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India, vince la politica. Di sinistra (ma in Italia non si dice)

Alessandro Cisilin

Frizzi, lazzi e paparazzi. Storie dinastiche, a cominciare dai Nehru-Gandhi. La saga di Sonia, volo di sola andata dal Piemonte a Delhi. L'avanzata politica e mediatica del figlio Rahul, specialista di gaffes ma carisma da donnaiolo. E poi la sua mite sorella Pryanka, l'inflessibile nonna Indira, per non parlare del bisnonno Jawaharlal, padre dell'Indipendenza. La stampa italiana racconta le elezioni indiane come fossero italiane. I contenuti seppelliti da elucubrazioni su immagini da telenovela.

Un approccio comprensibile nel paese del monopolio delle tv. Ma, parola di antropologo, a dispetto delle etichette esotiche di matrice coloniale in India non si vota sui simboli. Si sceglie su altre categorie, dichiarate fuori moda dai nostri tuttologi. Si chiamano destra e sinistra.

Per farla breve, i fondamentalisti indù del “Partito del Popolo Indiano” (il Bjp, Bharatiya Janata Party) hanno completamente fallito nella campagna antimusulmana e anticristiana della paura, mentre il centrosinistra guidato dal Congresso ha allargato i consensi grazie a una sia pur timida politica in favore dei poveri.

Bastavano tre righe, dunque. Ma quelle tre righe non sono state scritte da alcun giornale mainstream. Solo qualche cenno alla sconfitta della destra, senza peraltro sottolinearne il significato dirompente: quello del no alla “strategia della tensione” di marca induista, costruita in almeno vent’anni di campagne d’odio e fisiche aggressioni nei confronti delle persone e dei simboli delle altre comunità religiose.

La strategia è stata rilanciata in campagna elettorale col supporto degli attentati dello scorso 26 novembre a Mumbai, definiti a giusto titolo l’«11 settembre indiano». Un evento scioccante per il popolo che si rivendica campione della tolleranza e del pacifismo. E, cosa non nuova nella storia mondiale stragista, a cominciare dall’italiana, un attacco carico di incongruenze e ombre altamente plausibili circa il ruolo dei servizi segreti e degli stessi fondamentalisti indù, nonostante le immediate, reiterate e mai dimostrate accuse rivolte a musulmani e Pakistan.

Ebbene, al rinnovato “allarme terrorismo”, con tanto di accuse al governo di centrosinistra di mollezza nei confronti degli islamici, gli indiani hanno detto no. Un no secco, date le dichiarate speranze di sorpasso da parte del Bjp e le previsioni dei sondaggisti circa un serrato testa a testa. Niente sorpasso e niente testa a testa, invece, ma un crollo verticale altrettanto sorprendente della precedente sconfitta del 2004, che aveva riportato il Congresso al governo. Ed è un no che dovrebbe suonare clamoroso in Occidente, protagonista all’opposto della violenta risposta, tuttora in corso in Afghanistan, nelle renditions e nelle carceri dell’orrore, all’11 settembre di New York.

Ma se qualche timido riferimento al flop dell’allarmismo di destra è emerso tra i racconti postelettorali delle epopee dinastiche, praticamente nulla è stato scritto sul ruolo di alcune misure economiche nel successo del partito del Congresso. Nel silenzio generale è spuntato a sorpresa un titolo del «Messaggero»: “Premiate le politiche economiche”, ma alla sorpresa se ne aggiunge un’altra: di quelle politiche il pezzo poi non dice alcunché. Ci si aspetterebbe un po’ di economia dal «Sole 24 Ore», ma l’approfondimento è affidato a un romanziere indiano del ceto medio urbano, che non si china a spiegare il risultato ma guarda oltre, indicando le “quattro emergenze” da affrontare per l’avvenire. Non c’è la povertà (che coinvolge tuttora quasi metà della popolazione indiana, coi corollari del record mondiale nelle percentuali di denutrizione infantile e del boom di suicidi tra i contadini), ma, di nuovo, nell’ordine, “il terrorismo” (“che in India fa parte della vita quotidiana”), il “deficit di bilancio”, l’“acqua”, “i guerriglieri maoisti” (questi ultimi conseguenza dilagante e drammatica della povertà stessa, ma anche questo non si dice).

Su «Repubblica» scrive Rampini, che invece di povertà apparentemente se ne intende, avendo scritto volumi su quanto essa sia stata ridotta dall’avvento delle liberalizzazioni degli anni novanta. Una sciocchezza, ma comprensibile, visto che li ha scritti da Pechino e (senza ironia) hanno comunque il merito storico di aver fatto conoscere a parecchi italiani un’area tenuta loro del tutto oscura sia dal mondo accademico che giornalistico: fenomeno incomprensibile, data non solo l’attrazione esotico-turistica e il sesto della popolazione mondiale che ne fa la più grande democrazia del mondo, ma anche il fatto che l’India, fin dagli anni cinquanta, è stata spesso ritenuta al centro delle sperimentazioni politiche ed economiche globali e, ai nostri tempi, è elevata a nostro cruciale partner commerciale e industriale. Senza contare che Clinton la definì “l’area più pericolosa del pianeta” e, considerando quel che sta succedendo tra Afganistan, Pakistan, Shri Lanka e Mumbai, qualche ragione ce l’aveva.

Ebbene, Rampini ha riconosciuto il recente abbozzo a un “new deal rooseveltiano per i disoccupati poveri”, senza però rinunciare a bacchettare il governo sul “vizio dell’assistenzialismo” e a sottolineare il successo di una non meglio specificata “politica economica prudente”, nonché il risultato, viceversa deludente, della cosiddetta “regina degli Intoccabili” Mayawati, attribuito ai “valori della laicità indiana”, come se lei volesse invece lo scontro tra “caste”. Aspirazione del tutto negata dall’interessata (anche sulla stampa cinese, tra l’altro), come hanno riconosciuto le centinaia di migliaia di “brahmani” d’alto lignaggio che l’hanno votata.

Sulla stessa linea, seppur da ben altre posizioni politiche, la stampa della sinistra radicale. Che, non solo non si è accorta del successo delle politiche di sinistra, ma addirittura, nel «manifesto», ha illustrato il voto come un flop della sinistra stessa. Il dato sarebbe corretto se si confinasse l’analisi alla lettura dei seggi ottenuti dai comunisti, effettivamente in calo. Del tutto miope se però si cerca una visione di insieme e un minimo di approfondimento. La sinistra radicale è andata male dove ha di recente fatto il contrario di quel che prometteva, com’è accaduto con gli espropri agrari a fini industriali nel West Bengal di Calcutta. Specularmente, il Congresso è andato benissimo negli Stati (quali l’Andhra Pradesh, il Tamil Nadu e il Rajasthan) in cui, nonostante le resistenze dei liberisti, incluso il premier Singh, qualcosa di sinistra ha effettivamente realizzato, in particolare con la “legge dei cento giorni”, che assegna ai poveri delle aree rurali il diritto a lavorare per, appunto, almeno cento giorni. Non sembra granché, ma quel salario irrisorio è stato un effettivo sollievo per centinaia di migliaia di famiglie “dimenticate”, o meglio “sacrificate” dal boom economico, tuttora in atto.

Non è stata dunque la “prudenza” a vincere. Il Congresso ha trionfato perché in alcune regioni qualcosa ha fatto, in controtendenza alle politiche liberiste, bocciate per la seconda elezione consecutiva.

Detto questo, non è naturalmente un delitto colorare il racconto elettorale di aneddoti familiari, o anche di storie di “politici sporchi” di omicidi e corruzione, come spiega il «Corriere», sebbene sarebbe corretto aggiungere che, a differenza degli omologhi italiani, finiscono spesso dietro alle sbarre e, inciso non secondario, non hanno le mani in pasta nel mondo dell’informazione e della comunicazione di massa. Né è sbagliato riferire il ruolo dei “reali-repubblicani” incarnati da Sonia e dall’erede Rahul, probabile premier entro un paio d’anni, sebbene la storia delle vittorie e delle sconfitte elettorali dei Nehru-Gandhi dimostri come la dinastia non sia cruciale tanto ad attrarre voti quanto a tener uniti un partito e una coalizione estremamente variegati.

Il “colore” serve, al giornalismo e quindi al lettore. Ma serve a illustrare meglio la realtà, non a coprirla. E la realtà è che il più grande elettorato del mondo ha detto basta a iperliberismi (nonostante l’escalation dei grandi ricchi) e antiterrorismi (nonostante il sangue degli attentati). La notizia, forse, meritava di essere raccontata anche agli italiani.

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