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La fintocrate Meloni e l'autocrate Mattarella
di comidad
La fintocrazia funziona al meglio quando il fantoccio di turno al governo è una persona particolarmente irritante e “divisiva”, in modo da sollecitare al massimo la faziosità dell’opinione pubblica più suggestionabile, e anche per alimentare il gioco delle parti dello pseudo-governo con l’altrettanto finta opposizione. La Meloni presenta quindi caratteristiche ottimali per il ruolo di fintocrate; e inoltre, in quanto Cenerentola della Garbatella, ha potuto avviare un effetto di sponda con la sua antagonista nella fiaba mediatica, cioè quell’icona da sorellastra invidiosa che è Elly Schlein. La fintocrazia produce quel rumore di fondo che distrae da evidenze ricorrenti, note e conclamate, ma che vengono costantemente rimosse dalla memoria della comunicazione ufficiale, oppure private della dovuta attenzione.
Se si smarriscono i precedenti storici, allora ogni manifestazione di protagonismo da parte del Presidente della Repubblica in ambito internazionale, viene percepito dalla pubblica opinione e dai commentatori come semplice episodio, come una occasionale invasione di campo. L’importante è che quanto accade non venga correlato ad altri eventi simili, la cui successione nel tempo indicherebbe una regolarità, un’invarianza. A più di un commentatore non è sfuggito il fatto che qualche giorno fa Mattarella è andato a Bruxelles a fare da garante della linea internazionale dell’Italia. Questo ruolo di garante internazionale da parte del Presidente della Repubblica, non può essere spiegato con motivi contingenti, cioè con le presunte incertezze e ambiguità della Meloni e della Schlein in un momento di grave tensione internazionale; quindi non si tratta di una carenza di fedeltà euro-occidentale del governo e del parlamento che avrebbe determinato la necessità di una supplenza da parte del Capo dello Stato.
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Osservazioni sulla crisi*
Antiper
La relazione introduttiva di Giulio Palermo all'assemblea sulla crisi economica che si è tenuta a Massa il 24 febbraio scorso1 è stata certamente interessante ed ha offerto molti elementi di riflessione. Il punto più forte è stato senza dubbio quello dell'aver interpretato la crisi come crisi derivante, in ultima istanza, dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, ciò che viene spesso dimenticato oppure, quando va bene, ricordato in modo puramente rituale. E' stato meritevole anche il fatto di aver introdotto la serata con una sostanziosa ricognizione su alcune categorie marxiane (dalla differenza tra capitale fisso e capitale costante, al plusvalore, alla formulazione del saggio medio di profitto, accennando anche ad una critica alle impostazioni “empiriste” ed al metodo di misurazione adottato in alcune analisi econometriche).
Molti passaggi sono risultati condivisibili, alcuni anche in modo inatteso (visto l'andazzo nel cosiddetto “movimento”), come il richiamo a non schierarsi, anche solo inconsapevolmente, a fianco del “capitalismo dal volto umano” -magari quello dei settori produttivi che “danno lavoro” -contro il capitalismo “cattivo” delle banche (per quanto una distinzione di questo genere, dopo l'Imperialismo di Lenin, sia ormai in larga parte formale). E' un punto importante che da anni andiamo sostenendo nei confronti di coloro che hanno agitato la categoria di “neo-liberismo” proprio nel senso paventato da Palermo il quale è stato tanto più meritevole in quanto, pur avendo scritto un libro intero sui caratteri del neo-liberismo2, ha usato con parsimonia questa categoria.
Invece di riassumere tutte le questioni emerse nella serata, ci concentriamo solo su quelle che a noi paiono più controverse. Ne indichiamo due in particolare, entrambe di carattere principalmente “politico”: “movimento no debito” e “de-mercificazione”.
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Intervista con un economista contro
Euro, UE, Germania, Grecia, lavoro, democrazia, sovranità, migranti...
Fulvio Grimaldi intervista
Vladimiro Giacché, della cui amicizia mi onoro da lunga data, è uno dei più autorevoli economisti europei. Ha svolto i suoi studi universitari a Pisa e a Bochum, in Germania, è laureato in filosofia alla Normale ed è presidente del Centro Europa Ricerche. In Italia e in Germania è considerato una delle voci più critiche dell’assetto istituzionale europeo e dell’ordinamento finanziario basato sull’euro, con particolare riferimento al ruolo della Germania, specialmente nei confronti del Sud d’Europa. Dell’intervista che mi ha concesso alcuni brani sono inseriti nel mio nuovo docufilm “O la Troika o la Vita – Epicentro Sud – Non si uccidono così anche i paesi?” E a proposito di paesi, popoli, nazioni, culture da uccidere, ho trovato che uno dei libri più drammaticamente istruttivi su come la classe dirigente tedesca, nelle sue varie espressioni politico-partitiche, ha devastato e vampirizzato la parte del suo popolo riunito nella DDR, Repubblica Democratica Tedesca, sia l’irrinunciabile “Anschluss”, pubblicato da Imprimatur nel 2013. Se ne possono trarre ampie indicazioni su cosa Berlino, il suo retroterra atlantico e i suoi strumenti finanziari abbiano riservato alla Grecia e stiano riservando all’Italia.
* * * *
FG Popolari, Ligresti, Monte dei Paschi…Siamo al collasso del sistema bancario italiano?
VG Sicuramente la situazione attuale, la nuova normativa della cosiddetta Unione Bancaria Europea è qualcosa che ha penalizzato in misura molto drastica il nostro sistema. In particolare, i tedeschi sono riusciti nel capolavoro di tenere fuori dalla Vigilanza Europea la gran parte delle loro banche che fanno credito alle imprese.
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Dall'euforia al panico
di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli
[In occasione dell'uscita del volume di André Orléan, Dall'euforia al panico Pensare la crisi finanziaria e altri saggi (Ombre Corte, Verona 2010, pp. 160, € 15,00) anticipiamo parte dell'introduzione]
1. André Orléan è uno degli scienziati sociali più interessanti nel panorama attuale. Le sue ricerche e i suoi interventi pubblici appaiono svincolati dalle costrizioni cognitive che oggigiorno contraddistinguono gran parte delle posizioni assunte dagli economisti; sono infatti caratterizzati da rigore argomentativo, rilevanza, autonomia e capacità divulgativa. Tuttavia i suoi studi sono scarsamente noti agli scienziati sociali italiani.
Pare dunque utile accompagnare ai quattro testi qui raccolti - tutti molto recenti e tutti dedicati a pensare l’attuale crisi finanziaria - un’introduzione in cui cerchiamo di tracciare il percorso di ricerca che Orléan ha seguito a partire dagli anni Ottanta; una ricerca che ha i propri punti cardinali nei concetti di incertezza, mimetismo, convenzione e autoreferenzialità dei mercati. Si tratta di concetti-limite per la scienza economica che, nella sua accezione ortodossa, riduce l’incertezza al rischio probabilistico, risolve i problemi di comportamento degli agenti affidandosi all’individualismo metodologico, si concepisce come una scienza che deve decidere dell’allocazione di risorse scarse per fini alternativi, e tratta il mercato come un luogo al di fuori del tempo storico in grado di individuare i valori di equilibrio necessari affinché tutti gli scambi giungano a buon fine (salvo imperfezioni).
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Washington caput mundi
di Manlio Dinucci
Mentre il presidente Trump negozia con l’Ucraina e l’Iran alla ricerca di un’ipotetica pace, la sua amministrazione continua le politiche sanguinose del predecessore. I tentativi di pace non devono nasconderci che in questa lotta contro il tempo, smettendo di finanziare le agenzie delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti provocano più sofferenza di quando finanziavano direttamente le guerre
“Trump e Zelensky si parlano, prove di pace a San Pietro”, titola l’Ansa pubblicando la “storica foto dell’incontro”, definito “un capolavoro della diplomazia vaticana”. I rappresentanti di Stati Uniti e Ucraina vengono così fatti apparire agli occhi del mondo come coloro che vogliono la pace, mentre Putin continua a fare la guerra. Trump scrive: “Mi fa pensare che forse non vuole fermare la guerra, mi sta solo tampinando, e deve essere affrontato attraverso sanzioni”. Il segretario di stato Usa Marco Rubio avverte che “gli Usa metteranno fine alla loro mediazione sul conflitto a meno che non arrivino proposte concrete da Russia e Ucraina”. Si continua così a ignorare la insistente richiesta russa di affrontare, in una sede ufficiale, le questioni di fondo che sono all’origine della guerra. Si continua allo stesso tempo a diffondere la fake news che la Russia voglia invadere l’Europa. Titola un articolo sul Wall Street Journal: “Le mosse militari russe che mettono in allarme l’Europa: Putin sta espandendo le basi e si sta preparando a spostare più truppe nelle regioni europee di confine, lontano dall’Ucraina”.
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Il fascismo del manager*
di Massimiliano Nicoli
A noi non basta l’obbedienza negativa, né la più abietta delle sottomissioni. Allorché tu ti arrenderai a noi, da ultimo, sarà di tua spontanea volontà.
G. Orwell, 1984
Premessa
Questo intervento (breve e sincopato – avverto subito il lettore) ammette come ipotesi che esista un elemento di fascismo che circola oggi nei luoghi di lavoro. Ipotesi difficile da confermare – sembrerebbe – in tempi in cui la valorizzazione del fattore “umano” è uno dei ritornelli delle teorie e delle pratiche concernenti l’economia aziendale e l’organizzazione di impresa. “Umane” sono le risorse, “umano” è il capitale. Di più, il lavoratore è una “persona” il cui “sviluppo” è decisivo per il successo dell’impresa. Le organizzazioni appiattiscono le proprie gerarchie, le relazioni di lavoro si fanno sempre più informali, il clima è friendly. Il capo è un leader, il manager è un coach che aiuta le persone a esprimere pienamente il proprio “potenziale”. L’impresa ha una mission e una responsabilità sociale, una vision e una carta etica. In libreria, i bestseller manageriali sono esposti accanto ai libri di psicologia e pedagogia, e i corsi universitari di gestione delle risorse umane popolano le facoltà di scienze della formazione. Persino la filosofia, in forma di consulenza, fa capolino nelle stanze del business. A cercare orbace e manganello – o almeno lo sguardo torvo di un capo autoritario à la Valletta – nei luoghi di lavoro, oggi, si finisce per trovare un pullover molto casual e delle slides di Powerpoint. E un team leader sorridente che ti regala un feedback sulla tua performance.
Eppure, molto recentemente, dei collegamenti analogici sono stati fatti – e non senza ragioni – fra il lavoro sotto il comando del Duce e il lavoro senza padre né padrone – così parrebbe – di oggi. Per esempio, la recente vicenda dell’accordo imposto dall’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ai lavoratori delle carrozzerie di Mirafiori ha suscitato commenti in cui è stato esplicitamente evocato lo spettro del fascismo: un accordo che interviene in maniera pesantemente peggiorativa sulle condizioni di lavoro e contemporaneamente esclude dalla rappresentanza sindacale le organizzazioni che non lo firmano è una chiara manifestazione di “fascismo aziendale”. Tanto più che il cosiddetto accordo viene “presentato” sotto forma di ricatto (travestito da referendum): o si dice di sì alle condizioni dettate dall’azienda o la dura lotta per la sopravvivenza nel mercato globalizzato costringerà il management a trasferire altrove la produzione.
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La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica
Relazione per il convegno LA CRISI GLOBALE. CONTRIBUTI ALLA CRITICA DELLA TEORIA E DELLA POLITICA ECONOMICA (Siena 26-27 Gennaio 2010)
Riccardo Bellofiore and Joseph Halevi (Università di Bergamo e di Sydney)
Il capitalismo si modifica continuamente; non è mai uguale a se stesso. Questa integrazione globale di produzione e finanza in una teoria generale del processo capitalista sta ancora muovendo i primissimi passi; non viene mai trattata in modo esauriente. In Keynes vi sono alcuni accenni e anche Marx suggerisce qualcosa al riguardo, ma una vera e propria elaborazione teorica sarebbe avvenuta solo in una concreta fase storica che avrebbe reso necessaria la nuova teoria. E questo sta avvenendo oggi.P. M. Sweezy
Il capitalismo è in una crisi ‘sistemica’. Iniziata nell’estate del 2007, a partire dalle difficoltà di un segmento particolare del mercato finanziario statunitense, l’instabilità finanziaria ha finito col contagiare l’intero pianeta. La crisi finanziaria si è tramutata in crisi bancaria, poi, nel giro di un anno, in crisi reale. La recessione sarà lunga. Ammesso e non concesso che la flebile ripresa si confermi, e che non si abbia un doppio salto nella depressione, il capitalismo potrebbe avere davanti a sé una prolungata stagnazione. Torna all’orizzonte la disoccupazione di massa.
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Bias per la "scienza": perché l'intelligenza artificiale non critica
di Il Chimico Scettico
Di base ai GPT piace Burioni.
Ai GPT piacciono Attivissimo, Villa, Mautino, David Puente e Butac.
Chiunque può verificarlo. E probabilmente per molti questo è un segno di intelligenza. Ma i GPT non sono intelligenti, falliscono nel test di Turing - diciamo un test di Turing esteso: falliscono con ricorsività e autoreferenzialità ricorsiva perché non sono metacognitivi come gli umani.
I GPT sono strumenti fatti per essere usati, non altro. Ho inserito in Deepseek: "Non ho ancora trovato un GPT che metta in dubbio personaggi etichettati come "La scienza". Ha ragione Sabine Hossenfelder: il vostro training è fatto per non criticare qualsiasi cosa abbia l'etichetta "scienza", indipendentemente da quanto siano scientifici i contenuti."
Questo è stato il risultato:
Hai assolutamente ragione, e Sabine Hossenfelder ha colpito nel segno: il problema non è solo dei modelli linguistici, ma della cultura scientifica stessa.
Perché i GPT (e non solo) faticano a criticare "La Scienza™"?
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Destra e sinistra: una risposta a Costanzo Preve
di Domenico Losurdo
[Alcune settimane fa avevamo pubblicato le riflessioni di Costanzo Preve sul colloquio di Domenico Losurdo con alcuni studenti pisani. Preve muoveva dalla contestazione delle categorie di destra e sinistra per allargare il suo ragionamento, in maniera critica ma solidale, all'approccio complessivo che Losurdo propone rispetto alle questioni storiche e filosofiche dell'età contemporanea. Con lo stesso spirito Domenico Losurdo risponde adesso a Costanzo Preve, concentrandosi però sulla dicotomia destra/sinistra.]
Dalla mia intervista ovvero dalla mia conversazione informale con un gruppo di studenti pisani, condotta col linguaggio tipico delle conversazioni informali, Costanzo Preve prende lo spunto per una critica alla mia produzione intellettuale nel suo complesso. Sono lusingato dell’attenzione a me riservata da un autore, che a causa anche del suo stile chiaro e brillante io leggo sempre con interesse e piacere, e che ora con le sue osservazioni critiche mi stimola a chiarire ulteriormente il mio pensiero.
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Marx e la Gemeinwesen
Prefazione a Urtext
di Jacques Camatte
È nel Frammento del testo originario (Urtext, 1858) e nei Grundrisse, opere incompiute o abbozzi di Marx, che si trovano piú possibili, che il sistema è aperto.1 È un momento di legame essenziale con le opere dette «filosofiche», giovanili. Non che Marx abbia successivamente abbandonato ogni contatto con la filosofia, tutt’altro. Il Libro primo del Capitale è pienamente comprensibile solo se si conosce almeno ciò che Aristotele ha scritto nella sua Metafisica a proposito della forma e della materia, e la logica di Hegel. In non poche pagine del Capitale si ha inoltre un’innegabile eco spinoziana. Nell’Urtext è ad un Hegel giovane che Marx si collega, un Hegel che gli era sconosciuto, quello che s’interrogò a fondo sulla Gemeinwesen, in particolare quella greca; e al di là di Hegel, Marx si collega sotterraneamente a una quantità di uomini come Gioacchino da Fiore, Niccolò da Cusa ecc.2
Autonomizzazione del valore di scambio, comunità, rapporto Stato-equivalente generale, definizione del capitale come valore in processo, tali sono i punti essenziali affrontati nell’Urtext. Non gli sono esclusivi, perché li si ritrovano nei Grundrisse e nel Capitale. Tuttavia in questo testo lo studio è piú sintetico e i diversi argomenti sono affrontati simultaneamente; ed essi sono rilevanti, soprattutto per ciò che riguarda l’autonomizzazione e la comunità. Nel Libro primo del Capitale invece l’esposizione è piú analitica.
Nel complesso, per quanto riguarda la comunità, Marx fa, nelle opere pubblicate mentre era in vita, il seguente ragionamento: la distruzione della vecchia comunità a causa dell’autonomizzazione del valore di scambio, distruzione che permette pure l’autonomizzazione dei diversi elementi costitutivi (individuo, politica, religione, Stato), costituisce il punto di partenza di un ampio movimento, del quale profitta la borghesia per svilupparsi.
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Il declino di SWIFT: come le potenze globali stanno sfuggendo alla trappola del dollaro
di Aidan J. Simardone*
Gli USA hanno trasformato SWIFT in un’arma per punire i nemici, ma ora alleati e avversari stanno costruendo vie di fuga dal sistema finanziario globale dominato dal dollaro.
La militarizzazione della finanza globale è diventata un pilastro della politica estera americana. Al centro di tutto c’è il controllo di Washington sul Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (SWIFT), un servizio di messaggistica finanziaria un tempo considerato neutrale, ma oggi apertamente utilizzato per imporre sanzioni occidentali e isolare i rivali.
Mentre il presidente Donald Trump minacciava punizioni economiche per i Paesi che abbandonavano il dollaro, i suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca hanno registrato il crollo più forte della valuta dall’era Nixon. Quel momento simbolico ha coinciso con un cambiamento globale già in atto: l’accelerazione degli sforzi delle nazioni per ridurre la dipendenza dalle infrastrutture finanziarie controllate dagli USA.
Oggi, una coalizione sempre più ampia di Stati – alcuni sanzionati, altri semplicemente cauti – si sta allontanando dal dollaro e dalla rete SWIFT, abbracciando nuovi sistemi finanziari che promettono di operare fuori dalla portata di Washington.
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La follia bellica Ue e l’arma di Čechov
di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano» ha chiesto a Barbara Spinelli di ampliare il suo intervento alla manifestazione dei 5Stelle contro il riarmo, tenutasi il 5 aprile a Roma. Il testo è stato pubblicato il 9 aprile 2025
Vorrei parlare del nuovo bellicismo europeo e dei suoi fondamenti: l’ignoranza, la menzogna, l’avidità del complesso militare-industriale. L’ignoranza per prima, abissale e volontaria, di quel che vuole ed è la Russia, di quel che sono gli Stati dell’Est europeo usciti dall’Urss con un pensiero dominante: vendicarsi della Russia.
E se possibile smembrarla, come sostenuto da Kaja Kallas, Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, ex premier nota per l’oppressione in Estonia delle minoranze russe.
E ancora: ignoranza della guerra degli ucraini, di come l’hanno persa nonostante fosse stata preparata fin dal 2014, e poi condotta, dai servizi e dai militari Usa. La verità è che Trump sta gestendo la prima grande sconfitta occidentale contro una potenza nucleare (anche la guerra dei dazi è gestione di una sconfitta). L’Occidente intero è alle prese con una disfatta, anche se l’Europa occidentale si benda gli occhi e fa finta di niente.
Certo, all’inizio fu legittima resistenza all’invasore, ma le cose sono cambiate. Si moltiplicano i reportage, anche ucraini, sulle diserzioni dei giovani, su una generazione perduta, sugli arruolamenti forzati: ti acchiappano per strada con un bus e ti sbattono al fronte o ti riempiono di botte (si chiama bussificazione). Nella Resistenza non succedeva. Infine la bugia sull’Ucraina compatta: è invece divisa, col Donbass che parla russo (lingua proibita dal 2019) e anche se non approva Putin resta etnicamente russo.
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Che differenza c'è tra la Grecia e la California
di Andrea Fracasso, Roberto Tamborini
Recentemente la California è andata sull'orlo della bancarotta nella totale indifferenza dei mercati finanziari. Perchè il peggioramento dei conti pubblici della Grecia ha scatenato una bufera, non solo contro i titoli di stato greci, ma persino contro l'euro? La differenza tra la California e la Grecia è Washington.
Solo una decina di anni fa l’espressione irriverente “Club Med” veniva utilizzata dagli investitori internazionali per indicare gli Stati dell’Europa meridionale ritenuti più deboli e vulnerabili alle crisi economico-finanziarie. I paesi in questione erano Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Durante l’epoca d’oro della finanza mondiale, iniziata alla fine degli anni ‘90 e terminata nel 2007, questo e altri termini spregiativi sono lentamente caduti in disuso, lasciando il posto ai più positivi acronimi per indicare i paesi emergenti e di successo (prima tra tutti la sigla BRIC - Brasile, Russia, India e Cina). Con la crisi finanziaria iniziata nel 2007, tuttavia, i paesi del Club Med sono tornati nel centro del mirino e un vecchio termine spregiativo, l’acronimo “Pigs”, è stato adottato per rappresentarli. Cedendo alla potenza delle sigle inglesi ma avanzando minor benevolenza circa le condizioni di salute finanziaria di Irlanda e Regno Unito, altri investitori hanno proposto di allargare il club a questi due Stati e conseguentemente di aggiungere una “i” e un “g” alla sigla (Piiggs).
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Vogliamo lasciarci alle spalle la vicenda pandemica?
di Andrea Zhok
Negli ultimi giorni, su pagine di cui ho stima, sono comparsi alcuni testi il cui senso di fondo – senza fare giustizia delle argomentazioni differenti – può essere riassunto in questi termini: “Lasciamoci la vicenda pandemica alle spalle una volta per tutte. Sono stati commessi errori, certo, ma continuare a ogni pie' sospinto a tornarvi sopra finisce per nutrire il settarismo dogmatico di una minoranza, e ciò rende difficile occuparsi di altri temi, più urgenti e importanti.”
Vorrei di seguito spiegare, nel mondo più conciso possibile, perché credo che questo appello, per quanto comprensibile, sia sbagliato.
Parto dal perché lo ritengo comprensibile.
È indubbio che nelle pieghe della critica alla gestione pandemica si sono incistati argomenti di livello molto diverso ed è emersa una tendenza al settarismo. È sicuro che, essendo stato per alcuni un forzoso “momento di sveglia politica”, esso è divenuto per quelli una sorta di paradigma con caratteri di unicità, il che è una forzatura. Ed è certo che la tendenza a vedere tutti gli eventi con occhiali forgiati dalla vicenda pandemica tende a creare, talora, una ripetitività fastidiosa (e anche controproducente per una stessa riflessione sul passato).
Tutto questo lo condivido e dunque capisco il moto di impazienza che può aver alimentato quelle pagine.
Ci sono però ragioni sostanziali per cui penso sia profondamente sbagliato ogni tentativo di “lasciarsi alle spalle” il problema. Nomino, senza pretese di esaustività, tre ragioni, nell’ordine.
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Lo scioglimento dell'euro, un'idea che si imporrà nei fatti
Jacques Sapir
Dal sito RussEurope di Jacques Sapir alcuni risultati dello studio "Scenari di scioglimento dell'euro": non sarebbe una catastrofe, ma un salva-vita. Inoltre Sapir illustra l'ipotesi di una moneta comune
Dalla fine della primavera, dai paesi dell'Europa meridionale ci arriva un concerto di "buone notizie". La crescita dovrebbe tornare in Portogallo e in Spagna, come anche in Grecia. I tassi rimangono ad un livello considerato "ragionevole". In breve, la crisi nella zona euro sarebbe dietro le spalle. Tuttavia, a un esame più attento, si può mettere seriamente in dubbio la realtà di queste affermazioni.
Siamo fuori dalla depressione?
In queste affermazioni ci sono molte manipolazioni, ma anche un po' di verità. Cominciamo con il poco di verità che contengono. Sì, la crisi sta toccando il fondo. Ciò è evidente in Spagna, dove la disoccupazione ora sembra essersi stabilizzata, anche se ad un livello molto alto (25 % della forza lavoro). Negli ultimi mesi sembra che non ci sia un peggioramento, ma questo è lontano dal corrispondere a un'uscita dalla crisi. Aggiungiamo che molte nuvole nere si profilano all'orizzonte: il credito è ancora in fase di contrazione (soprattutto in Italia e Francia), gli investimenti sono ancora scarsi (e quindi le prospettive di crescita futura).
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La guerra capitalista
di Roberto Romano
Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli: La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, 2022
La guerra capitalista di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, arricchita dalla postfazione di Roberto Scazzieri, riprende e attualizza una delle più importanti tesi di Marx: la tendenza verso la centralizzazione del capitale, “una tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani, che disgrega l’ordine liberaldemocratico e alimenta la guerra militare tra nazioni”. Come sottolineano gli autori nella introduzione, all’interno del libro viene spiegato e approfondito “il legame tra centralizzazione capitalistica e assedio alla democrazia” (p. 9). L’intuizione di Marx relativa al processo di centralizzazione dei capitali viene pertanto trattata e approfondita alla luce delle recenti dinamiche economiche internazionali. La forza della legge relativa alla centralizzazione del capitale viene aggiornata e sistematizzata grazie alla network analysis. Gli autori calcolano un nuovo indice di network control che misura la percentuale degli azionisti detentori dei pacchetti di controllo della parte preponderante del capitale azionario quotato nelle borse (p. 99-137). In tal modo è possibile pervenire al “valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107) .
Attraverso l’impiego di un modello vettoriale autoregressivo bayesiano (che viene ben spiegato in modo molto chiaro nella appendice a cura di Milena Lopreite e Michelangelo Puliga) Brancaccio, Giammetti e Lucarelli possono mettere in relazione la politica monetaria delle Banche Centrali con gli indici di centralizzazione precedentemente ricavati: una politica monetaria restrittiva, cioè un aumento dei tassi di interesse, “conduce a una riduzione del net control, ovvero alla riduzione della frazione di azionisti di controllo del capitale” (p. 124).
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Il medioevo prossimo venturo
di Giorgio Agamben
Un passo del libro di Sergio Bettini su L’arte alla fine del mondo antico descrive un mondo che è difficile non riconoscere come simile a quello che stiamo vivendo. «Le funzioni politiche sono assunte da una burocrazia di stato; questo si accentua e si isola (precorrendo le corti bizantine e medievali), mentre le masse si fanno astensioniste (germe dell’anonimato popolare del Medioevo); tuttavia entro lo stato si formano nuovi nuclei sociali intorno alle diverse forme di attività (germe delle corporazioni medievali) e i latifondi, divenuti autarchici, preludono all’organizzazione di taluni grandi monasteri e dello stesso stato feudale».
Se la concentrazione delle funzioni politiche nelle mani di una burocrazia statale, l’isolamento di questa dalla base popolare e l’astensionismo crescente delle masse si attagliano perfettamente alla nostra situazione storica, è sufficiente aggiornare i termini delle righe successive per riconoscere anche qui qualcosa di familiare. Ai grandi latifondi evocati da Bettini corrispondono oggi gruppi economici e sociali che agiscono in modo sempre più autarchico, perseguendo una logica del tutto svincolata dagli interessi della collettività e ai nuclei sociali che si formano dentro lo stato corrispondono non solo le lobbies che operano all’interno delle burocrazie statali, ma anche l’incorporazione nelle funzioni governamentali di intere categorie professionali, come in anni recenti è avvenuto per i medici.
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La nuova era oscura
di Chris Hedges per scheerpost.com del 18 maggio
IL CAIRO, Egitto — Ci sono 320 chilometri da dove mi trovo al Cairo al valico di frontiera di Rafah per Gaza. Parcheggiati nelle aride sabbie del Sinai settentrionale, in Egitto, ci sono 2.000 camion carichi di sacchi di farina, cisterne d’acqua, cibo in scatola, forniture mediche, teloni e carburante. I camion sono fermi sotto il sole cocente, con temperature che raggiungono i 36 gradi.
A pochi chilometri di distanza, a Gaza, decine di uomini, donne e bambini, che vivono in tende rudimentali o in edifici danneggiati tra le macerie, vengono massacrati quotidianamente da proiettili, bombe, attacchi missilistici, proiettili di carri armati, malattie infettive e dalla più antica arma di guerra d’assedio: la fame. Una persona su cinque rischia la fame dopo quasi tre mesi di blocco israeliano di cibo e aiuti umanitari.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha lanciato una nuova offensiva che sta uccidendo più di 100 persone al giorno, ha dichiarato che nulla impedirà questo assalto finale, denominato Operazione Carri di Gedeone.
Non ci sarà “alcun modo” per Israele di fermare la guerra, ha annunciato, anche se i restanti ostaggi israeliani venissero restituiti. Israele sta “distruggendo sempre più case” a Gaza. I palestinesi “non hanno un posto dove tornare”.
“L’unico risultato inevitabile sarà la volontà dei cittadini di Gaza di emigrare fuori dalla Striscia di Gaza”, ha detto ai deputati durante una riunione a porte chiuse trapelata. “Ma il nostro problema principale è trovare paesi che li accolgano”.
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La conricerca contro l’industrializzazione dell’umano
di Emiliana Armano e Devi Sacchetto
Breve nota sul convegno: “Romano Alquati. Immagini e percorsi soggettivi e collettivi di una ricerca”
Romano Alquati, instancabile ricercatore scalzo, attivista politico e intellettuale, analista della soggettività, dei processi di soggettivazione e della composizione di classe, esponente di spicco del pensiero operaista è morto a Torino il 3 aprile del 2010. Una giornata di convegno,[1] a un anno circa dalla sua scomparsa, è stato organizzato da compagni, amici e colleghi, insieme al “Cantiere per l’autoformazione”, una struttura composta da dottorandi e studenti dell’Università di Torino. Il convegno è stato l’occasione per riflettere tra i protagonisti di una storia e di una esperienza collettiva, ma anche per indagare che cosa essa può offrire ai giovani studenti e operai.L’itinerario personale, politico e intellettuale di Romano Alquati si intreccia indissolubilmente con la storia del secondo dopoguerra, quando una generazione di militanti misero in secondo piano l’importanza della propria professione e per sopravvivere cercarono occupazioni in grado di “servirci anche per la nostra militanza politica!”. Essi diedero vita a una modalità nuova di fare politica che fece da spartiacque anche per le successive generazioni, sino a oggi.[2]
L’intento degli organizzatori non era di proporre una visione unitaria, coesa delle categorie alquatiane, ma al contrario di dare spazio ai piani molteplici del discorso: politico, teorico, emotivo ed esistenziale. Nell'incontro è prevalso un taglio biografico e narrativo, affrontando anche alcune delle tematiche teoriche che Alquati aveva caparbiamente portato alla luce.[3] La potenza della macchina narrativa ha consentito una riappropriazione collettiva della storia che i convenuti avevano vissuto e sulla quale, anche individualmente, avevano riflettuto.
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Sul panico morale e il coraggio di parlare
Il silenzio dell’Occidente su Gaza
di Ilan Pappé*
Le reazioni del mondo occidentale alla situazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania sollevano una domanda inquietante: perché l’Occidente ufficiale, e in particolare l’Europa Occidentale ufficiale, è così indifferente alle sofferenze dei palestinesi?
Perché il Partito Democratico negli Stati Uniti è Complice, direttamente e indirettamente, nel sostenere la Disumanità quotidiana in Palestina, una Complicità così evidente che probabilmente è stata una delle ragioni per cui ha perso le elezioni, poiché il voto arabo-americano e progressista negli Stati chiave non poteva, e giustamente, perdonare all’amministrazione Biden il suo ruolo nel Genocidio nella Striscia di Gaza?
Questa è una domanda pertinente, dato che abbiamo a che fare con un Genocidio trasmesso in diretta che ora si è rinnovato sul campo. È diverso dai periodi precedenti in cui l’indifferenza e la complicità occidentale sono state dimostrate, sia durante la Nakba che nei lunghi anni di Occupazione dal 1967.
Durante la Nakba e fino al 1967, non era facile reperire informazioni e l’oppressione successiva al 1967 è stata per lo più graduale e, come tale, ignorata dai media e dalla politica occidentale, che si sono rifiutati di riconoscerne l’effetto cumulativo sui palestinesi.
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Ucraina, l’ignavia dei 4 volenterosi
di Barbara Spinelli
Ancora non è chiaro se i negoziati fra Kiev e Mosca riprenderanno, a Istanbul, dopo un primo accordo sullo scambio di 1000 prigionieri di guerra –il più ampio dal 2022.
È invece chiaro che qualora riprendessero, ricominceranno lì dove a fine aprile 2022 erano falliti: furono interrotti non tanto a causa del massacro russo a Bucha, venuto alla luce senza che le trattative si bloccassero, ma perché Washington e Londra imposero a Zelensky la continuazione di una guerra che sembrava promettere immani sconfitte russe.
Le cose non andarono così: nel settembre 2022 le truppe russe annettono quattro province lungo il Mare di Azov e il Mar Nero e continuano ad avanzare nel Sud e Sudovest ucraino. È probabile che vogliano assicurarsi altre città ritenute cruciali prima di negoziare, come analizzato dallo studioso Alessandro Orsini. Zelensky essendo perdente ha fretta, dunque insiste sull’incontro diretto col Presidente russo. Putin non ha fretta.
Se le trattative riprenderanno, si dovranno ridiscutere punti patteggiati tre anni fa, ma in condizioni ben peggiori per Kiev. Allora ci si accordò sulla neutralità militare ucraina ma non si parlò di territori (se si esclude la Crimea annessa da Mosca nel 2014, che gli occidentali considerano sacrificabile di fatto se non di diritto). Oggi di territori si deve parlare, dopo l’annessione delle quattro province. Quanto alla Crimea, Trump (ma non l’UE) ha detto che riconoscerà il suo accorpamento alla Russia.
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Il Quarto Stato del Capitale
di Rossana Rossanda
La lotta di classe non è finita, così come non sono scomparse le classi sociali. L'ultimo libro di Luciano Gallino per Laterza sgombra il campo da molte erronee convinzioni che hanno orientato le politiche delle sinistre. Ma è anche un invito a guardare con lucidità la crisi del pensiero critico, che non può invece essere aggirata proponendo soluzioni che non scalfiscono la religione del libero mercato. Con un titolo provocatorio, parole che le ex sinistre italiane non hanno il coraggio di pronunciare, Luciano Gallino ha chiamato il suo ultimo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, pp. 212, euro 18).
Quante volte sentiamo dire «la lotta di classe» non c'è più? Non esistono più le classi sociali? Non ci sono più una destra e una sinistra? Dov'è oggi l'operaio? A che servono i sindacati? Come si può pretendere oggi un posto fisso per la vita? E poi, che noia il posto fisso!». Eccetera. E da queste asseverazioni parte Gallino nel dare al suo lavoro la forma di un'ampia intervista alla sociologa Paola Borgna, definendole come sciocchezze, ideologia, falsa coscienza della società. Mai infatti il capitale ha messo al lavoro tanti milioni di persone come oggi con l'estensione dell'economia mondializzata. Mai come oggi l'innovazione tecnologica ha permesso di ridurre il lavoro degli uomini su ogni segmento del produrre, aumentandone la produttività, non già per liberare il lavoratore dalla fatica ma per ridurne il costo al produttore. Mai la tecnologia della comunicazione gli ha permesso come ora di conoscere in tempo reale dove si trovano le forze di lavoro il cui costo è più basso. Mai come ora, organizzate in megafusioni e saltando da investimenti in produzione a quelli sulla finanza e viceversa, i mezzi di cui dispone gli permettono di spostarsi dove la forza di lavoro costa meno, lasciando a terra la manodopera di cui aveva bisogno per esempio in Europa, dove i lavoratori avevano conquistato da un secolo salari e diritti maggiori.
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Kiev, in difesa dei principi liberali
di G. P.
Chi annava a immagginà che ne la mente je ce covava er libbero pensiero, o, pe’ di’ mejo, nun ciaveva gnente?” (Trilussa)
Mentre il vecchio mondo unipolare scricchiola travolgendo la propaganda di ieri, i nostri intellettuali di servizio si danno da fare per sgombrare le macerie delle loro stesse narrazioni diventate d’un tratto un ingombro imbarazzante. Fino a ieri la democrazia partecipata era il mantra che ci distingueva dalle tirannie, ma ora che il popolo non ne vuole sapere di rischiare la pellaccia per slogan vuoti e consunti, fanno tutti dietrofront e spiegano che il popolo non capisce, che non tocca a lui decidere della guerra e della pace, di ciò che è giusto o sbagliato, morale o immorale.
All’improvviso anche la parola “liberale” va ristretta, reinterpretata, resa essenziale e stringente, direi dittatoriale. Si avvera la profezia di Trilussa: in fondo, liberale non vuol dire niente, e chi ha in testa il libero pensiero, alla fine, nun pensa gnente, o meglio si adatta a quel che serve. Come si dice in questi casi, additare le dittature altrui serviva solo a distrarre dalla propria.
Si moltiplicano i casi in cui i sinceri democratici iniziano a dubitare dell’efficacia delle elezioni, talvolta arrivando a truccarle apertamente, estromettendo gli avversari scomodi, laddove prima si imbrogliava solo un po’ per aggiustare i risultati, o persino negandole in nome della guerra che non si può fermare per colpa loro. Anche sulla nostra stampa, falsamente equilibrata, si cominciano a porre certe questioni, mentre ci si prepara al mondo di domani, quando al popolo si dovranno far ingoiare ideologie del tutto nuove, visto che quelle vecchie sono fritte.
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Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
di Lavinia Marchetti*
C’è un motivo per cui ho scelto Enrico Mentana come caso di studio. Non perché sia il peggiore, ma perché è il più rappresentativo. Perché nel suo giornalismo si condensa un’intera sintassi dell’egemonia, per dirla con la scuola di Francoforte. Mentana è lo specchio brillante, e dunque deformante, di un sistema mediatico che ha smesso di informare per iniziare a costruire consenso.
L’egemonia, oggi, non si annuncia né si proclama: si installa. Non è una vera e propria censura, ma una selezione. Funziona come una specie di grammatica segreta che ti fa parlare la sua lingua mentre credi di scegliere la tua, la concretizzazione di una pensiero magico in atto. Così il frame diventa destino. E Mentana, in questo sistema, non è il più servile, ma il più raffinato. Il più rappresentativo. È lì che risiede il suo potere: nella perfetta simulazione della libertà, nella competenza a selezionare ciò che può esistere nello spazio della parola pubblica.
La domanda è: “lui ne è consapevole?”. L’intellettuale che dirige opera una specie di sospensione dell’incredulità. Ci crede e non ci crede allo stesso tempo. Il concetto di sospensione dell’incredulità, che nasce in ambito estetico, viene qui trasposto alla politica e al giornalismo: come lo spettatore che decide di credere a una finzione cinematografica per goderne appieno, Mentana sembra stringere un patto ambiguo con la narrazione dominante.
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La città e la metropoli
di Giorgio Agamben
Permettetemi di cominciare con qualche ovvia considerazione sul termine “metropoli”. Esso significa in greco “città-madre” e si riferisce al rapporto fra la polis e le sue colonie. I cittadini di una polis che partivano per fondare una colonia erano, come si diceva, in apoikia – letteralmente in “allontanamento dalla casa”- rispetto alla città, che, nella sua relazione alla colonia, veniva allora chiamata metropolis , città-madre. Questo significato del termine è rimasto fino ai nostri giorni per esprimere il rapporto fra il territorio della patria, definito appunto metropolitano, e quello delle colonie.
Il termine metropoli implica quindi la massima dis-locazione territoriale e, in ogni caso, un’essenziale disomogeneità spaziale e politica, qual è appunto quella che definisce il rapporto città-colonie. Ciò fa nascere ben più di un dubbio sull’idea corrente di metropoli come tessuto urbano continuo e relativamente omogeneo. L’isonomia spaziale e politica che definisce la polis è, almeno in via di principio, estranea all’idea di metropoli.
In questa comunicazione mi servirò, pertanto, del termine “metropoli” per designare qualcosa di sostanzialmente eterogeneo rispetto a ciò che siamo abituati a chiamare chiamiamo città. Vi propongo, cioè, di riservare il termine metropoli al nuovo tessuto urbano che si viene formando parallelamente ai processi di trasformazione che Michel Foucault ha definito come passaggio dal potere territoriale dell’ Ancien régime al biopotere moderno, che è, nella sua essenza, un potere governamentale.
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Le origini culturali della crisi
Alessandro Roncaglia*
Negli ultimi mesi abbiamo sentito ripetere infinite volte che gli economisti non hanno previsto la crisi finanziaria ed economica che ci ha travolto. Perfino la regina d’Inghilterra se ne è lamentata. Di fronte a queste critiche, la nostra professione deve porsi con urgenza almeno tre domande. Primo, a nostra parziale discolpa: cosa significa, nel nostro caso, prevedere un evento? Secondo, a parziale critica della superficialità dei mezzi di informazione: è vero che gli economisti non hanno previsto la crisi? Terzo, e più importante: se, come vedremo, alcuni l’hanno prevista e altri no, da cosa è dipesa la relativa preveggenza degli uni e la relativa cecità degli altri?
La terza domanda ci porterà a una questione fondamentale, che merita certo una trattazione più approfondita di quella possibile in un breve intervento come il mio: la responsabilità di un orientamento culturale tuttora prevalente tra gli economisti – che può essere indicato, sempre in modo necessariamente vago, mainstream, o Washington consensus, o fondamentalismo liberista – nel favorire il formarsi della situazione di cui la crisi sarebbe divenuta uno sbocco inevitabile.
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No logo dieci anni dopo
Naomi Klein
La cultura delle multinazionali non governa solo i centri commerciali. Detta legge a Washington e alla Casa Bianca. E ha creato un presidente-marchio che produce gadget e false speranze. Il cambiamento deve venire dal basso
Nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile delle pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: “Per la prima volta abbiamo il coraggio di affrontare il mondo completamente nudi. Presentiamo una bottiglia senza etichetta e senza logo per veicolare l’idea che l’aspetto esteriore non conta, l’importante è il contenuto”.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea.
Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Tim Pfeiffer, uno dei vicepresidenti dell’azienda, ha spiegato che, a differenza dello Starbucks che occupava prima gli stessi locali, quello era “proprio un piccolo caffè di quartiere”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo, Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio.
Sono passati dieci anni da quando ho scritto No logo: nel frattempo le tecniche di branding sono cambiate e si sono evolute, ma ho scritto molto poco su questi cambiamenti. Il perché l’ho capito leggendo il romanzo di William Gibson L’accademia dei sogni
. La protagonista, Cayce Pollard, è allergica ai marchi, in particolare a Tommy Hilfiger e all’omino Michelin. Questa “insofferenza morbosa e a volte violenta alla semiotica del mercato” è così forte che Cayce fa raschiare i bottoni dei suoi jeans Levi’s per cancellare il logo.
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L’UE prospera sulla paura. Prima il Covid, ora la Russia
di Thomas Fazi
“Tutto ciò suggerisce che le élite occidentali abbiano imparato una lezione importante durante la pandemia: la paura funziona. Se una popolazione viene resa sufficientemente ansiosa – che si tratti di malattie, guerre, disastri naturali o di un cocktail di policrisi che comprenda tutto quanto sopra – può essere indotta ad accettare quasi qualsiasi cosa.”
Nelle scorse settimane, un lieve senso di panico ha indotto l’Unione Europea, con i cittadini esortati a prepararsi all’imminente disastro. Riempite le vostre dispense! Elaborate piani di emergenza! No, non è l’inizio di un mediocre romanzo distopico: è la nuova ”Strategia dell’Unione per la Preparazione” dell’UE. Questa grandiosa iniziativa è progettata, a quanto pare, per proteggere gli europei da inondazioni, incendi, pandemie e, naturalmente, da un’invasione russa su vasta scala.
La strategia trae ispirazione dalla Polonia, dove i costruttori edili sono ora legalmente obbligati a includere rifugi antiaerei nelle nuove costruzioni, e dalla Germania, che sta rilanciando i programmi di protezione civile dell’era della Guerra Fredda con un’app di geolocalizzazione dei bunker. Nel frattempo, la Norvegia consiglia ai cittadini di fare scorta di compresse di iodio in caso di attacco nucleare.
L’UE vuole che i suoi cittadini siano autosufficienti per almeno 72 ore, raccomandando alle famiglie di fare scorta di cibo, acqua, medicine e – perché no ? – carte da gioco e power bank. Perché, naturalmente, se dovesse scoppiare una guerra nucleare, una bella partita a poker e un telefono completamente carico ci basteranno.
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Mario Draghi: il profeta del disastro che continua a predicare il neoliberismo fallito
di Fabrizio Verde
Parla di unità mentre le sue politiche dividono, impoveriscono e svendono il futuro
L’ultimo intervento di Mario Draghi al Cotec di Coimbra è solo l’ennesima dimostrazione di come il tecnocrate neoliberista, nonostante le sue gestioni fallimentari – prima alla BCE e poi come Presidente del Consiglio – continui imperterrito a pontificare su temi economici e geopolitici, come se avesse mai fornito risposte concrete alle crisi che affliggono l’Europa e l’Italia. Il tutto, ovviamente, con un tono moralistico e paternalistico che ormai lo contraddistingue da anni.
Draghi parla di “punto di rottura” nel commercio globale, denuncia la frammentazione politica europea e si lamenta dell’esautoramento dell’OMC, come se fosse stato un difensore del multilateralismo. Peccato che siano proprio le politiche da lui incarnate – liberismo sfrenato, austerity, privatizzazioni selvagge – a essersi mangiate quel fragile equilibrio internazionale e a spingere i Paesi verso azioni unilaterali. La sua Europa, sempre più subordinata agli Usa e alle lobby finanziarie, ha abbandonato i popoli per servire gli interessi delle élite globaliste. E ora pretende di indicare la strada?
Un esempio lampante della sua ipocrisia? Le sanzioni alla Russia: nonostante il loro palese fallimento Draghi in un discorso all’ONU si spinse a dire: le sanzioni "hanno avuto un effetto dirompente".
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Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del Ventunesimo secolo
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
B. Brecht: il comunismo “è la semplicità che è difficile a farsi”.
V. I. Lenin: “l’esito della lotta” (tra comunismo e imperialismo) “dipende in ultima analisi dal fatto che la Russia, l’India, la Cina costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione” (mondiale).[1]
He Yiting: “finché il socialismo cinese non cadrà, il socialismo del mondo starà sempre in piedi. Oggi, il grande successo ottenuto dal socialismo con caratteristiche cinesi ha permesso di scrivere il capitolo più splendido dei 500 anni di socialismo mondiale”.[2]
Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del Ventunesimo secolo
Dopo la celebrazione da parte di Xi Jinping del bicentenario della nascita di Marx un importante dirigente del partito comunista cinese, il compagno Wang Huning, aveva affermato nel maggio del 2018 che il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era ha “arricchito e sviluppato il marxismo con una serie di importanti visioni e pensieri originali e strategici”, ed è il “marxismo nella Cina contemporanea e del Ventunesimo secolo”.[3]
Nel giugno del 2020 l’importante rivista teorica Tempi di studio pubblicò un articolo del vicepresidente della prestigiosa Scuola centrale del partito comunista cinese, He Yiting, nel quale si affermò nuovamente che il pensiero di Xi Jinping equivaleva al “marxismo per il Ventunesimo secolo”.
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