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Il nostro “no” socialista all’Unione europea

di Thomas Fazi

folla di concerto 6996410Sarebbe un errore considerare il processo di processo di integrazione economica europea un fallimento. Dal punto di vista degli obiettivi delle classi dominanti – indebolimento delle classi lavoratrici ed esautoramento della democrazia – si è rivelato uno straordinario successo. L’Unione europea e in particolare l’architettura di Maastricht, infatti, possono essere considerate la risposta delle oligarchie europee alla crisi della democrazia – intesa come “eccesso di democrazia” – denunciata dal celebre rapporto del 1973 della Trilateral Commission. I vari “vincoli esterni” europei – dal cambio semifisso del Sistema monetario europeo (SME) alla liberalizzazione dei movimenti di capitali per mezzo della creazione del mercato unico fino all’introduzione della moneta unica – hanno permesso alle varie élitenazionali (in particolare quella italiana) di perseguire obiettivi di politica economica – finalizzati all’esautoramento delle conquiste democratiche ed economico-sociali che erano state precedentemente raggiunte dalle classi subordinate – che altrimenti sarebbero stati molto più difficili, se non impossibili, da realizzare. Come ammise lo stesso Guido Carli, l’Unione europea è stata lo strumento per «sconvolgere la Costituzione materiale del paese», obiettivo che sarebbe stato impossibile da ottenere «per le vie ordinarie del governo e del Parlamento»[1].

In questo senso, risulta estremamente superficiale la lettura che vede l’Europa come un Moloch che impone il proprio volere agli Stati nazionali: al contrario, il più delle volte (sebbene non sempre) “l’Europa” è precisamente il dispositivo attraverso il quale una parte della comunità nazionale – l’élite – impone le proprie politiche al resto della comunità nazionale. È il celebre “ce lo chiede l’Europa”. In questo senso, la moneta unica incarna quello che Edgar Grande chiama il «paradosso della debolezza», per cui le élite nazionali trasferiscono una parte del potere a un decisore sovranazionale (apparendo in tal modo più deboli) per essere in grado di sopportare meglio la pressione da parte degli attori sociali, asserendo che «lo vuole l’Europa» (e divenendo così più forti)[2]. Come dice Andrew Moravcsik: «Gli impegni vincolanti della UE permettono ai governi di varare riforme impopolari nei loro paesi, e nel contempo darne la colpa alla UE, anche se essi stessi desideravano attuarle[3].

L’indebolimento della sovranità nazionale (intesa come sovranità democratica e dunque popolare) promosso dall’integrazione europea, però, come nota Moravcsik, non andrebbe equiparato sic et simpliciter a un indebolimento degli Stati nazionali: il processo di desovranizzazione, infatti, non comporta necessariamente un indebolimento del potere statale in quanto tale, semmai un indebolimento della capacità dei cittadini di influenzare gli apparati e l’indirizzo dello Stato (de-democratizzazione), soprattutto in materia di politiche economiche (attraverso una autolimitazione da parte dei governi della capacità di intervento dello Stato in economia: depoliticizzazione). In questo senso, nel superamento del Parlamento a favore di organismi sovranazionali e dei meccanismi “oggettivi” dell’euro, osserva Domenico Moro, «a essere rafforzati sono gli esecutivi nazionali, che, infatti, sono le uniche istituzioni statali ad avere un ruolo diretto negli organismi sovrastatali europei, affermando così il principio di “governabilità’” cioè la libertà dell’esecutivo di agire senza essere vincolato dagli altri poteri dello Stato, tanto auspicato dal capitale dagli anni Settanta a oggi». Dunque «non assistiamo all’indebolimento dello Stato nazionale. Viceversa, assistiamo al rafforzamento del carattere di classe borghese dello Stato»[4]. Rafforzamento dello “Stato” (in senso lato) che si manifesta anche e soprattutto a livello sovranazionale, cioè di para-Stato europeo, che oggi esercita un potere (antidemocratico) quasi assoluto. Quanto detto, infatti, non significa che non possano determinarsi conflitti tra singoli Stati e istituzioni europee, qualora salga al potere un governo intenzionato a perseguire una politica economica alternativa allo status quo o, più semplicemente, perché le tensioni economiche e sociali provocate dall’architettura economica europea si rivelano impossibili da risolvere all’interno della cornice delle regole europee stesse: il caso dell’attuale esecutivo italiano (oltre che, ovviamente, della prima fase di SYRIZA) ne è la dimostrazione.

A questo proposito, va detto che l’Unione europea si presenta come una forma-Stato del tutto inedita nella storia delle istituzioni politiche: un sistema complesso, a geometria variabile, multilivello, che presenta tratti sovranazionali (Commissione europea, BCE, Corte europea di giustizia), quasi-federali (Parlamento europeo, privo però di poteri effettivi) e interstatali o intergovernativi (Consiglio europeo), quest’ultimo livello subordinato ovviamente a una precisa gerarchia che vede la Germania in una posizione di dominio. Siamo dunque in presenza di «una super-struttura parastatale, contenente il “con”, il “fra” e l’“oltre” gli Stati. Una struttura che tiene insieme residuali pezzi di classica forma-Stato (“con”), facendoli interagire (“fra”), ma che, allo stesso tempo, è capace di creare un nuovo ordine integrato al mercato (“oltre”). Una struttura di governance multilivello che si gioca in modo osmotico su più dimensioni: locale, nazionale e sovranazionale»[5]. Si tratta di un sistema compiutamente postdemocratico, teso a destrutturare a tutti i livelli la capacità delle masse di incidere sulle decisioni politiche, in cui al governo democratico si sostituisce la governance, che potremmo descrivere come una forma di “governo senza popolo”.

Questo nuova forma-Stato trova esecuzione in un preciso ordinamento giuridico, anch’esso inedito nella storia del diritto, incarnato nel “sistema dei trattati”. La portata dei trattati europei – in particolare il Trattato di Maastricht, la sua versione aggiornata ossia il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e il Trattato di Lisbona – va ben oltre la politica fiscale e monetaria. Su di essi, infatti, si fonda tutta la struttura giuridica della politica economica dell’Unione europea (che è rimasta sostanzialmente immutata negli anni). I princìpi guida dell’UE sono distintamente indicati nel capitolo sulla politica economica del Trattato di Maastricht, in cui si afferma che l’UE e i suoi Stati membri devono condurre una politica economica «conforme al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» e ispirata ai seguenti princìpi: «prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile». Altri articoli rilevanti della sua versione aggiornata, il TFUE, includono:

– l’art. 81, che proibisce ogni intervento dei governi in materia economica «che possa pregiudicare il commercio tra Stati membri»;

– l’art. 121, che conferisce al Consiglio europeo e alla Commissione europea il diritto di formulare «gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell’Unione»;

– l’art. 126, che regola le misure disciplinari da adottare in caso di deficit eccessivo;

– l’art. 151, che stabilisce che la politica sociale e riguardante il lavoro dell’UE terrà conto della necessità di «mantenere la competitività dell’economia dell’Unione»;

– l’art. 107, che vieta gli aiuti di Stato alle industrie nazionali strategiche.

Di fatto, i trattati hanno incorporato il neoliberismo nel tessuto stesso dell’Unione europea, mettendo al bando le politiche “keynesiane” che avevano rappresentato la norma nei decenni precedenti: essi impediscono l’acquisto diretto da parte della banca centrale del debito pubblico (per quei paesi che hanno adottato l’euro), le politiche di gestione della domanda e l’uso strategico degli appalti pubblici, e impongono severe restrizioni alla previdenza sociale e alla creazione di occupazione attraverso la spesa pubblica.

A completare il processo di esautoramento delle sovranità nazionali ci ha pensato poi la crisi finanziaria del 2007-09 ovvero la risposta messa in campo dai governi e dalle istituzioni europee. Come è noto, infatti, la camicia di forza di Maastricht è stata ulteriormente rafforzata in seguito alla crisi, soprattutto per quel che riguarda le politiche di bilancio, attraverso l’adozione di un complesso sistema di nuove leggi, regole e accordi introdotti negli ultimi anni, tra cui il Patto Euro Plus, i pacchetti di regolamenti six-pack e two-pack, il Meccanismo europeo di stabilità (MES), il “semestre europeo”, la Procedura per gli squilibri macroeconomici (Macroeconomic Imbalances Procedure o MIP) e ovviamente il Patto di bilancio europeo, comunemente noto come fiscal compact. Questi hanno introdotto nell’ordinamento europeo una serie di innovazioni, tra cui l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso il pareggio di bilancio; l’obbligo per i paesi il cui debito supera il 60 per cento del PIL di adottare misure per ridurlo a un ritmo soddisfacente; un semiautomatismo delle procedure per l’irrogazione delle sanzioni per i paesi che violano le regole di bilancio; e il rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio (che di fatto impone agli Stati membri l’obbligo di farsi approvare le leggi finanziarie dalla Commissione europea).

In breve, il risultato di questo attivismo giuridico emergenziale è stato di estendere, rafforzare e radicalizzare la normativa esistente e istituzionalizzare su base permanente il “regime di austerità” che è stato imposto in Europa in seguito alla crisi, prevedendo l’integrazione delle suddette norme negli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Nel caso dell’Italia, questo è evidenziato dall’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, dalla creazione dell’Ufficio parlamentare di bilancio e dai vari meccanismi di correzione automatici previsti dalla legge. Per effetto di ciò, possiamo affermare che i governi nazionali sono stati privati anche di quel minimo di sovranità formale previsto dai trattati. Un osservatore attento come Luciano Gallino, per esempio, pur riconoscendo che i caratteri peggiorativi che la crisi globale ha assunto in Europa sono imputabili in gran parte ai «difetti strutturali» contenuti nei trattati europei, notava che nel periodo post-crisi il processo di esautoramento delle sovranità nazionali ha registrato un salto di qualità, sia in termini quantitativi che qualitativi: «Sin dal 2010 la Commissione europea e il Consiglio europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni UE, che per la sua ampiezza e grado di dettaglio rappresenta un’espropriazione inaudita – non prevista nemmeno dai trattati UE – della sovranità degli Stati stessi»:

<<La cessione di una grossa quota di sovranità economica e monetaria era del resto implicita nella introduzione dell’euro, a cominciare dalla cessione da parte degli Stati membri alla BCE di quel fondamentale potere dello Stato che è il potere di creare denaro da parte della banca centrale nazionale. Ciò che non era prevedibile era che la cessione venisse a riguardare via via anche il controllo della spesa per la protezione sociale (pensioni, sanità), la scuola, l’università, la quota salari sul PIL, i beni culturali, la proprietà pubblica e privata dell’apparato industriale, la spesa per la pubblica amministrazione e la sua organizzazione, i contratti di lavoro e molto altro ancora.[6]>>

Mai prima dello scoppio della crisi finanziaria, infatti, si erano visti documenti – come il Patto Euro Plus – «che intendesse[ro] regolare in modo uniforme quanto dettagliato, a livello di tutta l’Unione, settori che attengono a politiche economiche di eccezionale rilevanza per la vita sociale, e sono inevitabilmente connesse a situazioni nazionali affatto differenti»[7]. Così come mai si era vista la BCE, nei suoi documenti ufficiali – in violazione persino dei dispositivi scarsamente democratici dei trattati istitutivi, che non attribuiscono alla banca centrale alcuna competenza sulle politiche economiche e fiscali degli Stati membri – parlare di «processi di comando permanente»; «regole rigorose e vincolanti di disciplina politico-fiscale»; «credibilità ottenuta tramite sanzioni»; «sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici», nonché di «robusti meccanismi di correzione» (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero scattare in modo automatico. Il risultato, scrive Gallino, è che il processo democratico, già pesantemente compromesso dal processo di integrazione economica europea e in particolare dall’unificazione monetaria, «è stato svuotato di senso in tutta l’Europa»[8].

Non a caso il sociologo parla delle misure adottate dai governi e dalle istituzioni europee in seguito alla crisi come di un vero e proprio «colpo di Stato, concretatosi nell’espropriazione subitanea e categorica dei cittadini e dei parlamenti»[9]. Con questa espressione Gallino intende un processo in cui «una parte che non ne avrebbe diritto» – perché non legittimata democraticamente – «si arroga poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato». Nota sempre Gallino che il termine si attaglia perfettamente a ciò che intendono i politologi per colpo di Stato poiché tali poteri sono stati ceduti alle istituzioni sovranazionali dell’UE dai governi stessi: «La presa del potere nel colpo di Stato è per definizione l’atto di persone che al momento della sua esecuzione sono titolari di funzioni in seno all’apparato dello Stato».

In tal senso, le misure di austerità adottate dai governi europei negli ultimi anni e il contestuale smantellamento dello Stato sociale in diversi paesi europei, lungi dall’essere il risultato di una forma di “impazzimento collettivo”, andrebbero visti come parti integranti di questa involuzione autoritaria dei trattati, finalizzata al pieno recupero di un dominio di classe per mezzo della definitiva reingegnerizzazione neoliberista delle economie e delle società europee.

È interessante notare come il regime giuridico europeo incarnato nel sistema dei trattati (e successivi aggiornamenti degli stessi) – il quale, come detto, subordina qualunque politica economica a livello nazionale e/o europeo a una serie di ideologemi neoliberali che hanno ormai raggiunto un livello di pervasività tale da svuotare di senso lo stesso processo democratico – presenti numerosi elementi di affinità con il concetto di “costituzione economica” sviluppato da intellettuali ordoliberali quali Hayek e altri negli anni Trenta e poi applicato nella Germania del dopoguerra: con esso si intende un quadro normativo e giuridico che “costituzionalizza” le logiche di mercato – tutela dei diritti di proprietà, promozione della concorrenza, primato della stabilità dei prezzi, ecc. – e le rende così impermeabili al processo democratico e al potere politico più in generale, costringendo lo Stato stesso ad operare secondo una logica “conforme al mercato” (marktkonforme). Non a caso Angela Merkel parla ancora oggi di «marktkonforme demokratie», democrazia conforme ai mercati.

Non meno importanti, però, risultano essere le implicazioni prettamente giuridiche dei trattati. Questi infatti non rappresentano semplici accordi internazionali tra Stati ma atti giuridici ibridi che hanno valore costituzionale. Si tratta tuttavia di un ordine costituzionale molto particolare, dovuto alla sua natura sovranazionale (e quindi intrinsecamente non democratica). Infatti, a differenza delle costituzioni nazionali, tale ordine non può essere modificato democraticamente dai cittadini: può soltanto essere emendato all’unanimità nel contesto di un nuovo accordo internazionale – che, de facto, significa che non è modificabile. L’unica cosa che i singoli Stati possono fare è accettare o ripudiare l’intera struttura. Come affermò il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, all’inizio del mandato di SYRIZA, «non può esserci alcuna scelta democratica contro i trattati europei».

Il punto centrale è che «i trattati europei, pur non essendo ascrivibili al modello costituzionale “classico”, producono, tuttavia, un diritto vincolante per gli Stati membri, dotato di un primato sul loro diritto interno […] in grado d’inglobare le costituzioni nazionali e al tempo stesso, se necessario, di modificarle»[10]. Il fatto che i trattati europei incarnino una precisa ideologia economica di stampo neoliberista, qualificabile come una vera e propria “costituzione economica”, ha dunque determinato «un complesso e sofisticato processo di reingegnerizzazione oligarchica del potere» declinato a livello giuridico attraverso il trasferimento (la “costituzionalizzazione”) dei princìpi cardini del liberismo nelle singole costituzioni nazionali, progressivamente svuotando di senso queste ultime.

Questa destatalizzazione de factodel diritto internazionale ha implicazioni enormi da un punto di vista giuridico. Le moderne costituzioni repubblicane, infatti, si differenziano dalle precedenti monarchie assolute proprio per il fatto di non essere l’atto di volontà di un sovrano legittimato dall’esterno – dalla tradizione, dal diritto divino, dalla forza bruta del Leviatano – ma di essere legittimate dall’interno da un popolo come soggetto autonomo che legifera su se stesso. Da qui l’evoluzione moderna del concetto di sovranità, innervato nella nostra Costituzione, inteso non più (semplicemente) come sovranità statuale e nazionale, bensì come sovranità popolare. In tal senso, il processo di sovranazionalizzazione del diritto implicito nei trattati europei, dacché presume un trasferimento del potere costituente a istituzioni prive di reale legittimità democratica o popolare, rappresenta per certi versi un ritorno all’era pre-repubblicana dei Leviatani che amministravano il diritto in maniera autoritaria in virtù di una propria autolegittimazione. Nel caso della costituzione economica europea, dunque, si può a ragione parlare di una “costituzione senza popolo” – in quanto tale intrinsecamente postdemocratica – oltre che di una “costituzione senza Stato”. Non a caso Alec Stone Sweet, un noto giurista internazionale, ha definito questo processo un «colpo di Stato giuridico»[11].

Sul rapporto tra Costituzione europea e Costituzione italiana, e sulla incompatibilità di fondo tra le due, molto è stato scritto. È facile constatare come i trattati europei presuppongano un’idea di società ben diversa da quella che avevano i nostri padri costituenti. Tanto per fare qualche esempio, la Costituzione «tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» e «aiuta la piccola e media proprietà» (artt. 35 e 44), mentre l’Unione europea impone la deflazione salariale e la deregolamentazione dei mercati del lavoro, e promuove le liberalizzazioni a vantaggio del grande capitale; la Costituzione «favorisce l’accesso del risparmio popolare […] al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese» (art. 47), mentre l’Unione europea impedisce all’Italia ogni vincolo di destinazione del risparmio degli italiani, sancendo l’assoluta libertà di circolazione dei capitali; la Costituzione «disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito» (art. 47), mentre l’Unione europea, per mezzo di una serie di direttive comunitarie, ha privato gli Stati della possibilità di fissare le regole cui subordinare l’attività creditizia entro i propri confini; la Costituzione ammette, in presenza di determinate condizioni, monopoli pubblici o collettivi, sia originari, sia derivanti da espropriazioni con indennizzo (art. 43), mentre l’Unione europea proibisce i monopoli e promuove la concorrenza in ogni campo dell’attività economica; la Costituzione prevede che la «legge determin[i] i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (art. 41), mentre l’Unione europea priva gli Stati di qualunque strumento politico-economico (monetario, fiscale, industriale, ecc.) atto a raggiungere quello scopo, affidando il sistema economico alla pura concorrenza tra privati e ai gestori dei grandi capitali internazionali. Potremmo dilungarci per intere pagine con questo impietoso confronto ma sarebbe superfluo, essendo la distanza tra la nostra Costituzione e i trattati europei fin troppo lampante. Fu sempre Guido Carli a riconoscere che l’Unione europea presupponeva, oltre che «un mutamento profondo nella costituzione “materiale” del paese», anche lo stravolgimento della stessa Costituzione formale: «La vastità dell’innovazione giuridica contenuta nel trattato di Maastricht comporta un cambiamento di natura costituzionale».

In tal senso, nella misura in cui, secondo i padri costituenti, una democrazia può considerarsi tale solo se pienamente realizzata, “sociale” appunto, risulta evidente «come l’imporsi di queste regole di condizionamento dall’alto, cioè oligarchiche, non solo porti alla violazione sistematica della Costituzione, ma allo svuotamento di senso dello stesso processo elettorale»[12]. A tal proposito, abbiamo visto come negli ultimi anni il costituzionalismo autoritario dell’Unione europea abbia assunto contorni ancora più antidemocratici, contrari persino alla democrazia formale, portando alcuni osservatori a suggerire che l’UE «potrebbe facilmente diventare un prototipo [di governance] postdemocratica e persino una struttura di governo predittatoriale contro la sovranità nazionale e le democrazie»[13].

Negli ultimi anni abbiamo avuto varie dimostrazioni del volto feroce e antidemocratico della governance europea: nell’estate del 2015, quando la BCE ha costretto le banche greche a chiudere allo scopo di innescare una crisi finanziaria nel paese e costringere il governo di Tsipras ad accettare le durissime misure del terzo memorandum; ma, prima ancora, nel 2011 nel nostro paese, quando Silvio Berlusconi fu di fatto costretto a dimettersi dalla BCE, che – come riconosciuto di recente persino dal “Financial Times” – fece intendere al governo italiano che le dimissioni del premier (e la sua sostituzione con un leader più sensibile alle direttive di Bruxelles e Francoforte) erano la condizione necessaria perché la banca centrale continuasse a sostenere le obbligazioni pubbliche e le banche italiane, spianando così la strada all’ascesa del governo “tecnico” di Mario Monti. Si pensi anche ai veti prettamente politici posti dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della formazione del nuovo governo italiano, nel 2018, il che fa supporre che esista una «convenzione costituzionale secondo cui i partiti politici […] che sono critici nei confronti degli attuali accordi economici e monetari all’interno dell’eurozona non possono entrare nel governo» se non a patto di accettare pesanti limitazioni ai propri margini di autonomia, soprattutto sulle decisioni di carattere macroeconomico[14]. Questi episodi ci dimostrano quanto sia fallace l’idea secondo cui l’architettura europea si fondi su una separazione tra politica e mercato, o addirittura su una supremazia del secondo sulla prima, è del tutto fallace: al contrario, il para-Stato europeo risulta estremamente interventista, con la differenza rispetto al regime keynesiano che non interviene per mediare tra gli interessi del capitale e quelli del lavoro ma unicamente per consegnare le leve di comando della politica economica nelle mani del capitale e soprattutto degli interessi finanziari.

Ciò che sorprende è che, ad onta degli effetti devastanti dell’integrazione europea, continui ad essere prevalente a sinistra l’idea che non vi sia alcuna alternativa che continuare ad assumere fino in fondo l’orizzonte politico dell’Europa, rigettando aprioristicamente qualunque ipotesi di fuoriuscita dall’attuale architettura monetaria europea a favore di una riconquista della sovranità democratica, «[f]ino ad arrivare al fenomeno ancora largamente impensato dal punto di vista delle dinamiche culturali e della costruzione del senso comune della tabuizzazione dell’euro, ovvero al paradosso per cui un dispositivo di dominio [neoliberale], volto alla deflazione salariale, sia diventato un oggetto di fede per la sinistra europea»[15]. Insomma, una cosa è aver creduto in una promessa – quella dell’“Europa sociale”, dell’“Europa dei popoli”, ecc. – rivelatasi poi drammaticamente falsa. Ben altra cosa è negare l’evidenza. A dispetto di quest’ultima, invece, continua a prevalere l’idea di una possibile riformabilità (in senso progressivo) e democratizzabilità dell’Unione europea e dell’unione monetaria. A prescindere da quanto detto finora, prendiamoci un attimo per analizzare la fattibilità di tali proposte.

È chiaro che da un punto di vista strettamente tecnico sono molte le misure che potrebbero essere intraprese a livello europeo per stimolare l’economia, rilanciare l’occupazione, rendere il debito pubblico permanentemente sostenibile, ecc., anche nella cornice dei trattati attuali. Innumerevoli proposte in tal senso sono state avanzate nel corso degli anni. È altresì evidente, però, che l’attuale equilibrio di potere tra Stati membri (nonché gli equilibri di classe all’interno degli stessi) e più in generale la natura di classe del progetto europeo rendono tali cambiamenti politicamente improbabili, se non impossibili. Come già detto, la costituzione economica e politica dell’Unione europea è strutturata precisamente per produrre i risultati che stiamo vedendo – l’erosione della sovranità popolare, il trasferimento di ricchezza dalle classi medio-basse a quelle alte, l’indebolimento del lavoro, ecc. – e per impedire proprio il tipo di riforme cui aspirano gli integrazionisti/federalisti di sinistra.

In tal senso, non è dato comprendere perché le élite nazionali ed europee dovrebbero acconsentire a delle riforme che andrebbero inevitabilmente a ridurre il loro potere (nella misura in cui qualunque avanzamento sul fronte occupazionale e/o democratico andrebbe ad aumentare il potere contrattuale delle classi subalterne). Alla stessa conclusione era giunto anche Luciano Gallino poco prima della sua scomparsa: «Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile», in quanto esso è stato progettato «quale camicia di forza volta a impedire ogni politica sociale progressista, e le camicie di forza, vista la funzione per cui sono state create, non accettano modifiche “democratiche”»[16].

Ancor meno realistica appare una riforma dei trattati in una direzione più solidaristica e “keynesiana”. Come hanno ricordato negli anni numerosi economisti, ciò richiederebbe un bilancio federale pari almeno al 10 per cento del PIL dell’eurozona; una piena mutualizzazione del debito, trasferimenti fiscali permanenti dai paesi più ricchi verso quelli più poveri; un’autorità federale capace di effettuare spesa in deficit con il sostegno attivo della BCE; un effettivo trasferimento di rappresentatività democratica dal livello nazionale a quello sovranazionale, ecc. A ciò si potrebbe obiettare che, nella misura in cui tali riforme sono oggi irrealizzabili alla luce degli attuali equilibri politici in seno all’Unione europea, una modifica di quegli equilibri potrebbe rendere le suddette ipotesi di riforma attuabili. Anche in questo caso, sebbene tale argomentazione si possa accogliere da un punto di vista strettamente tecnico, essa risulta nondimeno irrealistica da un punto di vista politico. Tale ipotesi, infatti, presupporrebbe la simultanea salita al potere di governi sinceramente progressivi (e che condividano le stesse prospettive di riforma) nei principali paesi europei (inclusa, ovviamente, la Germania) e addirittura in tutti i paesi dell’Unione nella prospettiva di una riforma dei trattati (giacché questa richiede l’unanimità nel Consiglio europeo). Non occorre essere particolarmente pessimisti per arrivare alla conclusione che ciò non accadrà mai. In particolare, è impensabile che nel futuro prossimo possa emergere una coalizione di governo di questo tipo in Germania, per ragioni che ci pare superfluo sottolineare (basti considerare quanto sia radicato l’antikeynesismo nell’establishment politico-monetario tedesco). Infine, anche nell’ipotesi, non meno improbabile, che emerga un’alleanza progressiva tra quei paesi periferici maggiormente danneggiati dall’architettura europea determinata a fare pressione sui tedeschi, il risultato più probabile non sarebbe l’arretramento della Germania, ma la sua fuoriuscita dalla moneta unica, con il conseguente collasso di quest’ultima.

Vi è poi un problema ancor più fondamentale con l’approccio federalista. Anche nell’ipotesi – del tutto implausibile, come detto – che emerga un consenso a livello europeo nella direzione delle succitate riforme tecnico-istituzionali, un’ulteriore cessione di sovranità, nella direzione di un’effettiva unione federale, che non fosse accompagnata da un’equivalente cessione di rappresentatività e legittimità democratica – ammesso e non concesso che questo sia auspicabile – sarebbe insostenibile da un punto di vista politico. Come riconosciuto persino da un convinto europeista come Sergio Fabbrini, le proposte di democratizzazione e di “parlamentarizzazione” dell’Unione europea, nella direzione di un rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo, non tengono conto delle differenze tra uno Stato federale (emergente dalla disaggregazione di uno Stato precedentemente unitario) e un’unione federale (creata dall’aggregazione di Stati precedentemente indipendenti). Scrive Fabbrini:

<<L’UE non può adottare una forma di governo parlamentare a causa di ragioni strutturali più che contingenti: indipendentemente dalla retorica parlamentare celebrata nei trattati, il parlamentarismo non può dare una risposta soddisfacente ai due principali vincoli sistemici che esistono all’interno dell’UE: le asimmetrie demografiche tra i suoi Stati membri e la differenziazione nazionale tra i cittadini degli stessi. Dati questi limiti sistemici, risulterebbe inaccettabile riconoscere il Parlamento europeo come la principale fonte di autorità statale nell’UE, se non come la fonte della legittimità democratica dell’UE. Se ciò dovesse verificarsi, i rappresentanti degli Stati membri più piccoli (attualmente circa tre quarti del totale) sarebbero strutturalmente in minoranza, dato che la differenziazione nazionale tra i cittadini [dei diversi Stati] non può essere mediata attraverso lo stesso asse “sinistra-destra” che esiste a livello nazionale.[17]>>

Ciò che intende Fabbrini è che il combinato disposto della presenza di marcati squilibri economici e demografici tra paesi (destinati a perdurare anche all’interno di un’ipotetica unione) e dell’esistenza di un forte senso di identificazione dei cittadini nei confronti del proprio paese di appartenenza, nonché l’esistenza di marcate differenze culturali tra paesi – in termini etico-morali, linguistici, storici, ecc., ma anche, più banalmente, di usi e costumi –, rappresenterebbe un forte ostacolo all’emergere di un demos europeo la cui identificazione primaria sia nei confronti dell’“Europa” piuttosto che dei singoli Stati membri. Per fare un esempio concreto, se le politiche di austerità fossero state imposte “democraticamente” dal Parlamento europeo alla Grecia e agli altri paesi della periferia, piuttosto che da un organo non eletto (e formalmente neppure esistente) come la troika, questo avrebbe reso tali politiche più legittime agli occhi dei greci e dei cittadini della periferia? Stentiamo a crederlo. Gli integrazionisti obietterebbero che la creazione di una democrazia sovranazionale deve andare di pari passo con la creazione di un “elettorato postnazionale o sovranazionale”. Tuttavia, non è dato comprendere come ciò possa avvenire in presenza non solo di marcate differenze culturali ma anche di significative barriere linguistiche.

Si potrebbe essere tentati (e senz’altro a sinistra è piuttosto marcata la tendenza a farlo) di liquidare tout court la questione dell’identità come superflua, in quanto costrutto artificiale e dunque “falso”. Ma si tratterebbe di «un’illusione perniciosa», scrive il professor Geminello Preterossi[18]. Nelle moderne democrazie costituzionali, come abbiamo visto, è il “popolo” – inteso non come magma indistinto di individui (cioè come popolazione) ma come comunità fondata su affinità (anche e soprattutto prepolitiche) che rinviano ad un’identità collettiva – a rappresentare l’elemento “costitutivo” dello Stato e il depositario della sovranità. Una effettiva democrazia presuppone, dunque, l’esistenza di «un’unità politica pluralizzata, differenziata al proprio interno ma capace di decisioni indipendenti» e di articolarsi come soggetto politico, nonché di offrire «una rappresentanza politica del conflitto sociale che abbia la capacità di incidere, di spostare i rapporti di forza, di imporre compromessi e non subire diktat»[19]. Inoltre, in presenza di sistemi di welfare universalistici, è l’identità nazionale – che ovviamente può essere declinata in senso regressivo (etnico, razziale) ma anche in senso emancipativo – a fornire «quei fattori coesivi, tanto culturali quanto legati alla cura degli interessi di una comunità, necessari a generare vincoli di solidarietà, che trovano tuttora nelle identità nazionali il loro riferimento privilegiato (identità che sono artificiali, certo, ma frutto di accumuli storici che le rendono spesse, non agevolmente scioglibili in contenitori più vasti e sottili, perlomeno non in poco tempo e in condizioni ordinarie)»[20].

In tal senso, una “democrazia sovranazionale” quale quella auspicata dai federalisti sarebbe inevitabilmente una democrazia senza popolo e dunque a bassissima intensità politica, che si risolverebbe quasi esclusivamente nel rituale elettorale: una “democrazia” compiutamente postdemocratica. È provato, infatti, che la tenuta dei legami identitari si fa sempre più debole via via che l’ambito geopolitico di uno Stato si dilata e si fa sempre più sfumato. Non a caso, Hayek individuava proprio in una federazione interstatale europea lo strumento migliore per sterilizzare il processo democratico, dato che gli interventi sulla vita sociale ed economica resi possibili dall’omogeneità strutturale degli Stati «non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee».

Questo senza considerare che, anche tralasciando i problemi sopramenzionati, al momento non esiste alcuna proposta convincente su come implementare questo trasferimento di rappresentatività democratica dal livello nazionale (dove continua ad essere situata perlomeno a livello formale) a quello sovranazionale. Come scrivono i ricercatori Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli, coloro che auspicano una maggiore integrazione politica, pur riconoscendo la necessità di rafforzare la componente elettorale rappresentativa, ignorano che i rischi connessi alla cattura del processo democratico da parte delle oligarchie economiche vengono fortemente accentuati a livello sovranazionale[21]. In ultima analisi, risulta evidente a chi scrive che una riforma in senso democratico-progressivo dell’Unione europea e in particolare dell’unione monetaria è non solo impossibile in termini pratici – come riconosciuto ormai anche da un numero crescente di economisti mainstream quali Joseph Stiglitz, Paul De Grauwe e altri – ma anche inauspicabile dalla prospettiva del controllo democratico dell’economia. Non si può democratizzare uno spazio che nasce e si sviluppa proprio all’insegna della desovranizzazione, della de-democratizzazione e della depoliticizzazione. Il livello europeo è strutturalmente postdemocratico e per questo irriformabile.

Per concludere, se si accetta la tesi, difficilmente contestabile all’avviso di chi scrive, secondo cui la ridemocratizzazione e ripoliticizzazione dei processi politici ed economici è la condizione necessaria per imprimere un nuovo corso alle nostre società, radicalmente alternativo a quello vigente – nella direzione, secondo gli auspici di chi scrive, della piena e buona occupazione; della difesa e dell’espansione del welfare; della redistribuzione della ricchezza; della (ri)nazionalizzazione di molte aree economiche strategiche; della ripresa in chiave moderna del concetto di pianificazione (finalizzata anche alla reindustrializzazione di quei paesi, come l’Italia, messi in ginocchio dalla crisi); di una rinnovata centralità delle istituzioni democratiche nelle decisioni di investimento, di produzione e di consumo, con particolare attenzione alla sfida ecologica; di un asservimento della finanza ai bisogni della collettività; di un uso attivo della politica fiscale a sostegno dei punti sopracitati, ecc. –, allora non si può che ripartire dall’unico luogo in cui storicamente la democrazia è stata possibile e in cui le classi subalterne sono riuscite a ottenere una reale rappresentanza politica: lo Stato nazionale.

Bisogna, insomma, «ripartire da un’ovvia verità», scrive Geminello Preterossi: «che senza sovranità statale democratica è impossibile una politica autonoma», e tantomeno una politica di emancipazione radicale[22]. Lo Stato-nazione è storicamente l’unico contenitore ad aver fornito un terreno comune per l’azione del popolo come “soggetto collettivo” e conseguentemente ad aver reso possibile l’esercizio della sovranità democratica. In altre parole, la politicizzazione delle masse presuppone la “nazionalizzazione” delle stesse. Senza sovranità nazionale e democratica, dunque, non può esistere sovranità popolare, perché, come già detto, «solo un’unità politica pluralizzata, differenziata al proprio interno ma capace di decisioni indipendenti, può costituire il contenitore di quei soggetti e corpi intermedi nei quali il “popolo” deve articolarsi per non essere un magma indistinto, disponibile a ogni avventura passivizzante. Solo entro uno spazio politico concreto, territorializzato, è possibile ricostruire una rappresentanza politica del conflitto sociale che abbia la capacità di incidere, di spostare i rapporti di forza, di imporre compromessi e non subire diktat»[23]. L’esercizio della sovranità, dunque, implica una riconfigurazione e ridefinizione del ruolo stesso dello Stato, che da mero strumento del capitale deve tornare a essere, tra le altre cose, strumento di protezione dei cittadini.

È nondimeno evidente, però, che l’esercizio della sovranità democratica – soprattutto se finalizzata all’implementazione di politiche presumibilmente invise alle oligarchie nazionali e internazionali – presuppone il recupero della «cosa principale che definisce l’indipendenza di una nazione», secondo la definizione di Wynne Godley: la sovranità monetaria, presupposto per l’effettivo esercizio di qualunque altra forma di sovranità economica, a partire da quella fiscale[24]. In quest’ottica, la conclusione non può che essere quella maturata da Luciano Gallino poco prima della sua scomparsa, ossia che «l’unica strada per recuperare le sovranità perdute in tema di politiche economiche e sociali, oltre che monetarie, consiste nell’uscita dall’euro»[25]. Quest’ultima, dunque, rappresenta una condicio sine qua non – una condizione necessaria ma di per sé insufficiente – per il recupero della sovranità democratica e popolare. Sarebbe a dire che l’uscita dalla moneta unica ha senso solo se è funzionale alla (re)introduzione di «meccanismi economico-istituzionali che consentano di ridefinire rapporti di forza più favorevoli al lavoro salariato»[26] e alle classi subalterne più in generale, e dunque al ristabilimento di un contesto di lotta in cui queste ultime non siano sconfitte in partenza, come nel sistema attuale. Tali meccanismi devono concretizzarsi innanzitutto nel pieno recupero della politica fiscale, che presuppone, appunto, il recupero della sovranità monetaria – cioè del diritto di uno Stato di finanziare con moneta il proprio fabbisogno –, giacché la condizione primaria affinché uno Stato sia libero dal giogo dei mercati finanziari è non dover dipendere da questi per la propria capacità di spesa. In altre parole, va ristabilito il principio secondo cui la banca centrale è uno strumento del potere esecutivo, e non un potere indipendente all’interno dello Stato. Questa è la cornice economico-istituzionale minima per riportare l’esercizio della politica economica nel perimetro del processo democratico.


Note
[1] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993.
[2] E. Grande, Das Paradox der Schwäche. Forschungspolitik und die Ein-flusslogik europäischer Politikverflechtung.
[3] A. Moravcsik, Why the European Community Strengthens the State: Domestic Politics and International Cooperation, Center for European Studies working paper, n. 52, 1994.
[4] D. Moro, La gabbia dell’euro.
[5] M. Baldassari et al., “Europa resiliente: plasticità e irriformabilità della governance”, in “Il Ponte,”, n. 5-6, maggio-giugno 2017.
[6] L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti.
[7] L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa.
[8] Ibid.
[9] L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa.
[10] M. Baldassari et al., op. cit.
[11] A. Stone Sweet, The Juridical Coup d’État and the Problem of Authority, Yale Law School Legal Scholarship Repository, 1 gennaio 2007.
[12] L. Barra Caracciolo, La Costituzione nella palude.
[13] W. Elsner, Financial Capitalism: At Odds with Democracy, in “Real-World Economics Review”, vol. 62, 2012, p. 158.
[14] M. Dani, A.J. Menendez, The “Savona Affaire”: Overconstitutionalization in Action?, “Verfasssungsblog.de”, 31 maggio 2018.
[15] G. Preterossi, Radicalità, in “Filosofia Politica”, n. 1/2017, pp. 69-80.
[16] L. Gallino, Come (e perché) uscire dall’euro, ma non dall’Unione europea.
[17] S. Fabbrini, Why We Should Be Wary Of Proposals To “Parliamentarise” EU Decision-Making, “Social Europe”, 10 agosto 2015.
[18] G. Preterossi, Ciò che resta della democrazia.
[19] G. Preterossi, Ritorno alla sovranità democratica.
[20] Ibid.
[21] L. Del Savio, M. Mameli, Against the European Parliament, “openDemocracy”, 8 gennaio 2015.
[22] G. Preterossi, Ritorno alla sovranità democratica.
[23] Ibid.
[24] W. Godley, Maastricht and All That, in “London Review of Books”, vol. 14, n. 19, 8 ottobre 1992.
[25] L. Gallino, Come (e perché) uscire dall’euro, ma non dall’Unione europea.
[26] D. Moro, op. cit.

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