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I tagli allo Stato Sociale? Dannosi e controproducenti

Anna Avitabile intervista Roberto Artoni

Parla Roberto Artoni, docente della Bocconi. "Si usa la crisi per ridurre le spese sociali, ma così facendo non si risolve il problema. Al contrario, lo si aggrava". In certi settori, come la sanità, l'intervento pubblico resta lo strumento migliore

liquiditàDa qualche tempo si parla di insostenibilità dell'intervento pubblico, asserendo che è necessario tagliare pesantemente una serie di voci di spesa, a partire da quelle delle autonomie locali, dell'istruzione, della sanità, della gestione del territorio. Ma il gettito fiscale non è drasticamente diminuito negli ultimi anni e allora perché quelli che erano livelli normali di spesa oggi sembrano essere diventati insostenibili? Cos'è cambiato? Si apre con questa domanda, forse un po' ingenua, l'intervista a Roberto Artoni, professore di Scienza delle Finanze all'università Bocconi di Milano.


Qualche maligno ha scritto che c'è chi ha guardato alla crisi come a una grande occasione per arrivare a un regolamento dei conti, cioè alla possibilità di tagliare soprattutto le spese sociali. E lei è d’accordo con questa ipotesi?

Ci sono molti indizi che la rendono non così peregrina, soprattutto se si guarda alle politiche proposte dai repubblicani negli Stati Uniti o a quelle praticate dai conservatori inglesi. Ma c’è anche un secondo aspetto da tenere in conto, la speculazione finanziaria degli operatori transnazionali che oggi possono attaccare qualunque valuta, specialmente quelle dei paesi relativamente piccoli, in particolare quando questi ultimi hanno la necessità di rinnovare il loro debito in scadenza.

La logica d’intervento di tali soggetti è basata sulle variazioni dei prezzi, non importa se in salita o discesa, in modo da guadagnare sui differenziali. Dunque, se il debito non viene sottoscritto, il paese entra totalmente in crisi e fino a quando non si procederà a regolare l’attività di tali operatori, questo tipo di rischio sarà sempre presente. Infine va tenuto conto che alcuni paesi (per primi gli Stati Uniti e in secondo luogo la Grecia), molto spesso governati da partiti conservatori, hanno seguito politiche finanziarie abbastanza scorrette, estendendo a dismisura l’indebitamento pubblico e privato. Adesso gli Stati Uniti si sono trovati in una situazione di bilancio pubblico molto pesante per effetto della crisi, e non per particolari iniziative di spesa pubblica assunte in questi ultimi anni.


Venendo all’Italia, noi abbiamo un debito pubblico molto consistente e un livello di tassazione molto alto, quindi potremmo solo spostare la spesa da alcuni capitoli ad altri, e così per la tassazione, spostarne il carico da alcuni soggetti ad altri.


Noi siamo allineati ai paesi europei come struttura della spesa e delle entrate pubbliche, al di là di specificità che però non sono così macroscopiche. Ad esempio, paghiamo due punti in più di interessi passivi sul debito pubblico rispetto ai paesi più virtuosi, almeno fino a oggi, ma abbiamo una spesa sociale che nel complesso è relativamente contenuta. In questi ambiti il livello di tassazione è nella media europea. Bisogna tener conto che il livello della spesa pubblica, in generale, è determinato dall’assunzione collettiva di certi rischi sociali come la vecchiaia, la disoccupazione, la malattia. Per esempio, dal confronto tra i livelli di spesa sociale negli Stati Uniti e in Europa si vede che la spesa pubblica è molto superiore in Europa rispetto agli Usa ma che la spesa complessiva per le stesse finalità finisce per coincidere. In ogni società bisogna destinare una parte delle risorse a questi fini, decidendo qual è la maniera più efficiente per adempiere a queste funzioni. L’esperienza dimostra che, in sostanza, il modello europeo finisce per essere quello più socialmente efficace perché universalistico e perché, soprattutto in certe componenti come quelle sanitarie, l’intervento pubblico si rivela lo strumento migliore per controllare la spesa, sia nel suo livello che nella sua dinamica. Per cui in sostanza si tratta di un problema di destinazione di risorse più che di spesa pubblica o di spesa privata, cioè quanto vogliamo o dobbiamo spendere per determinate finalità. Ad esempio, negli Stati Uniti la spesa pubblica sanitaria (attraverso Medicare e Medicaid dedicata ai poveri) è praticamente molto vicina, in termini di quota del prodotto interno lordo, al livello della spesa italiana per il servizio sanitario nazionale. Poi negli Stati Uniti si sovrappone un enorme apparato che va a finanziare medici, case farmaceutiche, ospedali che praticamente è equivalente all’ammontare della spesa pubblica.


Considerando la necessità di un riposizionamento competitivo dei paesi europei, e in particolare del nostro, come può contribuire la spesa pubblica per agevolare questo processo attraverso il sostegno al reddito per chi perde il lavoro, la riqualificazione, il contrasto alle disuguaglianze e la promozione di pari opportunità?


Certamente in un contesto di crisi generalizzata delle imprese ci possono essere degli interventi correttivi per contrastare situazioni per così dire patologiche, quali i sussidi alla disoccupazione. Però esistono problemi di fondo che non possono essere risolti da questo tipo di interventi: in Italia molte difficoltà sono conseguenza di una politica dissennata di deregolamentazione del mercato del lavoro realizzata in questi ultimi venti anni che concretamente ha prodotto un fortissimo spostamento nella distribuzione del reddito. Essa ha determinato effetti macroeconomici negativi in termini di caduta della domanda aggregata, ma ha avuto effetti disastrosi anche sul piano sociale, perché quando ci si lamenta che il tasso di natalità oggi è basso, ci si dimentica che si è fatto di tutto per renderlo tale, facendo diventare precari, difficili e incerti tutti i processi d’ingresso nel mercato del lavoro. Ai miei tempi ci si sposava a 25-26 anni, non solo nelle classi borghesi ma in tutti gli strati sociali, perché il contesto in cui ci si muoveva rendeva possibile progettare il proprio futuro. In altre parole, è ovvio che in un momento patologico si debba intervenire con strumenti pubblici per il sostegno del reddito. Però se non si va a vedere quali sono le cause di queste situazioni, questi strumenti sono inadeguati, anche se individualmente possono essere utili. Cioè siamo tutti d’accordo sull’utilità delle aspirine, però teniamo conto che c’è qualcosa in più da fare. Stiamo pagando il prezzo di politiche discutibili adottate negli ultimi quindici, vent’anni, i ui non è solo la destra responsabile.


Giorgio Ruffolo, in un articolo su “la Repubblica” del 4 novembre scorso, affacciava l’ipotesi di spostare dai beni individuali al consumo sociale una parte della domanda aggregata, attraverso un’apposita politica fiscale. Lei sarebbe d’accordo?


Non si può non essere d’accordo, bisogna vedere che incidenza avrebbero questi processi, perché ho l’impressione che oggi ci sia una tale compressione dei redditi mediobassi da provocare degli effetti ulteriormente depressivi con una politica del genere.


In sostanza quel che vorremmo capire è in che maniera la crisi ha inciso sullo Stato sociale e in che maniera lo Stato sociale può aiutare portarci fuori dalla crisi.


Indubbiamente la crisi ha inciso fortemente sullo Stato sociale, nel senso che c’è molta più tensione su di una serie di interventi. A fronte di questa tensione, che si manifesta dal punto di vista finanziario sui conti pubblici, è stato risposto con una politica di tagli che certamente aggravano la situazione. Lo Stato sociale, in quanto meccanismo assicurativo contro eventi negativi dell’esistenza, non è in grado di portare al di fuori della crisi. Potrà attenuarne gli effetti sociali, ma l’uscita dalla crisi nasce da una politica pubblica complessiva, politica industriale e politiche di correzione delle distorsioni del mercato del lavoro, che aiuterebbero a riprendere la strada dello sviluppo. Però l’aumento del sussidio di disoccupazione è manifestazione di un cattivo funzionamento del sistema economico nel suo complesso, non è un fenomeno a se stante.


Alcuni sostengono che una riduzione della spesa pubblica può avere effetti positivi sulla crescita, ma altri si interrogano sugli effetti negativi sull’efficienza e sulla funzionalità del sistema in caso di tagli non selettivi.


Sì certamente, non si può tagliare a caso, come ha fatto Tremonti, riducendo percentualmente tutti i capitoli di spesa. Si è giocato tutto sul lato della spesa pubblica asserendo di non aver aumentato le imposte, ma di fatto quando si aumenta il biglietto del tram è come se si fosse intervenuti sul fronte delle entrate. E poi questi tagli della spesa possono anche produrre forti effetti negativi sulla funzionalità dell’apparato pubblico, con un degrado dei servizi. Ad esempio se non si danno le risorse alla polizia per pagare la benzina, è chiaro che la sicurezza dei cittadini non può migliorare. Si sono fatti interventi pesantissimi sulla scuola senza procedere ad alcuna analisi preventiva sulla dimensione ottimale delle classi e sul merito delle scelte, muovendosi sulla base di una logica puramente finanziaria. All’università sta andando in pensione il 30 per cento dei docenti perché non si fanno concorsi così come in altre amministrazioni pubbliche. Bisogna analizzare le funzioni dello Stato prima di procedere a tagli indiscriminati. Difatti adesso il governo sta facendo marcia indietro su diversi fronti come enti locali e scuola e anche all’università si riassegnano una parte delle risorse in precedenza tagliate.


Un altro aspetto dello Stato sociale riguarda la capacità del sistema pubblico d iriposizionarsi a fronte di una situazione cambiata, non solo dal punto demografico, ma per effetto della crisi economica e di fenomeni nuovi come l’immigrazione. Qual è la sua capacità di darsi degli obiettivi, selezionare e formare il personale, misurare i risultati, realizzare una mobilità dei dipendenti, sia geografica che funzionale. Sono questioni mai affrontate in modo serio?


Il passato governo Prodi ha tentato di mettere in pratica un’analisi efficientistica del funzionamento dell’amministrazione pubblica attraverso lo strumento della Spending Review, ma non mi sembra che abbia portato a grandi risultati, sono venuti fuori molto spesso suggerimenti non decisivi se non addirittura banali.


Ritornando ai tagli sulla spesa, su quali altri capitoli si è agito?


Si è intervenuti molto pesantemente sulla spesa pensionistica, a partire dalla riforma Dini, regalando ai nostri nipoti problemi di livello e di adeguatezza delle prestazioni pensionistiche. Se poi associamo il metodo contributivo della riforma Dini con la precarizzazione del rapporto di lavoro, si è ottenuto un risultato micidiale che non so dove ci porterà. Sugli altri comparti di spesa sociale si è già intervenuti. La spesa sanitaria deve essere controllata, ma questa è costituita essenzialmente dagli stipendi degli operatori, medici e infermieri, e comunque in Italia ècontenuta per cui non credo che ci sia molto da tagliare. Invece nel nostro paese c’è da ripensare il sistema di tassazione per trovare ulteriori spazi di azione per incrementare le entrate.


Relativi al patrimonio immobiliare oppure alla ricchezza finanziaria?


Hanno abolito l’Ici sulla prima casa, e sulle rendite finanziarie è un po’ più difficile, soprattutto oggi che i rendimenti sono praticamente nulli. C’è il problema di definire il comportamento verso questa miriade di piccole imprese che costituiscono il ventre molle del nostro sistema tributario e alle quali ai fini fiscali non si applicano i criteri di bilancio. Bisogna inventare qualcosa, ma chi ci ha provato ha perso le elezioni.


Il ministro delle Finanze Vincenzo Visco nella passata legislatura, con gli studi di settore?


Sì, c’è un nucleo duro della società italiana che vi si oppone.


La riforma federalista potrebbe migliorare le cose, avvicinando i soggetti esattori ai luoghi in cui si produce la ricchezza?


Forse ci potrebbe essere qualche vantaggio per il Nord, ma tutto dipende dai trasferimenti dal Nord al Sud. A questo proposito l’idea della Lega è di tagliarli drasticamente, ma nella realtà italiana questo provocherebbe grossi problemi di compattezza istituzionale, per cui non credo che ci potranno essere effetti rilevanti sulla pressione tributaria complessiva. Potrebbero esserci degli aggiustamenti al margine a favore del Nord Italia.


Potrebbe restituire qualche spazio di manovra in più alle autonomie locali?


Bisogna vedere come lo si attua, perché anche lì ci sono dei vincoli e c’è l’impegno a non aumentare la pressione fiscale. In realtà credo che il disegno sia sostanzialmente indefinito, può darsi che succeda qualcosa, ma il vero motore del federalismo è la speranza della Lega di poter dire che si è riusciti a ridurre le imposte.


Secondo lei, la politica di welfare di un paese potrebbe porsi un obiettivo forte, ad esempio quello di ridurre le disparità di opportunità esistenti nella popolazione, attraverso diversi strumenti quali la medicina preventiva, l’istruzione, la formazione, la promozione dei soggetti svantaggiati?


Si tratta di effetti di lungo periodo che comunque richiedono un buon funzionamento del sistema economico nel suo complesso. Se vengono distrutti i rapporti distributivi, si va incontro a grossi problemi.


E quindi nella situazione attuale da dove si comincia?


Si può intervenire sul mercato del lavoro, ristabilendo una serie di tutele il cui smantellamento è stato micidiale per quanto riguarda gli assetti distributivi tra salari e profitti. Questi ultimi sono stati compromessi solo ultimamente per effetto diretto della crisi. In secondo luogo, a mio avviso, occorre riaffermare l’esigenza di garantire la funzionalità del settore pubblico perché molto spesso si tratta di “beni salario”: se aumentano le tariffe dei trasporti è come se il reddito dei lavoratori si riducesse. E in terzo luogo bisogna sperare che la classe imprenditoriale italiana dimostri un’adeguata vitalità perché la fuga generalizzata in Serbia dopo un po’ si trasforma in un gioco a somma zero, finisce il vantaggio relativo. C’è una crisi mondiale molto pesante che è frutto di una serie di politiche seguite negli anni scorsi, in particolare, dagli Stati Uniti. In questa situazione l’Italia soffre, a mio giudizio, soprattutto in termini di prospettive future, non tanto nella situazione attuale, in cui si riesce a galleggiare. Vi è stata tutta una serie di politiche coerenti, la distruzione dei sindacati ad esempio, che per me portano a un peggioramento complessivo.

Nella spesa pubblica ci sono anche gli investimenti, il governo annuncia grandi opere e poi frana il territorio sotto la pioggia. La Cgil ha sempre chiesto di mettere in cantiere i lavori pubblici commissionati dai Comuni, intanto perché essendo più contenuti sono più rapidamente fattibili e poi forse anche perché hanno un moltiplicatore più alto. Lei che ne pensa?

Esiste questo Patto di stabilità interno che vincola tutti i Comuni anche per le spese di investimento ai fini del controllo del disavanzo pubblico.


Un’ultima domanda, a livello europeo cosa si potrebbe fare sia come spesa pubblica che come imposizione fiscale?


A livello europeo sarebbe soprattutto necessaria una politica economica abbastanza unitaria. Adesso la posizione della Germania, che ha recuperato solo parzialmente quanto aveva perso l’anno scorso (durante il quale ha subìto una caduta molto forte), non sembra molto desiderosa di unità mentre le tesi più conservatrici e reazionarie sono quelle della Banca centrale europea. È curioso che dopo questa grande crisi non sia cambiato nessun dirigente delle banche centrali: sembra che quel che è capitato sia avvenuto per colpa di qualcun altro. L’unico che ha forse cambiato la propria linea è il Fondo monetario internazionale.

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