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la classe operaia

Il vento del Nordafrica e i sospiri dell'Italia

Dino Erba

[Nel quadro della discussione a sinistra sulla Libia riportiamo questo intervento di Dino Erba, a cui risponde nel post successivo Dante Lepore]

Le insorgenze del Nordafrica, oltre a sconvolgere decennali equilibri geo-politici, hanno turbato il tranquillo tran tran dei sinistri italiani, il cui orizzonte, malgrado le sferzate della crisi, difficilmente si spinge oltre alle beghe con Berlusconi e con Marchionne, a parte qualche sporadico colpo di testa. Ma non tutto il male viene per nuocere. Il vento del Nordafrica ha fatto un po’ di chiarezza nella palude della sinistra italiana, portando allo scoperto le mal celate nostalgie nazionalsocialiste. Sono le nostalgie di ambienti, in cui la crisi aveva già provocato un’alzata di scudi a favore del capitalismo di Stato, riesumando un estemporaneo keynesismo. Di fronte all’insorgenza libica, questi ambienti si sono messi a infangare i ribelli, poiché hanno visto in pericolo una delle ultime vestigia del loro modello di Stato sociale che, dopo il crollo del «socialismo reale», si riduce alla Cuba di Fidel, al Venezuela di Chavez, alla Bolivia di Morales, ma anche all’Iran integralista di Ahmadinejad, alla Cina dei 332 miliardari «socialisti» e alla grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista del colonnello Gheddafi. Stendiamo un velo pietoso sulla Corea del Nord, del caro leader. I nostalgici del capitalismo di Stato non solo barano sapendo di barare, dal momento che puntano le loro false carte su Paesi in cui il welfare – quando c’è – è una brutta copia di quello europeo; ma soprattutto vogliono nascondere il brutale sfruttamento operaio, che in tali Paesi vige, a tutto vantaggio di un ceto parassitario statal-burocratico. E a questo ceto parassitario, anch’essi appartengono, e aspirano a posizioni di privilegio elargite dallo Stato, oggi erose dalla crisi, che della piccola borghesia non sa che farsene. Tolto dai piedi questo ciarpame, parliamo di cose più serie. Vediamo cosa avviene tra chi la prospettiva rivoluzionaria la sostiene, senza cedimenti nazionalisti e statalisti. Forse per colpa dell’aria mefitica che per tutti questi anni abbiamo respirato in Italia, prevale un atteggiamento a dir poco fiacco.

Di fronte agli avvenimenti nordafricani e all’intervento in Libia, molti rivoluzionari italiani si sono sbizzarriti in analisi socio-economiche, in alcuni casi anche azzeccate, ma il più delle volte al rimorchio di quanto passa il convento, rimasticando luoghi comuni o ripescando da remote esperienze, e cadendo spesso nella più scontata politologia. Alla scoperta del lato cattivo In queste analisi generalmente prevale l’azione delle classi dominanti, a scapito dei movimenti degli sfruttati e degli oppressi, che appaiono in una posizione sostanzialmente subordinata. Nella realtà, il rapporto è inverso: oggi sono gli sfruttati e gli oppressi che stanno passando all’attacco, almeno nel Nordafrica e in Medio Oriente, costringendo Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Italia & Co. ad avventati interventi militari. Di conseguenza, dove appare la forza, in realtà c’è la debolezza. E non capire questo, vuol dire ragionare col cervello del padrone e, soprattutto, vuol dire pregiudicare sul nascere lo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria in Italia. Così facendo, chi si dice rivoluzionario finisce per approdare a comportamenti decisamente contro natura, o per lo meno schizofrenici. Anche se, sul piano della teoria, crede di avere le carte in regola. Nella sua percezione della realtà effettua una sorta di distorsione prospettica, per cui le sorti degli sfruttati vengono a dipendere dal capitale, quando è l’esatto contrario. In questo procedimento, viene quindi a mancare il «lato cattivo della storia», ovvero la forza motrice del mutamento, costituita da quei soggetti sociali che, impedendo la riproduzione della società nella sua forma attuale, rendono possibile il passaggio a una forma sociale diversa. Dopo anni di pax capitalista in Occidente, tale passaggio può forse destare timore. Ma è inevitabile. E il vento sta cambiando, anche in Europa. I soggetti sociali del mutamento, oggi, sono i proletari del Nordafrica e del Medio Oriente. Per capirlo, basta porre attenzione alla patologia del modo di produzione capitalistico, alla crisi, cui dobbiamo ricondurre ogni altro evento. La crisi è scoppiata nel 2008 e non accenna a finire, anzi, si sta aggravando, con conseguenze catastrofiche, dall’Afghanistan al Giappone di Fukujima. Con gli USA sull’orlo del shutdown, parlare di imperialismo è come raccontar barzellette a un funerale.

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