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L'economia keynestana oggi (1977)
di Lorenzo Rampa
ISEDI - Istituto Editoriale Internazionale
Su gentile segnalazione di Lino RossiIl successo di una teoria si misura sulla sua capacità di spiegare alcuni fatti e risolvere alcuni problemi che le teorie precedenti avevano lasciato inspiegati ed irrisolti. Da questo punto di vista quella keynesiana è stata una teoria di grande successo, in quanto ha messo a disposizione strumenti di analisi capaci di spiegare e strumenti di intervento capaci di risolvere le crisi e la disoccupazione.
Per tutti i trent'anni successivi alla pubblicazione della Teoria Generale i Governi dei paesi capitalistici riuscirono a mantenere una situazione di (quasi) piena occupazione mediante politiche keynesiane (spesa pubblica in deficit, stimolo e sostegno degli investimenti, ecc.).
Per gli economisti divenne inevitabile essere "keynesiani": anche per coloro che continuarono ad ispirarsi alla teoria neoclassicache Keynes aveva così puntigliosamente attaccato.
Probabilmente ciò è stato reso possibile, oltre che dal successo pratico delle sue raccomandazioni, anche dalla sua fiducia che, una volta ristabilita la piena occupazione, la teoria neoclassica si sarebbe di nuovo affermata "da quel punto in avanti".
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Nel lungo periodo vince ancora Keynes
di Anna Carabelli e Mario Cedrini
Le ragioni inascoltate del Keynes internazionalista, dietro l'attuale fallimento del sistema di "Bretton Woods 2". La chance dell'Europa: un federalismo per condividere
Se anche fossimo schiavi di qualche economista defunto, per usare una nota espressione della General Theory, non si tratterebbe certamente di Keynes. Ma contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ai tempi della crisi europea e delle politiche nazionali di austerity, è soprattutto del Keynes economista e diplomatico internazionale che non siamo schiavi. Per accorgersene, è sufficiente guardare all’attuale, martoriato, sistema di Bretton Woods 2 come se fosse ciò che in realtà è, e cioè il punto d’arrivo di una storia, quella del non-sistema internazionale nato sulle ceneri dell’originario regime di Bretton Woods. Si è finito col dare per scontata la “normalità” del non-sistema (caratterizzato, come scrisse Williamson nel 1983i, dall’assenza di regole condivise sulla gestione di politiche degli stati membri che comportino ripercussioni significative all’esterno dei confini nazionali), e col fingere che quello nato nella prima metà degli anni Settanta non sia un vero e proprio sistema, sia pur innaturale e perverso. Come se la storia del paradigma del Washington Consensus non sia in realtà quella di un disastroso tentativo di ordine – imposto in particolare e inizialmente ai paesi in via di sviluppo ed emergenti – interamente impostato sulla disciplina (di mercato e degli interessi dei creditori occidentali) e sulla repressione del policy space, un ordine forte e strumentale, funzionale alla realizzazione dell’integrationist agenda portata avanti dalle istituzioni finanziarie di cooperazione sovranazionaleii.
Un ordine che a Keynes non sarebbe piaciuto, per usare un eufemismo. Perché l’intera carriera del Keynes internazionalistico, da Indian Currency and Finance (1913) ai piani per Bretton Woods, è da leggersi come la ricerca di un compromesso sostenibile tra le esigenze disciplinari del sistema e quelle autonomistiche degli stati membri (un vero e proprio “dilemma”, come Keynes lo definì nel Treatise on Money del 1930)iii.
Se fino al Treatise on Money Keynes si era principalmente dedicato al punto di vista del sistema, dai primi anni Trenta in poi sarà l’autonomia di policy nazionale (la “twice-blessed policy” della General Theoryiv, ovvero l’autonomia nazionale nella definizione del tasso d’interesse e del foreign lending) a ispirare i suoi piani di riforma.
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Contro la sinistra neoliberale: il caso Sahra Wagenknecht
Prefazione di Vladimiro Giacché
Sahra Wagenknecht: Contro la sinistra neoliberale, Fazi 2022
“Sinistra” era un tempo sinonimo di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di impegno a favore di coloro che non erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di sinistra voleva dire perseguire l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà, dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro possibilità di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita più facile, più organizzata e pianificabile.
Chi era di sinistra credeva nella capacita della politica di plasmare la società all’interno di uno Stato nazionale democratico e che questo Stato potesse e dovesse correggere gli esiti del mercato. […] Naturalmente ci sono sempre state grandi differenze anche tra i sostenitori della sinistra. […] Ma nel complesso una cosa era chiara: i partiti di sinistra, che fossero socialdemocratici, socialisti o, in molti paesi dell’Europa occidentale, comunisti, non rappresentavano le élite, ma i più svantaggiati.
Credo che i lettori non faranno fatica a condividere questa descrizione proposta da Sahra Wagenknecht nel primo capitolo del suo libro. Questa descrizione è anche il miglior punto di partenza per introdurre quelle che ritengo siano le tesi principali di questo testo, quelle che lo rendono un libro importante e opportunamente scandaloso.
Un tempo la sinistra era questo, in effetti. E oggi? Oggi le cose sono parecchio cambiate. Se un tempo al centro degli interessi di chi si definiva di sinistra vi erano problemi sociali ed economici, oggi non è più cosi.
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I fronti popolari che servono alla guerra della NATO
di Nico Maccentelli
Ci ho pensato molto a pubblicare questo mio contributo, perché so che quanto sta per accadere in Italia, in Francia, un po’ in tutta Europa, come conseguenza delle elezioni europee, vedrà coinvolti il fior fiore di compagni, antifascisti sinceri, che a causa di gruppi dirigenti miopi se non peggio, finiranno nella tonnara preparata ad arte da chi lavora ormai da decenni su “rivoluzioni colorate”, sussunzione di tematiche storicamente proprie di una sinistra dei diritti, con il tridente fondazioni, ong e servizi di intelligence. Non è dietrologia: certe operazioni politiche non nascono per caso. Ma procediamo con ordine.
C’è un articolo su Contropiano di Giacomo Marchetti che è stato ripreso su Sinistra in Rete qui e che rivela gli errori di analisi e quindi di azione politica di buona parte della sinistra di classe a partire proprio dall’area di Potere al Popolo – USB – Rete dei Comunisti.
Il Marchetti fa due operazioni: licenzia come positiva la nascita di un fronte popolare in Francia contro la “peste nera”, sviscerando tutta la panoplia di riforme di questa coalizione: dal salario minimo all’abolizione della legge sulle pensioni e quella sui carburanti fatte da Macron. La seconda operazione è quella di accostare anacronisticamente questo FP ai fronti popolari degli anni ’30.
La mia risposta fatta a commento su di questo articolo del Marchetti è questa:
«È un’analisi completamente scazzata. Il programma sociale è un fuffa, soprattutto agli albori della guerra continentale che è il vero obiettivo delle élite atlantiste e dell’imperialismo che lo vanificherebbe automaticamente.
Questo è il programma di questo “fronte popolare”.
Il vero passaggio politico di questo programma e che interessa e va nella direzione dei poteri atlantisti è questo:
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"Sul compagno Stalin"
di Salvatore Bravo
Sul compagno Stalin testo liberamente scaricabile da una serie di siti tra cui “sinistrainrete” è una intelligente iniziativa politica e culturale, in un tempo, il nostro, in cui la cultura della cancellazione, sta prevalendo in modo ideologico sulla storia, sulla complessità e sulla verità. La riduzione della storia del comunismo a totalitarismo al punto da essere equiparato al nazionalsocialismo dal Parlamento europeo con il supporto della “sinistra degli asterischi e dei soli diritti civili”, ha una funzione determinante nell’associare il comunismo a una “storia criminale”. In tal modo la sovrastruttura determina l’egemonia di classe e insegna ai subalterni a pensare secondo l’unica grammatica possibile: il capitalismo, il quale non è solo “forma merce” ma specialmente è una “forma mentis”. I sudditi del sistema, senza speranza e prospettiva politica, precarizzati e manipolati, lo siamo tutti, si derealizzano, si ritirano così dalla storia del presente e del futuro per essere sospinti nell’eterna sospensione della derealizzazione. Il capitalismo non saccheggia solo le risorse, sospingendo un pianeta intero verso la catastrofe, ma gli uomini e le donne sono predati della loro carne e del loro futuro. Nell’attuale sistema rigorosamente a ”pensiero unico” il giovane medio non ha speranza, pertanto diventa resiliente e non resistente. Non vi sono alternative allo sfruttamento e alla competizione reificante, per cui non resta che adattarsi passivamente al proprio tempo.
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Contro il "politicamente corretto"
di Costanzo Preve
Riteniamo utile pubblicare un denso testo del compianto Costanzo Preve pubblicato nel 2010 dall'editrice Petite Plaisance. Il saggio comparve con questo titolo: «Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante».
Preve aveva visto giusto.
Il "politicamente corretto", nato in certa sinistra liberal nordamericana, è diventato la neolingua ufficiale, quindi prescrittiva, degli oratores (clero) e degli apologeti della modernizzazione capitalistica. Si prescrive infatti non solo come dire e nominare le cose, ma quali cose non si debbono né nominare né dire, pena la scomunica, l'interdizione dal dibattito pubblico.
Lasciamo alla lettura i nostri lettori.
* * *
1. La teoria marxiana dei modi produzione, e del modo di produzione capitalistico in particolare, è generalmente intesa in forma spaziale-topologica, e cioè con un sopra e con un sotto.
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In morte della capacità critica
Il coronavirus, lo stato d’eccezione e la recessione economica (che già bussava nel 2019)
di Ludovico Lamar
Parte prima: Covid-19, statistiche e Sanità. Parte seconda: Media, scienza e stato d’eccezione. Parte terza: Complottismo, economia e prossimo futuro. Conclusioni (provvisorie)
Qua Giordano nomina liberamente, dona il proprio nome
a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso
quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch’ella mostra
aperto; chiama il pane, pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede.
(Giordano Bruno, Spaccio de la Bestia trionfante)
Premessa
L’articolo che segue tratta principalmente dell’epidemia di coronavirus, dei suoi risvolti politici e della situazione economica mondiale dal 2019 ad oggi. Data la situazione eccezionale che stiamo vivendo fra pandemia, misure politiche da stato d’eccezione e un crollo economico di grande portata ci è sembrato necessario analizzare in modo diffuso vari aspetti di tutto ciò, cercando di spiegare come mai in alcuni Stati, fra cui l’Italia, si siano prese certe misure pur nella consapevolezza che la crisi economica che vedremo provocherà probabilmente più morti della stessa pandemia. In modo inedito nella storia è stata fermata l’economia in alcuni Paesi come l’Italia, provocando crolli borsistici peggiori nel primo mese a quello addirittura del primo mese del grande crack del 1929. Fra gli economisti circolano varie teorie: un crollo peggiore del 1929, un crollo similare a quello dell’Unione Sovietica, una recessione a cui poi seguirà un grande rimbalzo, ecc.
Il presente lavoro è diviso in tre parti, più una conclusione: ognuna delle tre parti è leggibile isolatamente e arriva comunque a delle conclusioni inerenti all’argomento trattato.
La prima parte tratta specificatamente della questione del coronavirus, in particolare dai seguenti punti di vista: le posizioni in merito dei vari virologi; l’analisi delle statistiche date dai media; il confronto fra l’attuale diffusione del coronavirus con altre pandemie del passato; i morti in Italia per altre patologie (come l’influenza, le infezioni da batteri non curabili con antibiotici, l’inquinamento, ecc.); la pessima situazione in cui si trova il sistema sanitario nazionale in Italia.
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2012: attacco al Welfare
di Vladimiro Giacchè
È almeno dal maggio del 2010 – allorché la crisi greca, pessimamente gestita dall’establishment europeo, esplose con virulenza – che lo Stato, e in particolare i suoi servizi sociali e le sue prestazioni assistenziali e previdenziali, hanno preso il posto di banche e speculatori sul banco degli accusati per l’attuale crisi. Grazie ad un vero e proprio coro dei principali mezzi d’informazione.
Il Washington Post espresse già allora con ammirevole chiarezza il concetto fondamentale: “Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare state. … Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la stessa prospettiva… I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Ma il necrologio dello stato sociale letterariamente più ispirato uscì il 15 maggio sul Sole 24 Ore, a firma di Alberto Orioli. La sua premessa: “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. La sua conclusione: va messo in gioco “il costoso sistema di protezione sociale pubblica (che ormai aveva incluso anche la gestione dei posti di lavoro statali) che ha incarnato per quasi due secoli l’anima stessa del modello economico continentale. Pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi da antichi referenti di un’Europa politica costruita tra un perenne compromesso tra stato e mercato e tra individuo e società si sfarinano di fronte ai colpi della crisi finanziaria che rischia di diventare crisi di moneta e poi crisi di nazioni”. Ovviamente i “pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi” che “si sfarinano” sono una licenza poetica e grammaticale, ma l’espressione rende comunque abbastanza bene l’idea di quanto sta accadendo un po’ ovunque a causa dei “pacchetti anti-crisi” varati da praticamente da tutti i governi europei.
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Marx e Keynes, per non banalizzare le forme dei conflitti di classe
Giovanni Mazzetti
Può chi si schiera a favore della classe lavoratrice determinare un corto circuito tale da ostacolare lo stesso processo di emancipazione per cui si batte? Purtroppo sì. Come ripete insistentemente Marx, prendendosela con le lotte fallimentari dei suoi contemporanei, una cosa è essere depositari della volontà di cambiare le cose, un’altra è aver sviluppato la capacità di farlo
Nel corso del ristagno quarantennale che stiamo attraversando il movimento ha ignorato questa differenza essenziale, commettendo un errore del tutto analogo a quello dei precedenti rivolgimenti storici. Marx definisce questo errore come un processo di “naturalizzazione” della propria condizione e dei propri bisogni. E’ evidente, infatti, che se nei bisogni che si cerca di soddisfare non c’è alcun problema, e cioè se le condizioni e il significato della loro soddisfazione sono immediatamente intelligibili, la volontà così com’è appare senz’altro un forza adeguata al perseguimento dello scopo. Uno sa quello che vuole e come può ottenerlo, cosicché tutto si riduce ad un “fare” corrispondente, e se le cose non vengono fatte ciò accade per la mancanza di “una volontà politica” di agire. Se invece lo stesso prender corpo del bisogno e le implicazioni della sua eventuale soddisfazione non sono immediatamente trasparenti, perché conseguenza di svolgimenti contraddittori dello sviluppo, che hanno fatto emergere condizioni nuove, che bisogna ancora imparare a metabolizzare, tutto cambia. Come sottolinea Marx nella III tesi su Feuerbach, la modificazione delle circostanze, che si vuole realizzare per soddisfare il bisogno, “coincide”, in questo caso, con un processo di autotrasformazione dell’individualità sociale che solo se interviene può renderla realizzabile.
Il senso comune contro la storia
A partire dalla metà degli anni Settanta è iniziato un processo di logoramento di un potere dei lavoratori che, nei due decenni precedenti, era scaturito dalle lotte di classe (che si concretizzava nel pieno impiego, in salari elevati e in condizioni di lavoro ragionevoli).
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Pašukanis ieri e oggi. Una introduzione
di Carlo Di Mascio
Da Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar Edizioni, Firenze, 2013, pp. 268.
I.
Norberto Bobbio, in un saggio pubblicato nel 1954 dal titolo Democrazia e dittatura, osservava che gli enormi progressi, che l’Unione Sovietica stava in quel tempo compiendo in direzione di uno Stato fondato sul diritto, dovevano in gran parte essere ascritti alla cosiddetta «riscoperta del diritto», e ciò in particolare per merito della scuola facente capo a Vyšinskij, la quale, concependolo «come complesso di norme coattive imposte dalla classe dominante al fine di salvaguardare le relazioni sociali ad essa vantaggiose», si poneva in netta sintonia con quanto tracciato dalla più avanzata dottrina borghese di matrice kelseniana, tendente a considerare il diritto «come una tecnica speciale per la organizzazione di un gruppo sociale (qualunque esso sia)». Ma per Bobbio questi progressi dovevano ritenersi attribuibili anche ad un altro motivo, e cioè alla piena «sconfessione delle dottrine giuridiche estremistiche di Pašukanis e compagni, secondo cui il diritto era una sovrastruttura della società borghese e come tale destinato a scomparire con l’avvento della società socialista»1.
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Vaccini Covid e il paradosso del calabrone
di Leopoldo Salmaso*
Secondo alcuni ingegneri aeronautici il bombo non può volare, però il bombo non legge le loro pubblicazioni e vola lo stesso.
Secondo Pfizer & C. il ‘vaccino’ a RNA messaggero non può modificare il genoma, però il ‘vaccino’ non legge i comunicati di Pfizer e…
Anzitutto alcune precisazioni:
P1. Il proverbiale calabrone non è un calabrone ma un bombo (Bombus terrestris) su cui un secolo fa Antoine Magnan e altri (1) scrissero che non poteva volare in base ai loro studi di aerodinamica.
P2. Il paradosso non è un paradosso, tanto che Magnan dovette correggere i propri studi invece che ‘correggere’ i bombi.
P3. il cosiddetto ‘paradosso del calabrone’ è diventato proverbiale per indicare la presunzione di tanti ‘apprendisti stregoni’ che pretendono piegare la Natura alla loro visione ultra semplificata della realtà.
Con tali premesse, mi propongo di illustrare perché e come un vaccino a mRNA si può comportare come i bombi, ignorando i comunicati Pfizer.
Per sviluppare il contraddittorio, propongo al lettore di proseguire con una fiction processuale:
A (Avvocato accusatore): Chiamo a deporre il dottor Leopoldo Salmaso… Dottore, dica brevemente le sue qualifiche, in particolare per farci capire la sua posizione riguardo ai vaccini.
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Manuel Castells
di Benedetto Vecchi
Intervista con il teorico spagnolo che ha studiato l'«Età dell'informazione». I tentativi di mettere sotto controllo Internet e i mezzi di informazione derivano dal fatto che i conflitti politici volti a definire i rapporti di forza nella società sono diventati sempre più conflitti mediatici
Manuel Castells è uno studioso tanto rigoroso, quanto riottoso a concedere interviste. Preferisce che le sue analisi e riflessioni possono essere ponderate da chi le legge e che vengano misurate sulla «lunga durata» dei fenomeni che studia. La sua trilogia sull'Era dell'informazione (Università Bocconi editore) ha avuto una lunga gestazione - dieci anni - e Castells si è sempre sottratto a chi gli chiedeva se fosse una analisi sul capitalismo digitale, perché ritiene che il «cambio di paradigma» che ha cercato di delineare non riguardava un tipo particolare di società, bensì la concezione stessa di società. Al punto che il terzo volume era interamente dedicato a quelle realtà - la Russia post-sovietica e la Cina post-maoista - che lo studioso catalano ha sempre considerato né socialiste, né capitaliste.
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Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
di Felice Roberto Pizzuti
- Introduzione: la "bomba sociale"
Oramai da molti anni, nel nostro sistema previdenziale sta maturando una vera e propria “bomba sociale” che va affrontata con urgenza[1]. Le sue origini affondano nella combinazione dei cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale a partire dagli anni ’90 e, in particolare, con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo per il calcolo delle pensioni.
Il metodo contributivo, in primo luogo, ha irrigidito il funzionamento del sistema pensionistico: lo ha ancorato alla logica dell’equilibrio attuariale, ma a discapito dell’equità previdenziale; ha uguagliato i tassi di rendimento interni, ma riducendo fortemente le possibilità redistributive. In secondo luogo, da un lato, ha stabilizzato la spesa e, anzi, tende a ridurne l’incidenza sul PIL; d’altro lato, a ciascuna generazione ripropone con più forza per la vecchiaia la stessa distribuzione dei redditi della vita attiva. Non da ultimo, ostacola la possibilità di adattamenti micro e macro delle prestazioni pensionistiche alle condizioni economico-sociali correnti.
A quest’ultimo riguardo, va ricordato che i sistemi pensionistici – pubblici o privati, a capitalizzazione o a ripartizione – pur con diversa trasparenza, svolgono la funzione di redistribuire parte del reddito correntemente prodotto dalle generazioni attive a quelle anziane contemporanee.[2]
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Dove va il welfare italiano
Francesco Ciafaloni
Il sistema pensionistico è quello che determina la vita e la morte delle persone. Si tratta insomma del più rilevante tra i temi politici. Andrebbe affrontato con rispetto e cautela e non con il disprezzo e la superficialità delle discussioni attuali
Si discute di bilanci e di sviluppo, di tagli ai servizi e all'assistenza, di sostenibilità del sistema pensionistico, di linee sindacali. Ci sono però aspetti demografici, pensionistici, assicurativi che saranno certo notissimi ai potenti che decideranno realmente chi colpire e chi difendere, e come, e in che prospettiva agire, ma che mi sembrano assenti dalla discussione pubblica.
Tendenze demografiche e loro conseguenze
Tutti parlano dell’allungamento dell’attesa di vita e della necessità di ritardare l’età della pensione per rendere il sistema sostenibile. In genere si replica, giustamente, che bisogna guardare alla lunghezza della vita in buona salute e che, soprattutto per i lavori manuali, dopo i 50 nessuno ti assume più e che alzare l’età di pensione non vuol dire far lavorare più a lungo ma solo pagare più tardi. Ma le cose non stanno proprio così.
È facile scoprire dai siti Istat e Inps che l’attesa di vita delle donne da cinque anni è sostanzialmente ferma: è diminuita per qualche anno, poi è aumentata di nuovo, oltre i livelli precedenti, ma, tendenzialmente, non cresce più. Certo, l’attesa di vita dei vecchi e dei grandi vecchi, oltre i 65 e oltre i 75, è alta. Ma, quelli, in pensione ci sono già, e ci sarebbero anche nell’ipotesi di allungamento.
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La nuova generazione
di Andrea Fumagalli
Terziario avanzato e lavoro autonomo
Che il mercato del lavoro sia in ebollizione è cosa nota. Non siamo più nei tempi in cui la stabilità del lavoro rappresentava una delle poche certezze della vita. Tuttavia, l’implosione della fabbrica fordista, con il suo carico di gerarchia, comando, subordinazione e alienazione, non ha liberato potenzialità e opportunità di vita migliori. Anzi. Venendo meno la differenza tra tempo di vita e tempo di lavoro, più che liberare la vita, ha fatto sì che essa sia stata sempre più sottomessa al ricatto del lavoro.
Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta, quando le prime strategie di delocalizzazione (outsourcing) e di snellimento della grande fabbrica (downsizing) hanno scomposto l’organizzazione rigida dei siti industriali, prevalentemente situati nel nord-ovest del paese. Nuove filiere produttive si sono evolute in direzione est e sud-est. L’asse pedemontano che da Milano arriva a Trieste, passando per Bergamo Brescia, Verona, Treviso, Udine è diventato uno dei centri della produzione manifatturiera italiana. Parimenti, lungo la via Emilia, verso Bologna e lungo la dorsale adriatica, si è espanso un modello di industrializzazione diffusa, eminentemente metalmeccanico, specializzato nei rapporti di subfornitura con le grandi imprese internazionali.
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La guerra infinita dell'occidente al tramonto
di Carlo Formenti
Qualche settimana fa ho commentato su queste pagine il numero 3 della rivista Limes ("Mal d'America"), dedicato alla crisi egemonica degli Stati Uniti. L'appena uscito numero 4, dal titolo "Fine della guerra" (dove la parola fine va letta sia come il fine - lo scopo - che come la fine), che affronta nuovamente il tema da un altro punto di vista, mi è parso ancora più interessante, per cui credo sia giusto dedicargli un ulteriore riflessione.
Come nel numero precedente, il punto di vista della rivista, pur critico nei confronti della (assenza di) strategia che caratterizza il modo in cui Stati Uniti ed Europa affrontano la duplice sfida di Russia e Cina, non è anti-occidentale. Si tratta piuttosto del tentativo di iniettare nel bagaglio ideale del blocco atlantico una robusta dose di realismo. Nel numero 3 si citavano come campioni di tale approccio personaggi quali George Kennan ed Henry Kissinger, due "monumenti" di un pensiero conservatore che mira al contenimento del nemico senza innescare una catastrofica Terza Guerra Mondiale. Nel numero 4 l'approccio viene riproposto, ma l'obiettivo di "moderare" il conflitto senza rinunciare ai propri obiettivi è qui associato, più che all'esempio di singole figure storiche, al paradigma di una disciplina, la geopolitica, che "educa al limite, frena le pulsioni più sconsiderate dei contendenti mentre li include nella stessa equazione in ossequio al principio di realtà" (la citazione è tratta dall'editoriale, cui mi riferirò qui in prevalenza, introducendo spunti da altri articoli che ne condividono lo spirito, mentre ignorerò quelli che esibiscono toni affini al mood propagandistico della stampa mainstream).
Parto da una affermazione cruciale contenuta nell'editoriale: oggi la guerra non può più essere razionalizzata dal paradigma di Clausewitz, che la definiva come la continuazione della politica con altri mezzi. Il modello non funziona più perché la guerra "si è emancipata dalla politica".
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La crisi, Keynes, la decrescita
Giorgio Lunghini
Proibire la guerra e ogni strumento bellico, cambiare radicalmente stile di vita, evitare sprechi energetici, rinunciare a mode e prodotti inutili. Siamo pronti a diventare keynesiani?
Sul manifesto sono frequenti scritti che a fronte della crisi evocano la questione dell'ambiente e dei beni comuni, che come via di uscita invocano la teoria della decrescita, e per i quali Keynes non basta più. Hanno ragione tutti, salvo che su un punto: Keynes non è mai servito, se non come alibi abusivo per forme di keynesismo bastardo o criminale, forse perché il capitalismo non vuole essere migliorato, e per ragioni che aveva ben chiare Kalecki: «Ogni allargamento dell'ambito dell'attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti; ma l'accrescimento dell'occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire il livello dell'occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell'occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l'effetto di una riduzione dei redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico sulla politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l' "atmosfera di fiducia", in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l'occupazione tramite le proprie spese, allora tale "apparato di controllo" perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l'intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della "finanza sana" si fonda sulla dipendenza del livello dell'occupazione dalla "atmosfera di fiducia"».
Infatti Luigi Einaudi, oggi molto di moda, pensava che Keynes fosse un bolscevico. Tuttavia la questione dell'ambiente - ma sarebbe meglio dire: della natura - era ben presente allo stesso Keynes e a un altro autore meno noto ma qui particolarmente autorevole: Georgescu-Rögen; tutti e due autori consapevoli delle premesse tecniche e politiche di un rapporto non disastroso tra capitalismo e natura. Di Keynes ricordo soltanto un passo: «Il secolo XIX aveva esagerato sino alla stravaganza quel criterio che si può chiamare brevemente del tornaconto finanziario quale segno della opportunità di una azione qualsiasi, di iniziativa privata o collettiva.
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"Unione" europea: su cosa (esattamente) siamo chiamati a votare?
di Alberto Bradanini
1. La narrativa dominante propone il mito iconico di un’Unione Europea (UE) che sfiora il campo della religiosità, un mito destinato a sfarinarsi se solo si trovasse il coraggio di scendere sotto la superficie. Pochi lo fanno, i più preferiscono tenersi a giusta distanza, contenti di digerire le quotidiane menzogne per pigrizia, disinteresse o timore di scoprire che quell’imbroglio premeditato merita il cassonetto dell’indifferenziata!
È sufficiente lo sguardo di un adulto normale (nel senso etimologico, vale a dire che rispetta la norma e la logica) affinché la menzogna si sfaldi, facendo emergere la funesta realtà di una gigantesca mistificazione.
La macchina tecnocratica europea, con gli ingombranti deficit di democrazia, viene somministrata a una popolazione priva di consapevolezza (oltre che di strumenti di accesso) da parte di individui deprecabili, i quali - poco importa se consapevoli o meno - si piegano da decenni a un disegno devastatore in cambio di onori, carriere e prebende.
La pervasività di tale intelaiatura devastatrice possiede una portata che in alcuni paesi (l’Italia, ad esempio, mentre Francia e Germania si sono ben guardate di giungere a tanto!) sopravanza persino la dimensione giuridica e valoriale di una Costituzione straordinaria come la nostra, nata, è bene ricordarlo, dalla vittoria su fascismo e nazismo, che mirava alla costruzione di un mondo di pace e avanzamento sociale.
Ma veniamo al punto. Per una decente decifrazione degli accadimenti, vincendo la pratica di luoghi comuni ben più nocivi di un totale analfabetismo, occorre superare la barriera distorsiva che impedisce di incamminarsi sul percorso della comprensione. Un esempio manifesto di raggiro terminologico è costituito dal termine Unione (in corsivo il sostantivo).
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Dalla crisi dei mutui subprime alla grande crisi finanziaria
Francesco Macheda*
I. INTRODUZIONE
La crisi finanziaria iniziata nell’agosto 2007 scaturisce dall’interazione di tre forze: la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la trasformazione bancaria seguita dall’innovazione finanziaria e le politiche monetarie perseguite nell’ultimo trentennio negli Stati Uniti ma non solo. L’abbondante liquidità convogliata nei mercati statunitensi in seguito alla liberalizzazione finanziaria all’indomani del crollo di Bretton Woods, da luogo a un lungo processo di deregolamentazione bancaria che sfocia nel 1999 nell’abrogazione dello Glass Steagall Act – la legislazione varata all’indomani della Grande Crisi del 1929. Il modello di banking che emerge – denominato ‘originate-to-distribuite’ – getta le basi per lo sviluppo di nuovi prodotti finanziari che, assieme alle politiche monetarie espansive adottate dalla Federal Reserve in seguito allo scoppio della bolla dei titoli tecnologici del 2000, accrescono ulteriormente la liquidità in circolazione.
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Assalto all’universalismo
Nerina Dirindin e Gavino Maciocco
Quello che sta accadendo in Gran Bretagna può insegnare qualcosa al resto dell’Europa? E all’Italia? Dove Il quadro è estremamente preoccupante. La crisi economico-finanziaria sta imponendo al nostro welfare revisioni e ridimensionamenti che rischiano di andare oltre il pur necessario contenimento delle inefficienze e il doveroso contributo al risanamento della finanza pubblica.
È possibile che la Gran Bretagna, la culla del welfare state, sia teatro di un assalto senza precedenti all’universalismo?
Per rispondere a questa domanda – si legge in un recente articolo del BMJ [1] - è necessario tornare indietro agli anni 40, quando in Gran Bretagna fa istituito un robusto sistema di welfare universalistico, quello che partorì il Servizio Sanitario Nazionale. Il suo ideatore, Sir William Beveridge, era un parlamentare liberale, ma il progetto fu attuato dal Partito Laburista e continuato dal Partito Conservatore. Le ragioni di un così ampio consenso sono numerose ma la più importante è quella di aver fornito alla gente comune la sicurezza nel caso che il mondo intorno gli dovesse crollare.
C’erano buone ragioni per ricercare la sicurezza. Il popolo britannico era uscito da una guerra che aveva mostrato che chiunque, indipendentemente da quanto fosse in alto nella scala sociale, poteva in un istante trovarsi a terra. La morte e la distruzione della guerra non erano le uniche minacce; una malattia seria poteva mandare in rovina una famiglia. La guerra insegnò alla popolazione la virtù del razionamento del cibo e del combustibile, cosicché in un momento di grave carenza tutti potessero avere accesso ai beni essenziali. Tutto ciò preparò l’opinione pubblica a sostenere con convinzione un sistema di welfare che, finanziato attraverso la fiscalità generale, garantiva a tutti la sicurezza sociale.
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Vizi e virtù dei ceti medi
Alberto Burgio
Quindici anni fa Paolo Sylos Labini pubblicò un agile libretto per attaccare Marx. Tracciava un bilancio che intendeva mettere in mostra il suo errore fondamentale: la previsione che il capitalismo avrebbe scomposto le società in due blocchi, da una parte i capitalisti, dall’altra i proletari. A questa «profezia» Sylos Labini contrapponeva la crescita della classe media, non solo sempre più vasta e articolata ma anche sempre più influente sul piano politico. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Il cosiddetto neoliberismo ha dispiegato i propri effetti, che la crisi dei mutui ha portato alle estreme conseguenze. Forse, considerando il paesaggio sociale dei paesi a capitalismo maturo oggi, Sylos Labini ci penserebbe su due volte prima di mandare Marx in soffitta.
Gran parte dei ceti medi si ritrova a leccarsi le ferite, non ha capitali, gode di protezioni sociali sempre più incerte, non trova lavoro o ha impieghi precari e sottopagati. Ha raggiunto un elevato grado di scolarizzazione, ma sempre più raramente a questo risultato si accompagna un riconoscimento sociale. La crisi storica del capitalismo (il ridursi, da trent’anni a questa parte, dei margini di profitto del capitale produttivo) si riflette nella proletarizzazione dei ceti medi, un processo che sembra andare nella direzione di quanto ipotizzato un secolo e mezzo fa dall’autore del Capitale e che si profila gravido di implicazioni politiche. L’impressione è che molto, in questo nuovo secolo come già nel Novecento, dipenderà dall’evolversi di questo processo.
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Fisco, populismo e lotta di classe in Italia
di Vladimiro Giacchè
Pubblichiamo un interessante saggio di Vladimiro Giacchè uscito sull'ultimo numero di Democrazia e Diritto sulla questione strategica del rapporto tra il sistema fiscale e il conflitto tra le classi
Il problema della tassazione e della fiscalità si trova al crocevia dei più importanti snodi della politica contemporanea. Lo ritroviamo al centro della sceneggiata storica dei Tea Parties statunitensi, tutta rivolta a creare un’artificiosa continuità simbolica con la settecentesca “rivolta del tè” contro le tasse imposte dalla madrepatria inglese alle proprie colonie, affermando però oggi qualcosa di ben diverso, e cioè la libertà contro le tasse, intese come simbolo dello spauracchio del “Big Government”. Lo troviamo al centro delle gigantesche falle del tessuto istituzionale e di governance dell’Unione Europea rivelate dalla crisi attuale, che hanno uno dei principali luoghi d’origine precisamente nella volontà – iscritta nei Trattati – di non assoggettare tutti gli Stati dell’Unione (o almeno dell’Eurozona) ad una medesima disciplina e regolamentazione fiscale. Infine, lo troviamo al centro del discorso ideologico populista e reazionario berlusconiano, di cui rappresenta da sempre uno dei principali punti di forza. Grazie alla capacità di trasfigurare nella forma di una “lotta contro l’oppressione fiscale” quella che è in verità – come vedremo – una delle più efficaci e efferate configurazioni assunte dalla lotta di classe in questo Paese. La cosa migliore è partire proprio dall’esame di alcune delle più caratteristiche enunciazioni del Berlusconi-pensiero sulle tasse.
1. Il fisco nel Berlusconi-pensiero
“Se lo Stato ti chiede più di un terzo di quanto guadagni, c’è una sopraffazione nei tuoi confronti, e allora ti ingegni per trovare sistemi elusivi e addirittura evasivi ma in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità”.
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Con il laburismo italiano vince Marchionne... Ma forse non in Egitto*
di Karlo Raveli
Mentre il capitalmarchionne attacca a livello di classe operaia globale, qui l'abbrutimento cristiano-laburista ci spinge o ci consente di lottare solo al livello del settore (statale) lavoratore (impiegato) della classe operaia. Quindi partiamo già sconfitti. Ciò che poi spiega la funzione reazionaria (rispetto alla lotta di classe) dei sindacati. Tutti, in questa fase, almeno in Italia, Fiom compresa.
Il virus vatican-socialista del laburismo riesce tutt’ora a incancrenire il marxismo italiano, producendo concezioni corrotte della classe antagonista al Capitale. Che è pur sempre al centro del presente e della lotta anticapitalista, Egitto compreso, anche se molte mode ideologiche e paraocchi vari lo sconsigliano. Una classe che, proprio grazie all’infezione laburista, viene definita come classe lavoratrice, permettendosi di fondarla solo sul lavoro, o sul “segreto laboratorio della produzione”, soprassedendo alla condizione (materiale prima di tutto e storica, non si dimentichi) di base da cui sorge: l’alienazione/appropriazione capitalista dei beni comuni, dei mezzi di produzione innanzitutto, ciò che obbliga i più al lavoro salariato.
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Quattro meriti dell'universalismo
di Elena Granaglia
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La ragione addotta talvolta è economica: i vincoli finanziari renderebbero lo stato sociale universalistico insostenibile. Talvolta è più fondamentale. Anche se potessimo permettercelo, l’universalismo sarebbe in molti ambiti da abbandonare in quanto iniquo: perché trasferire risorse a chi di risorse non è privo? Per alcuni, a disturbare sarebbe poi la mera vecchiaia dell’ideale. In questo contesto, vale la pena ricordare brevemente quattro meriti dell’universalismo che, a sinistra, dovremmo più tenere a mente.
Merito 1. Il riconoscimento del carattere assicurativo di molte prestazioni sociali. Nonostante la cautela se non il vero e proprio discredito con cui oggi spesso il termine è utilizzato, la sicurezza è da sempre fonte di benessere per gli individui. I mercati, tuttavia, sono spesso incapaci o, comunque, largamente carenti nell’offrirla. Emblematico è il caso dell’assicurazione sanitaria privata, la quale non è in grado di coprire molti rischi (in primis, non assicura le persone molto anziane per ragioni di selezione avversa e, per tutti, assicura essenzialmente il primo evento rischioso, non i successivi, che tendono ad essere esclusi dal paniere delle prestazioni assicurate). Per i rischi assicurabili, inoltre, è, comunque, assai più costosa della soluzione pubblica per ragioni che nulla hanno a che fare con una superiorità intrinseca in termini di qualità (cfr. il ruolo dei costi amministrativi, incentivi alla moltiplicazione delle prestazioni, maggiori difficoltà di controllo delle rendite dei medici…).
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Perché il liberismo (di destra e di sinistra) non tramonta
A proposito di “Ancora Keynes?!” di Giovanni Mazzetti
di Luca Michelini
1. Attraverso una puntuale critica del pensiero, della politica economica e dei risultati economici del neo-liberismo, il libro di Giovanni Mazzetti Ancora Keynes?! (Asterios Editore, Trieste, 2012, pp. 93, euro 8) propone una salutare interazione tra le riflessioni di Keynes e di Marx, per tratteggiare una sintetica indagine sul “significato” storico della fase attuale dell’economia mondiale, contraddistinta dall’esplosione del deficit pubblico.
Il problema fondamentale dell’economia capitalistica appare essere quello degli sbocchi e i modi attraverso i quali le società avanzate hanno affrontato questo problema individua altrettanti fasi storiche del capitalismo. Dapprima il problema è stato risolto grazie alla nascita del sistema bancario, che crea moneta – al contrario di quanti ritengono che le banche siano semplici intermediari finanziari, meri redistributori del risparmio agli imprenditori – e permette la chiusura del circuito di produzione e di scambio di ricchezza (di beni utili) volto alla realizzazione del profitto.
Grazie a Keynes e alla politiche keynesiane, in un secondo periodo storico il circuito viene chiuso grazie alla spesa pubblica, che diviene volano degli investimenti privati, ancora capaci di generare la piena occupazione.
Con il crescere della disoccupazione tecnologica il quadro cambia drasticamente, perché diviene inevitabile il ricorso al debito pubblico finanziato dalla banca centrale. Non generando occupazione, infatti, il debito non è più ripagabile, poiché l’aumento di reddito che si realizza grazie alla spesa pubblica è esiguo e quindi insufficienti risultano gli introiti fiscali previsti come fonte di appianamento del debito stesso.
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I guru pentiti rileggono McLuhan
Carlo Formenti
Il testo che segue riproduce parte del terzo capitolo del saggio Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, che sarà in libreria il 27 aprile prossimo per i tipi di EGEA. Invece di evidenziare i tagli con puntini di sospensione, si è preferito giuntare le parti estratte tramite interpolazioni ad hoc, per cui il testo presenta alcune varianti rispetto all’originale (sono state eliminate anche le note). Per le tesi dei tre autori citati, vedi Andrew Keen, Dilettanti.com, De Agostini, Milano 2009; Jaron La-nier, Tu non sei un gadget, Mondadori, Milano 2010; Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?, Cortina, Milano 2011
Qualche anno fa rilasciai all’«Espresso» un’intervista nella quale sostenevo che la maggioranza dei blog contenevano patetici esercizi di scrittura spacciati per letteratura sperimentale, oscene esibizioni di emozioni e sentimenti personali, polemiche da bar e auspicavo che questa spazzatura sprofondasse nell’oblio, restituendo alla rete la vocazione di canale di controinformazione. Successivamente ho fatto autocritica, non perché mi sia convinto che i blog siano migliori di come li avevo descritti, ma perché ho capito di avere dimenticato la lezione di McLuhan, secondo cui ciò che importa è l’architettura di un medium, più dei contenuti che veicola: a contare non è che cosa si pubblica bensì la facilità con cui chiunque, anche soggetti privi di ogni competenza culturale e tecnologica, viene messo in condizione di pubblicare.
Prima di celebrare quest’evoluzione come un passo sulla via della «democratizzazione della comunicazione», tuttavia, occorre rispondere al seguente interrogativo: chi «possiede» i contenuti «autoprodotti» dall’utente comune, chi detiene il controllo sui loro effetti politici ed economici?
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Operai della conoscenza
Sergio Bologna
Milano centro, zona Missori, filiale italiana di una multinazionale del fashion. Ci lavora da quattro mesi, dalle 9 alle 18 (ma in genere la gente si ferma un’ora in più) e piace a Luca quel lavoro, 26 anni, laurea specialistica con lode. Non ha voluto fare il dottorato né prendere una borsa per l’Olanda, una terza lingua straniera da imparare gli pareva troppo, in fin dei conti il suo inglese è migliore dell’italiano del capo. Non gli hanno dato una lira e per altri due mesi sarà così, il suo è uno stage, un tirocinio semestrale gratuito, nemmeno un ticket ristorante. Ma l’altro giorno la vice del capo lo chiama e gli fa capire che «piace» alla ditta e alla fine dei sei mesi chissà che non gli venga proposta un’assunzione. A termine, ovviamente. Se tutto va bene e lui ci sta, saranno cinquecento euro al mese per un anno, ma poi magari «salta fuori un indeterminato».
Nel 2009 il 13% dei laureati nelle diverse università lombarde che sono entrati nel mondo del lavoro hanno dovuto passare per la porta stretta dei tirocini gratuiti. Una volta, dopo il tirocinio, c’era «il tempo determinato», oggi nella maggior parte dei casi c’è un altro tirocinio. Fino a ieri si pagava sui settecento/ottocento euro un contratto a termine a tempo pieno, oggi siamo arrivati a cinquecento. Almeno così è nel mondo della cosiddetta «creatività».
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Il potere alienato dalla folla
di Toni Negri
La raccolta di saggi «Il comunismo del capitale» di Christian Marazzi ripercorre le trasformazione del capitalismo contemporaneo dove la finanza è diventata strumento di governo dello sviluppo economico. La dismissione del welfare state e la precarietà dei rapporti di lavoro risultano, così, due momenti della appropriazione privata del «comune». Il libro dell'economista di origine svizzera non si limita, però, a una rassegna dei cambiamenti avvenuti, ma si pone l'obiettivo di fornire strumenti per la trasformazione
Sono stati scritti in un decennio, questi saggi di Christian Marazzi raccolti nel volume Il comunismo del capitale (Ombre corte, pp. 160, euro 23). Hanno il buon sapore che si sentiva nel bel volume che ha reso questo economista di origine svizzere abbastanza noto in Europa e negli Usa: Il posto dei calzini (pubblicato dalla casa editrice Casagrande nella Svizzera italiana e ripreso poi da Bollati Boringhieri). Lì, per la prima volta, il postindustriale era coniugato con la sovversione femminista ed il postmoderno trovava non una voce debole o molle per dichiararsi (come ci avevano abituato i suoi fondatori) ma mostrava i muscoli della rivoluzione sociale.
Leggo qui con voi le prime due parti di questo libro: la prima, «Biocapitalismo e finanziarizzazione» e la seconda, «Il lavoro nel linguaggio». Parto da una questione posta da Marazzi che sembra, a prima vista, bizzarra e mi chiedo con lui: perché i manager sono spesso dislessici? Perché - risponde Christian -se la difficoltà di focalizzare e decodificare i fonemi sviluppa nei dislessici, in generale, la capacità di vedere o percepire molto rapidamente il quadro d'assieme, il contesto nel quale si trovano ad operare i manager trasforma la condizione dislettica nella facoltà di alterare e creare percezioni, organizza un'estrema consapevolezza dell'ambiente nel quale sono immersi. Pensiero ed intuito si applicano insieme su scene multi-dimensionali e qui esprimono potenza e creatività.
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Per una critica dell'immaterialismo storico
Mario Tronti
Ce n’è per tutti, in questo libro di voluta e bentornata «polemica ideologica, al limite del pamphlet», come si esprime lo stesso autore: Carlo Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro. I lettori di «alfabeta2» ne hanno già saggiato un brano nel numero precedente. Ce n’è per tutti i novatori, che sono una tribù, accampata nei deserti dell’Occidente, comunicatori di un senso comune intellettuale di massa, con i suoi riti e miti, le sue credenze, i suoi tecnologici fondamentalismi. Sono gli utopisti, in buona e cattiva fede della rivoluzione digitale, «evangelisti del software libero, teorici dell’economia di rete come “economia del dono”, entusiasti del Web 2.0 come strumento di “democratizzazione” di imprese, istituzioni e mercati», oltre che, naturalmente, profeti di una paradisiaca liberazione dal lavoro materiale.
Colpiti dal fuoco, niente affatto amico, di Formenti, sono qui i novatori della struttura, più sopportabili, certo, degli insopportabili novatori della sovrastruttura. I primi infatti sognano la fine del lavoro sans phrase, in virtù dell’avvento dell’immateriale nel mondo e in attesa – si tratta di pazientare solo qualche giorno – della fine del capitale, qui e ora. I secondi, non sognano, vedono un’economia finalmente libera da lacci e lacciuoli della politica, una società finalmente libera dalle ingerenze dello Stato, e cittadini finalmente liberi dalle tutele dei partiti. Un altro mondo finalmente non possibile, ma reale: meraviglioso intreccio – si dice qui – di neoliberismo e di «taylorismo digitale».
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Una repubblica fondata sull'ozio
In difesa di Keynes
di Luigi Cavallaro
Risparmio, austerità. Il mantra dell'Unione Europea ha valore per gestire un bilancio familiare, ma non indicano nessuna possibile uscita dalla crisi. Un percorso di lettura a partire da un volume dell'economista greco Yanis Varoufakis
«Ha una ricetta per salvare le casse dello stato?», chiesero una volta ad Alberto Sordi. «È una ricetta semplicissima», rispose l'Albertone nazionale: «Si chiama risparmio. Si prendono i conti dello stato e si dice per esempio: tu, magistrato, guadagni un milione al mese di meno; tu, deputato, due milioni di meno; tu, ministero, devi diminuire le spese per la carta, il telefono, le automobili (il che sarebbe anche positivo per il traffico e l'inquinamento), e così via, informando mensilmente gli italiani, alla televisione e sui giornali, dei risparmi ottenuti. Allora si potrebbero chiedere sacrifici a tutti: diventerebbe una gara a chi è più bravo».
Era il 1995 e c'era ancora la lira, ma quella ricetta di politica economica ha lasciato il segno. Si dovrebbe chiamarla Sordinomics, in omaggio alla lingua madre della «scienza triste», perché non c'è dubbio che ad essa si ispirano le prescrizioni dell'Unione europea e, qui da noi, il loro esecutore (alias l'esecutivo) e i suoi tanti corifei, che non mancano un solo giorno d'informarci non solo dei risparmi ottenuti, ma soprattutto di quelli che si potrebbero ottenere se solo non avessimo sul groppone una «casta» di nullafacenti affamati e corporativi.
Nel paese della banane
In effetti, è una constatazione di senso comune supporre che un individuo che si sia indebitato oltre il limite consentitogli dal proprio reddito debba ridurre i propri consumi e risparmiare di più per ripagare gli interessi e il capitale preso a prestito.
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