppo chiuso e gruppo aperto” (ad es. nel 2011 qui) . Non l’ho mai conosciuto di persona (l’intravvidi solo una volta, attorno al 1988, in mezzo al pubblico alla Casa della Cultura di Milano) ma ho sentito parlare spesso di lui da Giancarlo Majorino. E mi hanno sempre particolarmente colpito il suo scontro con Franco Fortini e l’autocritica postuma di quest’ultimo nei suoi confronti. (Il «diverbio» con Fachinelli Fortini lo rievoca in una nota di «Psicoanalisi e lotte sociali», pag. 229 di Non solo oggi). L’attenzione e lo scrupolo da cronista, con cui allora segui quel convegno privilegiando ancora in un’ottica da insegnante (sarei andato in pensione in quell’anno), dimostra il mio interesse per i problemi sollevati da Fachinelli ma anche la mia diffidenza per la piega impolitica/apolitica con la quale i suoi amici e colleghi psicanalisti lo ricordarono in quel convegno, esaltando – proprio come oggi fa in maniera definitiva Sergio Benvenuto – il lato amicale e liberal-libertario del suo pensiero fin quasi a far scomparire la sua permeabilità e sensibilità alle inquietudini sociali e politiche di quegli anni. Non condividevo né condivido il ripiegamento di tanti intellettuali nei “culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi ” e neppure il nuovo dogma della leggerezza antideologica oggi di moda. E trovo fiacca, puerile e sospetta l’apologia del Fachinelli “dionisiaco” di Benvenuto e il suo viscerale antimarxismo. Tanto più che lui stesso è costretto a chiedersi:
”Ma allora, come accade che, puntualmente, questa carica creativa dell’inconscio si congeli in quella che chiamò “la freccia ferma”, nei marmi rigidi delle istituzioni, della burocrazia, del gelido rigore ossessivo?“.
E deve ammettere che ” la contrapposizione tra pulsione di vita e pulsione di morte è un modo di descrivere – certo eloquentemente – il problema, non di risolverlo”. E allora? Confermo pienamente quanto scrivevo da isolato in quel lontano 1998: “Il limite astorico dell’inconscio o del desiderio dissidente è problema enorme e irrisolto per qualsiasi progetto, sia esso di spostamento o di rinnovamento o di rivoluzione. Allora [nel ’68] la contraddizione era visibile; e Fachinelli e Fortini polemizzavano fecondamente. Oggi, ridotte politica e gestione psicanalitica dell’inconscio a professioni ipocritamente rispettose del proprio specialismo, la contraddizione non si sa se c’è o non c’è più. E, così restando, indisturbate, non ci sarà possibilità reale né di politica innovativa né di desiderio costruttivo”. [E. A.]
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A trentanni dal ’68 studentesco, riproposto decennale dopo decennale in ricordini balsamici multimediali, parla ancora il giovanile desiderio dissidente di Elvio Fachinelli1? E cosa dice? E a chi? Un intenso convegno ha provato di recente a riproporci la sua figura ingiustamente dimenticata e la sua pratica. Eccone una scarna traccia degli interventi
Prima serata: un’ampia introduzione storica di Giancarlo Majorino ha delineato il progetto di un campo spostato, maturato nei primi anni ’60 dal gruppo di intellettuali milanesi a cui Fachinelli s’era legato;2 Amodio ha rievocato la rete intellettuale che fece da sfondo a quell’impresa;3 Mancia ha raccontato gustose provocazioni architettate da Fachinelli per scuotere dal torpore la Società Psicanalitica Italiana; mentre Berardi e Sanguineti hanno testimoniato sui suoi legami col movimento del ’77. Nella mattinata del giorno successivo Ferruta, Pirillo, Vallino, Vegetti Finzi e Boni hanno esplorato L’itinerario psicanalitico e l’originalità della sua «psicoanalisi aperta» contrapposta alla «psicoanalisi delle risposte».4
Al pomeriggio, per L’itinerario politico e sociale, Melandri ha insistito sull’unità della sua ricerca, sulla sua volontà di pensare assieme i «tempi della tartaruga» (della natura) e i «tempi della freccia» (della cultura) e sulla radicalità della politica del desiderio «respinta dai marxisti e dagli psicoanalisti ortodossi»; Bellocchio ha fatto alcune precisazioni sulla polemica fra Fortini e Fachinelli a proposito dell’articolo di quest’ultimo, intitolato appunto «Il desiderio dissidente»5; Muraro ha rievocato la lacerazione irreparata fra Fachinelli e il femminismo separatista, e Sartori ha riflettuto sui limiti pedagogici dell’Asilo autogestito di Porta Ticinese6. Infine, nella convulsa discussione finale su Le opere, la filosofia, la scrittura le ultime relazioni hanno toccato con accenti comuni il tema dell’estatico7: «modo di pensare» che «esclude il linguaggio», tipico di Fachinelli fin dai suoi inizi, ed «esigenza antropologica della nostra epoca» per Comolli; segno di una sua «svolta mistica», che lo avrebbe liberato dai «suoi padri: marxismo e psicoanalisi» per Benvenuto; tema di raccordo con le ricerche di Bataille per Galante; fondamento di una scrittura «abitata dal frammento» e capace di ascoltare «i silenzi che la parola politica non sa accogliere» per Prete.
Già questa rapida sintesi fa intravvedere la complessità dei problemi sollevati, la varietà delle interpretazioni e dice quanto sia difficile rispondere alla domanda fatta all’inizio. Eppure alcune considerazioni sembrano possibili:
1. Si può azzardare, semplificando, che due sono parse le ipotesi principali poste a confronto: – la prima accetta che il Fachinelli dissidente, un Sansone della contestazione, è morto con tutti i “filistei” e i “padri” dell’Ideologia (marxista o psicanalitica) operanti in quegli anni; e resta un Fachinelli “New Age” o “fach/iro”, orientaleggiante, estaticamente contemplativo magari del futurismo Internet o delle Origini maternali; – la seconda vuole ancora darne un’immagine unitaria, tentando faticosamente di tenere assieme il Fachinelli sessantottino e dissidente e quello estatico degli anni ’80.
2. L’incertezza del convegno – che ha finito per sballottare, la sua opera problematica, inquieta e prismatica ora nei felici (?) anni ’60, ora in un presente mal indagato, ora in un fuori virtuale o mistico, e giustificare la conclusione ironica per cui il desiderio dissidente, interrogato in questo sul da farsi, ha risposto per il momento laconicamente: Niente! – la dice lunga sull’assenza di una Cultura critica o sull’asfissia di quel che di essa è rimasto.
Sta di fatto che – e il convegno su Fachinelli ne è un esempio – dopo la rasatura a zero degli anni ’80 e ’90, la Cultura (con la maiuscola o la minuscola e anche quella che fu critica e saldamente in passato collegata ad esperienze quotidiane e sociali) si muove oggi e non solo a Milano, quasi ripiegata in culti amicali, cultural-editoriali e professional-corporativi e non ne esce.
3. Certo, anche in questo convegno, il taglio amicale in molti casi è stato benefico, evitando ingessamenti statuari e retorici; la pubblicazione di certi libri e di antologie è sempre meritoria; e i discorsi (psicanalitici in questo caso) esigono la precisione del linguaggio specialistico. Per carità! Ma di cultura critica se n’è vista qualche sprazzo. A dominare sono state due varianti (forse corrispondenti alle due tesi emerse sul lascito di Fachinelli) dello Stile Posmoderno: quella della leggerezza e quella a-ideologica (apolitica e/o impolitica).
Diversi relatori – se giovani – hanno volentieri danzato leggeri (a volte leggerissimi) sulla tabula rasa del passato, obliosi di storia, pensiero e linguaggio addestrati solo dall’élitarismo (tecnologico, sapienzale e spiritualistico) di moda; e – se vecchi maratoneti della Cultura, capaci ancora di passo saldo e terrestre, non dimentichi dello spessore storico e materiale dello Spirito – hanno rivestito volentieri la loro insofferenza per il degrado culturale degli anni ’90 esclusivamente con abiti impolitici o apolitici o comunque rigorosamente a-ideologici. 8
Ovvia per moltissime persone colte, la fine delle ideologie (mentre avrebbe senso parlare di crisi o rifacimento o nuovo monismo ideologico9) è per me la più infida e sottile di esse. Ed impedisce lo spostamento oggi più necessario alla Cultura: quello dai giri élitari, magari anche da quelli meno spocchiosi, da ceto medio di massa. L’anti-ideologismo, ingenuo o navigato di ammiratori e ammiratrici di Fachinelli, ex sodali o ex compagni-e, trascura la possibilità dell’uso pubblico, critico e nuovamente dissidente dell’opera di Fachinelli.
Di lui è (potrebbe tornar…) vivo e attuale proprio il dissidente. E con una precisazione: perché (non per come) affrontò in stretto rapporto e persino in attrito con i presunti filistei di allora alcuni problemi, rimasti irrisolti (di cui dirò ora dirò). Ma da dove ricominciare per ridare la parola al desiderio dissidente e per farlo parlare in lingua non nichilista e cenacolare? Da altri ambiti di comunicazione, meno massmediali, più periferici, più di massa e potenzialmente, per ovvie ragioni, più critici verso il conformismo culturale di questi ultimi decenni. Chichibìo [rivista per la scuola diretta allora da Romano Luperini] mi pare uno di questi luoghi e per varie ragioni. Anche se è appena agli inizi, dovrà pur riallacciarsi ai fili di una lunga storia, da valutare e rispolverare; e selezionare esperienze passate, più o meno affini o utili a quella messa ora in cantiere con questo giornale.
L’opera di Fachinelli è uno di questi fili spezzati. Offre spunti, rimanda a questioni di fondo, assenti dall’attuale dibattito sulla scuola. Si potrebbe ripensare, ad esempio, l’esperienza de L’erba voglio, reimmettendola nell’habitat naturale a cui pretendeva collegarsi: quello della “scuola” (termine da ridefinire!) di allora e di oggi, grigia oggi e apparentemente rosea allora. Dopotutto quella rivista raccolse il bisogno diffuso10 di «giovani insegnanti», allora anche militanti ma «attenti alle iniziative più vicine ai problemi dell’educazione e della formazione degli individui».11Si potrebbe imparare forse anche qualcosa di più umano e meno caricaturale dal dibattito-scontro culturale, politico e pedagogico fra Fachinelli e Fortini.
Nella riflessione di entrambi gli antagonisti di allora entrava, assieme al “carattere” e alle “ideologie” in conflitto, il reale e non la sua attuale versione amputata e caricaturale.12 Troveremmo perciò, in entrambi, una capacità oggi persa di nominare molto più da vicino le sofferenze individuali e collettive che la scuola continua ad infliggere sotto la sua verniciatura buonista e manageriale.
Fachinelli, quando ricordava a privilegiati fruitori privati e alla sua iperselettiva Istituzione che la Psicoanalisi «ha elaborato uno specifico campo di osservazione per alcuni aspetti essenziali dell’individuo e, in misura minore, del gruppo concreto, ma che di fronte a processi sempre più totalitari di intervento diretto sulle condizioni di formazione degli individui e dei gruppi si trova disarmata, oppure ricorre a extrapolazioni psicologistiche ingenue quanto fuorvianti»,13 offriva strumenti critici che ancor oggi potrebbero servire a studenti ed insegnanti per opporsi agli “psicologhi” dalla risposta fin troppo pronta, che purtroppo osannati o temuti o invocati a gran voce saranno sguinzagliati nelle scuole per addomesticare il “disagio giovanile” o consolare nevrosi e depressioni del tartassato corpo docente.
Se poi si ricordasse anche che Fortini era insegnante (e lo è rimasto fino alla fine), si guarderebbero sotto altra luce le sue preoccupazioni di educatore: come tentativi di elaborare un governo, individuale e collettivo e non distruttivo,del desiderio dissidente, per non ridurre il Mondo a Niente o a specchio del solo Desiderio. Altro che ringhioso sacrestano della Morale Repressiva, da incasellare nella spregiata categoria dei «custodi del terreno dei bisogni». Insomma, non è impossibile ripulire i contributi di un’intelligenza aperta come quella di Elvio Fachinelli, sottrarla a certi culti di fine secolo e riportare quel poco che ci resta di Cultura Critica dei suoi anni nel bagno salutare dei saperi quotidiani, ivi compresi quelli carsicamente serpeggianti nella povera scuola italiana.