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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Prima parte: dagli inizi alla NEP
In questa monografia affronteremo per sommi capi altri cambiamenti epocali, che meriterebbero ben altro spazio e approfondimento, riguardanti quella che divenne l’organizzazione non partitica di massa per eccellenza: il sindacato, o profsojùz. Il motivo è presto detto: come anche nel caso dell’emulazione socialista, o di altri argomenti precedentemente trattati, si tratta di concezioni e dati praticamente ignoti, ignorati o comunque non facenti più parte, da decenni, della coscienza collettiva attualmente operante nel nostro emisfero, persino di quella attraversata da una sempre più forte “nostalgia del futuro”. Senza tanti forse, molti di quei pochi “noi” rimasti, sono sin troppo ottimisti nel tracciare traiettorie verso il socialismo, perché normalmente non prendono minimamente in considerazione questi aspetti.
Eppure, nell’improvvisarsi “commissari tecnici” delle rivoluzioni, nell’abbozzare “ricette per le osterie dell’avvenire”, occorrerebbe entrare un attimo nel concreto e, nello specifico, nei meccanismi di quello che è storicamente stato: scopriremmo tanta “concretezza” che ci aiuterebbe, se non altro, per evitare di sbattere la testa due volte contro lo stesso muro. Inoltre, non tenere conto di questa dimensione storica della rivoluzione, equivarrebbe a ridurre tutto il lavoro che stiamo conducendo sulla pianificazione a una costruzione ideale, ipotetica: l’esatto opposto di ciò che fu l’esperimento sovietico, questo tentativo di assalto al cielo condotto da centinaia di milioni di donne e uomini lungo quei decenni. Per questo, bando alle ciance e iniziamo questo viaggio nel pianeta rosso e nei suoi sindacati, affrontando in questa prima parte il periodo dai primordi alla NEP.
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Nulla sara’ come prima. Dieci tesi sulla crisi finanziaria
di Andrea Fumagalli
Il saggio che presentiamo è il risultato di un processo di elaborazione del general intellect di movimento che ha visto la partecipazione di molti compagni e compagne delle rete Uninomade, prima in un seminario svoltosi a Bologna a settembre 2008 e poi a fine gennaio 2009 a Roma. In queste due occasioni, la discussione ricca e variegata sulle ragioni della crisi economica globale e sulle opportunità che ne possono scaturire ha messo in luce un comune orientamento che vale la pena sottolineare.
Non siamo di fronte alla crisi finale del capitalismo, pur essendo questa una crisi sistemica di tipo strutturale e non congiunturale, ma piuttosto ad una crisi di crescita all'interno del nuovo paradigma del capitalismo cognitivo. Una crisi che evidenzia la crisi della governance economica mondiale fondata sul ruolo centrale dei mercati finanziari sia nel sostenere il meccanismo di accumulazione cognitiva che nel determinare la distribuzione della ricchezza.
Proprio perché non vi è più alcuna separazione tra sfera reale e sfera finanziaria, lo spazio di un intervento riformista che definisca un nuovo new-deal istituzionale si èdefinitivamente chiuso. Solo andando oltre la struttura della proprietà privata in nome di una proprietà del comune che riconosca, valorizzi e remuneri la cooperazione sociale (tramite l'istituzione di un basic income) è possibile fuoriuscire dalle attuali secche della crisi.
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Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
di Roberto Buffagni
Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.
L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche delle nazioni e dei popoli. La scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.
Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due:
- Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese)
- Si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).
Chi sceglie il modello 1 fa un calcolo costi/benefici, e sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione. Questa quota è più o meno ampia a seconda delle capacità di risposta del servizio sanitario nazionale, in particolare del numero di posti disponibili in terapia intensiva. A quanto riesco a capire, infatti, il Coronavirus presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%, mi pare) di malati che abbisognano di cure nei reparti di terapia intensiva. Se così stanno le cose, in caso di contagio massiccio della popolazione – in Germania, ad esempio, Angela Merkel prevede un 60-70% di contagiati – nessun servizio sanitario nazionale sarà in grado di prestare le cure necessarie a tutta la percentuale di malati da ricoverarsi in T.I., una quota dei quali viene così condannata a morte in anticipo.
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Il discorso di fine anno di Goofynomics
di Alberto Bagnai
Ecco il discorso di fine anno che avremmo voluto sentire, un discorso impegnativo, certo, ma in questi chiari di luna gli "ascoltatori" ("cittadini", Re Giorgio, si chiamano "cittadine e cittadini italiani") hanno bisogno di analisi chiare ed esaurienti sui più urgenti problemi del paese. (E questo vale anche per l'anti-discorso di Grillo, che avrebbe avuto tutto il tempo, ormai, di studiarsi il ciclo di Frenkel...).
L'audizione del Prof. Bagnai alla Commissione Finanze (che qui trovate completa, con video e commenti) chiude l'anno con un esauriente quadro della situazione economica del paese, che chiarisce in primo luogo la relazione necessaria tra euro ed austerità, e in secondo luogo l'irrazionalità dell'euro per una unione economica, basandosi sui più recenti e autorevoli studi scientifici. E da qui si parte, ignorantia non excusat, non più. Per il 2014 auguriamo una buona presa di coscienza a tutti!
Ringrazio il presidente e ringrazio la Commissione per aver ritenuto di coinvolgermi in questa iniziativa.
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Le tre vite del sionismo (e i suoi supporter italici)
di Paolo De Prai*
Non mi ha stupito che i partiti della pseudo “sinistra” abbiano indetto una manifestazione pro Palestina il 7 giugno, perché erano molti giorni che mass-media e parlamentari, quasi improvvisamente, sono caduti dall’albero del pero e hanno scoperto il massacro a Gaza (e in Cis-Giordania? Silenzio tombale!).
Quella del 7 giugno sarà la manifestazione degli ipocriti, ma su loro torno dopo.
La corsa affannosa che sto assistendo ora è nell’accusare Netanyahu e Likud di quanto avviene e di come il loro Stato sia altra cosa, anzi si riscoprono origini nobili e democratiche nello ‘Stato sionista’.
E’ perciò il caso di rimettere nella loro giusta luce le origini e cosa veramente erano.
Il primo sionismo è quello di Theodoro Herzl, promotore del ritorno degli ebrei in Palestina Mandataria, con l’idea di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, peccato che la Palestina era ed è abitata dai discendenti degli antichi ebrei, nel tempo diventati cristiani o mussulmani o rimasti samaritani insieme anche ad ebrei palestinesi.
Già questa idea (“una terra senza popolo“) rivela la natura razzista del sionismo ed è chiara inquadrandola con i fatti di quel tempo.
L’idea di Herzl e dei sionisti, in un tempo di pogrom e persecuzioni varie (il caso Dreyfus, ecc), era di ritagliarsi un pezzo di impero turco con la complicità occidentale, inglese in particolare (l’Italia se ne ritagliò un pezzo in Libia).
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A chi serve la scuola dell’ignoranza?
di Matteo Saudino*
Che, in Italia, i continui appelli alla meritocrazia non fossero altro che un ideologico feticcio usato per smantellare i diritti dei lavoratori e degli studenti avrebbe dovuto essere chiaro quasi a tutti sin da subito, ma si sa che non vi è peggior sordo di chi non vuole sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere. Inoltre, indicare il dito per non guardare la luna è una tecnica di distrazione di massa sempre attuale e sempre efficace. Pertanto, per anni, il mantra del merito come panacea di tutti i mali italici è stato ripetuto, con vigore misto ad arroganza, dagli esponenti del governo, dai giornalisti e dagli intellettuali che contano perché lavorano e scrivono per testate che contano, o così almeno si dice.
Insegnanti vecchi, migliaia di docenti precari, salari bassi, edifici pericolanti, dispersione scolastica in aumento, classi pollaio, laboratori obsoleti, palestre inagibili: niente… secondo i presidenti del consiglio, i ministri dell’istruzione, le maggioranze di governo e gli opinionisti di grido, tali aspetti erano e sono secondari, se non addirittura irrilevanti (almeno sino a quando non crolla un soffitto o una parete che uccide “accidentalmente” qualche studente e a cui seguono le rituali lacrime di coccodrillo). Il vero, grande e irrisolto problema della scuola italiana sembrava essere, in modo inequivocabile, la scarsa meritocrazia che regnava tra gli insegnanti e gli studenti (nonostante studi internazionali collocassero le nostre elementari e i licei ai primi posti al mondo come percorso formativo).
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La putrescenza del Capitalismo contemporaneo e la teoria del crollo
Antonio Carlo
Parte prima: La putrescenza del Capitalismo contemporaneo
1) L’economia mondiale nel 2012. Disoccupazione, sovraproduzione e crisi della finanza pubblica
Il rimbalzino del 2010 è ormai un ricordo, nel 2011 le cose sono andate peggio1, ed a inizio 2012 la signora Lagarde n. 1 delle FMI dice: “nel 2012 molte delle cose che potevano andare storte sono andate storte”. Lucidità cartesiana si potrebbe dire, e nel 2012 la situazione peggiora ulteriormente. A metà anno, infatti, la Banca Mondiale rende note le sue stime per l’anno corrente: PIL mondiale + 2,5%, ma la crescita sarà concentrata essenzialmente nei paesi emergenti, + 5,1% contro il 6,1% del 2011 ed il 7,4% nel 2010. Leggermente migliori le previsioni del FMI, che però peggiorano nel corso dell’anno: ad ottobre, in concomitanza con l’assemblea annuale di Tokyo, il FMI prevede + 3,3% PIL mondiale, così suddiviso + 1,3% paesi ricchi, + 5,3% paesi emergenti; per l’Eurogruppo siamo a – 0,4% per il corrente anno e a + 0,2% per l’anno prossimo, ciò che qualche bello spirito potrebbe definire “ripresa”.
Ci si potrebbe obiettare, che comunque si cresce anche se di poco, ma allora non si capirebbe il coro da tragedia greca che accompagna questo sviluppo da quattro soldi2, che in realtà è una recessione strisciante e nascosta da cui non si vede via di uscita nel breve e nel medio periodo (nel lungo si sa saremo tutti morti), qualcosa cioè di molto simile ad una depressione.
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Lezioni dalla crisi*
Perché il Parlamento dovrebbe sfiduciare la Commissione
di Alberto Bagnai
Grazie Magdi per l'invito a questo incontro così importante. Vi parlerò in inglese, e in questo c’è un’amara ironia. Perché? Perché l'inglese è la lingua del paese dov'è nata la scienza economica, almeno così come la conosciamo oggi, e che forse per questo motivo non è entrato nell'euro e sta seriamente considerando l'uscita dall'Unione Europea.
È abbastanza paradossale che per poter essere capito dalla fetta più vasta possibile di cittadini europei io debba utilizzare proprio la lingua di questo paese. È una lezione importante per quanti credono che gli Stati Uniti d'Europa siano una possibilità vera, concreta. In effetti la lezione è duplice.
Primo: qui c'è una maggioranza di italiani e la soluzione più democratica sarebbe che io parlassi in italiano. Ma vi do una lezione di politica europea: io appartengo ad un'élite, ne vado fiero, quindi decido per voi e parlo in inglese. E questa è la prima lezione.
Seconda lezione: non sono contro l'Europa. Posso viaggiare in Europa, parlando nelle rispettive lingue con buona parte delle popolazioni che incontro. La prima volta che sono andato in Portogallo mio figlio ha detto a mia moglie: “Questo è il primo paese dove il babbo non parla la lingua locale!”, ed è vero, perché purtroppo non parlo il portoghese e non lo capisco. Ma con l'inglese si può praticamente girare il mondo, e anche l'Europa.
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Abbondanza FRUGALE
Serge Latouche
Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l'ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l'immaginario del pil pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.
Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un'idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del pil pro capite degli economisti. Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un'idea nuova che emerge un po' ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia.
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I mercati finanziari, braccio armato della politica fiscale europea
Rosaria Rita Canale
I paesi dell’Unione Monetaria Europea dopo la crisi finanziaria del 2007 possono ritenersi divisi in due blocchi principali sulla base alla loro capacità di rispettare le prescrizioni di politica fiscale derivanti dal Trattato di Maastricht e di ricollocare i titoli pubblici sul mercato. Da un lato i paesi “virtuosi” e, dall’altro, i paesi cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) a cui viene chiesto di ridurre deficit e debito in modo considerevole al fine di prevenire attacchi speculativi e preservare la stabilità finanziaria dell’Unione valutaria.
La Politica fiscale in Europa ha seguito – nonostante dal punto di vista formale sia rimasta immutata – tre fasi diverse: al principio all’atto della nascita dell’Unione Valutaria nel 1999 appariva estremamente rigida; di seguito si è scelto di essere tolleranti verso i paesi che oltrepassavano i limiti previsti dal Patto di Stabilità a Crescita in caso di particolari difficoltà di crescita (Ecofin 2005) e attualmente è stata annunciata nel Consiglio europeo del 23 e 24 marzo del 2011 una nuova fase di maggiore rigidità.
Il consiglio ha dichiarato che per l’anno 2012 il rapporto deficit/PIL deve rimanere dentro i limiti del 3% e nei casi di elevato debito pubblico, la strategia deve essere molto rigida al fine di consolidare la tendenza riduzione del debito pubblico.
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La crisi capitalistica e le sue ricorrenze
Una lettura a partire da Marx
Riccardo Bellofiore
Introduzione
Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.
Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di metateoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale.
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Fisica. Quando il vuoto è pieno
di Emilio Del Giudice e Giuseppe Vitiello
Il Premio Nobel per la Fisica 2013 è stato assegnato ai fisici Higgs e Englert per la loro previsione teorica, datata 1962, del cosiddetto "Bosone di Higgs", una particella elementare evidenziata sperimentalmente per la prima volta la scorsa primavera al CERN, con il grande contributo di molti fisici italiani. Qual è il senso profondo di tale scoperta, solo apparentemente esotica? Lo hanno spiegato qualche mese prima del Nobel, sulle pagine di Left, i fisici Vitiello e Del Giudice. Riproponiamo anche qui il loro splendido articolo. Buona lettura. La Redazione di Megachip.
Dalla nascita della fisica quantistica, agli inizi del '900, alla recente scoperta del bosone di Higgs. Oggi la materia non è più concepita come inerte. Ed è un vero cambio di paradigma. Che curiosamente ha radici antiche.
La scoperta nel 2012 del cosiddetto "bosone di Higgs" è stata un evento di grande importanza nella storia della fisica contemporanea, il coronamento di uno sforzo tecnologico di grande complessità. L'aspetto che vogliamo qui sottolineare è che questa scoperta conferma la validità di uno schema concettuale che ha rivoluzionato la nostra visione della natura.
Questo approccio rivoluzionario alla comprensione della natura è cominciato agli inizi del '900 con la nascita della fisica quantistica. La materia non era più concepita come inerte, come un insieme di corpi indipendenti, in principio isolabili gli uni dagli altri. La novità è che ogni oggetto fisico, sia esso un corpo materiale o un campo di forze, è intrinsecamente fluttuante in modo spontaneo anche in assenza di forze esterne. Il suo stato di minima energia, chiamato "vuoto" nel gergo dei fisici, non è perciò più lo stato in cui a causa dell'assenza di forze esterne c'è un vuoto di energia, ma è lo stato "pieno" delle fluttuazioni spontanee dell'oggetto dato.
Già nel 1916 Walther Nerst, uno dei pionieri del nuovo punto di vista, avanzò l'ipotesi che le fluttuazioni quantistiche in oggetti fisici differenti potessero sintonizzarsi tra di loro dando così luogo a sistemi complessi aventi un comportamento unitario.
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Il falso mito della Cina capitalista e gli occhi strabici dell’Occidente
di Pino Arlacchi
Ed eccomi qui, di nuovo in Cina per l’ennesima volta. Vengo in questo paese quasi ogni anno da trent’anni. Ho potuto perciò vedere con i miei occhi la stupefacente rinascita di questo Stato-civiltà che ammalia chiunque lo incontri, da amico o da nemico, da alleato a invasore, prima e dopo Marco Polo. Ma è giunto il tempo di fare un inventario dei miei pensieri e dei miei sentimenti verso la Cina, e nelle scorse settimane ho avuto l’occasione di metterli alla prova in una serie di dibattiti ad alta intensità in alcune delle maggiori università del paese. Offro ai lettori un resoconto molto parziale dei temi sui quali mi sono misurato con studenti, professori, dirigenti di partito, giornalisti. Grandi temi, certo, perché tutto è grande nella Cina di questi tempi. E occorrono chiavi di lettura adeguate se non si vuole cadere in balia dei luoghi comuni, delle mezze verità e degli stereotipi. Non c’è un flusso di notizie affidabile su ciò che succede davvero in Cina, su come essa si comporti nella scena internazionale. Credo che la nozione più dura da afferrare per media e governi occidentali è che la potenza cinese attuale poggi su solide basi non-capitalistiche. Il più diffuso luogo comune è quello che pretende di spiegare il miracolo economico della Cina con la scelta di volare sulle ali del capitalismo occidentale per fuggire dall’inferno della povertà estrema in cui essa era piombata dopo la caduta del Celeste Impero. Mao Tse Tung e la rivoluzione comunista del 1949 non sarebbero stati altro che un costoso, eccentrico biglietto di ingresso nella modernità occidentale, perseguita poi fino in fondo secondo una formula autoritaria e nazionalista.
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La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes
Riccardo Bellofiore
Le note che seguono sono nient’altro che appunti, incompleti, sulla ‘socializzazione degli investimenti’: espressione che compare, in modo cruciale, nell’ultimo capitolo della Teoria generale di Keynes. Il termine, negli anni a noi più vicini, è diventato di moda, soprattutto in una certa sinistra (quella che non si sa più come chiamare: alternativa, radicale; certo non di classe). Come di consueto, ciò è avvenuto in modo generico e acritico, all’interno di una troppo confusa ripresa di Keynes. Essendo stato tra quelli che la socializzazione degli investimenti la avevano, per così dire, nel proprio codice genetico da decenni, ma in un senso non poco diverso dalla lettera dell’economista cantabrigense, ciò che proporrò qui è un percorso di lettura (spesso costituito da pure e semplici citazioni, parafrasi), che aiutino ad orientarsi. Seguirà un breve richiamo agli usi che ne ho proposto in passato, ben prima della nuova vulgata in formazione, e qualche considerazione più strettamente teorica e politica.
Keynes
L’ultimo capitolo del libro del 1936 si apre con la affermazione, comprensibile ma limitata e discutibile, che i limiti principali della società economica in cui viviamo son costituiti dall’incapacità di dar vita al pieno impiego (senza l’intervento attivo dello Stato) e da una distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito (se non vi sono interventi correttivi).
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"Ong, il cavallo di Troia del capitalismo globale"
di Sonia Savioli
Presentiamo con molto piacere un editoriale di Sonia Savioli, autrice di "Ong, il cavallo di troia del capitalismo globale", edito da Zambon. Libro che consigliamo caldamente di leggere, rileggere e approfondire nel dettaglio. Il libro che mancava, finalmente c'è: all'interno troverete molte delle risposte che cercavate
Pare che un certo numero di paesi africani non voglia più i nostri abiti usati. Che ingrati! Perché voi pensavate forse che glieli regalassimo. No, non proprio. Glieli vendiamo. Ma, naturalmente, glieli vendiamo per aiutarli, come testimoniano le molto e molte benevolenti ONG che se ne occupano. e infatti rientrano in qualche modo nei nostri "aiuti allo sviluppo".
In che modo, se glieli vendiamo? In uno si quei modi ingegnosi e pieni di fantasia che il capitalismo globale e le sue organizzazioni sovranazionali hanno inventato perché noi comuni mortali si prendano fischi per fiaschi e si viva nella confusione perenne.
Ma cominciamo dall'inizio e cioè proprio dagli "aiuti allo sviluppo". Che hanno il nome giusto e appropriato. Aiutano veramente uno sviluppo, quello delle multinazionali di ogni tipo, alcune delle quali si sviluppano proprio grazie a questi aiuti. Facciamo un esempio, non troppo ipotetico, di un "aiuto allo sviluppo". La Banca Mondiale o/e l'Unione Europea offrono a un paese africano (con una pistola in una mano e una mazzetta di banconote nell'altra, come offerte alternative al governo del non molto ipotetico paese africano) il prestito per costruire delle dighe. L'ipotetico ma non troppo governo africano sceglie la mazzetta e lo sviluppo. Una multinazionale "de noantri", mettiamo l'Impregilo, costruisce le dighe
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John Maynard Keynes
L'economista di cui il mondo ha bisogno adesso
di Peter Coy
Su BloombergBusinessWeek, un elogio delle politiche keynesiane e di John Maynard Keynes stesso, mai così attuale e necessario come oggi, nella crisi da deflazione che, dopo aver affossato l'eurozona, rischia di diventare globale e in cui le ricette economiche supply-side stanno mostrando tutti i loro limiti teorici e ideologici.
C'è un medico in casa? L'economia globale non riesce a crescere, e i suoi custodi stanno andando a tentoni. La Grecia ha preso la medicina prescritta ed è stata ricompensata con un tasso di disoccupazione del 26 per cento. Il Portogallo ha obbedito alle regole di bilancio e i suoi cittadini sono alla ricerca di posti di lavoro in Angola e Mozambico, perché a casa ce ne sono ben pochi. I tedeschi si sentono anemici nonostante il loro enorme surplus commerciale. Secondo Sentier Research, negli Stati Uniti il reddito di una famiglia media al netto dell'inflazione è del 3 per cento inferiore a quello del momento peggiore della crisi 2007-09. Qualunque sia la medicina somministrata, non sta funzionando. Il capo economista di Citigroup Willem Buiter ha recentemente descritto la politica della Banca di Inghilterra come "un pout-pourri intellettuale di fattoidi, teorie parziali, metodicità empirica senza alcuna base teorica solida, presentimenti, intuizioni e idee sviluppate solo a metà." E questo, ha detto, è anche meglio di quello che altri paesi stanno tentando .
C'è un medico in casa, e le sue prescrizioni sono più che mai attuali. È vero, lui è morto nel 1946. Ma anche se appartiene al passato, l'economista, investitore, e funzionario britannico John Maynard Keynes ha molto da insegnarci su come salvare l'economia globale, ben più di quanto possa fare un esercito di moderni dottorati di ricerca dotati di modelli di equilibrio generale stocastico dinamico. I sintomi della Grande Depressione che ha diagnosticato correttamente sono tornati, anche se per fortuna in scala minore (sic!, ndt): disoccupazione cronica, deflazione, guerre valutarie, e politiche economiche "beggar-thy-neighbor".
Una delle intuizioni essenziali e durature di Keynes è che ciò che funziona per una singola famiglia in tempi difficili non funziona per l'economia globale. Una famiglia il cui capofamiglia perde un posto di lavoro può e deve tagliare la spesa per sbarcare il lunario. Ma non tutti possono farlo contemporaneamente quando c'è una debolezza generalizzata, perché la spesa di una persona è il reddito di un'altra.
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Nove volte Stalin
di Eros Barone
«La radio al buio e sette operai / sette bicchieri che brindano a Lenin / e Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile / vola un berretto un uomo ride e prepara il suo fucile / Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa / D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città.»
Stalingrado, Stormy Six.
La ricorrenza del centoquarantesimo anniversario della nascita di Iosif Vissarionovic Giugasvili, detto Stalin (1879-1953), costituisce un’occasione per interrogarsi sul ruolo di una personalità che, dopo aver dominato la scena della politica interna del suo paese e la scena della politica internazionale del mondo intero nella prima metà del ventesimo secolo, ha continuato a proiettare una lunga ombra sugli sviluppi politico-ideologici dei decenni successivi sino ai nostri giorni.
Può allora essere utile ricordare il significato di questo soprannome, gridando il quale (“Sa Stalina!”, ossia “Per Stalin!”) milioni di soldati sovietici combatterono nella Grande Guerra Patriottica, sacrificando la loro vita per difendere il primo Stato socialista del mondo: Stalin, cioè ‘acciaio’, un soprannome che indica due qualità essenziali di questo metallo, la durezza e la flessibilità, e la loro incarnazione in un leader bolscevico che lo stesso Lenin ebbe a qualificare come “quel meraviglioso georgiano” (definizione etnica che compare nel sottotitolo di una bella biografia di Stalin scritta da Gianni Rocca 1 ). Poiché una figura come quella di Stalin non permette di operare un taglio netto fra la leggenda (sia eulogica sia demonizzante), che ben presto si è formata attorno a tale figura, 2 e la concreta funzione storica che questa personalità ha svolto nel “secolo degli estremi”, proverò ad accendere su questo soggetto ad alta tensione interpretativa alcuni ‘flash’ che ne fissano quelli che, secondo il mio giudizio, sono i tratti salienti.
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Marx a Casa Pound?
Scritto da Diego Fusaro
Diego Fusaro risponde alle dure critiche a lui rivolte da Contropiano e Antiper per la partecipazione, poi ritirata, al convegno di CasaPound su Marx[n.d.r.]
Sul “Corriere della Sera” di sabato (15 febbraio, p. 29) ho spiegato che l’aver accettato da parte mia l’invito di “Casa Pound” a discutere a Roma il 21 febbraio del pensiero di Marx ha suscitato un moto d’indignazione in alcuni ambienti antifascisti. Purtroppo, le mie intenzioni di filosofo sono state fraintese in senso politico e sono stato addirittura tacciato di avere simpatie fasciste e quindi, in quanto “nemico del popolo”, condannato all’ostracismo. Ho perfino ricevuto insulti e minacce contro la mia persona e la mia incolumità. Rimbomba una caccia alle streghe di marca staliniana che pensavo fosse stata superata da un pezzo. La buona fede mi faceva sperare in un dialogo serio e pacifico, tra posizioni diverse ma animate dalla volontà di confrontarsi. Questo era lo spirito con cui avevo aderito all’iniziativa. Ma evidentemente non è la situazione opportuna per dialogare con chi la pensa diversamente. Speravo e spero sempre nel dialogo, perché rifiutarsi di dialogare significa perdere in partenza: le idee si sconfiggono con le idee.
Non sono mai stato fascista, né mai lo sarò. Socrate mi ha, però, insegnato a dialogare con tutti.
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Discorso sul colonialismo
Aimé Césaire
Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza.
Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte ai suoi problemi più impellenti è una civiltà ferita.
Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda.
Fatto sta che la civiltà così detta «europea», la civiltà occidentale, così come si è costituita in due secoli di regime borghese è incapace di risolvere i due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del proletariato e il problema coloniale; che deferita alla sbarra della «ragione» come a quella della «coscienza», quella stessa Europa è incapace di giustificarsi; che, quanto più, si rifugia in una ipocrisia sempre più odiosa, tanto più diminuiscono le sue possibilità di ingannare.
L'Europa è indifendibile.
Questa sembra essere la constatazione che scambiano a bassa voce gli strateghi americani.
La cosa in sé non sarebbe grave.
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Genova. Chi non è con noi, è contro di noi
di Emilio Quadrelli
"Le forze imperialiste, come inevitabilmente obbligano le logiche del «politico» siraggruppano portando alle estreme conseguenze la coppia dicotomica amico/nemico dichiarando senza troppi indugi: «Chi non è con noi, è contro di noi!». Emilio Quadrelli analizza i dieci anni dai fatti di Genova 2001 nel recente quaderno “Cogliere l'occasione”, edito dall'Associazione Marxista Politica e Classe
La militarizzazione della vita politica e sociale, il varo di leggi dichiaratamente xenofobe e razziste, uniti a una repressione sempre più assidua e puntigliosa di ogni manifestazione non allineata alle retoriche della «democrazia liberale«1 fino ad un utilizzo sempre più irreggimentato dell'informazione sono lo scenario quotidiano nel quale il nostro paese è immerso. Esemplificativo al proposito il «Decreto sicurezza» approvato il 22 aprile 2009. Un pacchetto legislativo che, oltre agli ormai abituali e «normali» provvedimenti xenofobi e razzisti, legalizza la costituzione delle «Ronde dei cittadini». Una sorta di «milizia civile» riconosciuta dallo Stato per mettere ordine e disciplina all'interno di quell'arcipelago di «ronde spontanee», particolarmente diffuso nelle aree geografiche del Nord Italia ma che sta rapidamente facendo scuola anche in gran parte del territorio nazionale come i fatti di Rosarno hanno dimostrato. In questo modo, lo Stato, compie un ulteriore passaggio verso la mobilitazione, in chiave controrivoluzionaria, delle «masse"
In poche parole l'operazione, che sarebbe sciocco considerare puramente simbolica, mira a rafforzare sul piano politico e militare gli apparati della controrivoluzione contro la possibilità che, dentro la crisi, si manifestino momenti di lotta e insorgenza proletaria.
Un disegno tutt'altro che eccentrico ma che si sintonizza appieno nelle strategie di contro – guerriglia preventiva e controllo dei territori al quale, da tempo, il comando del capitale attraverso le sue strutture politiche e militari è impegnato3 .
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Il disastro italiano
di Perry Anderson
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della UE è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. Ma l’Unione non è un’escrescenza di stati membri che, senza di essa, sarebbero in buona salute. Riflette, tanto quanto aggrava, tendenze di lungo corso al loro interno. A livello nazionale, virtualmente ovunque, dirigenti addomesticano o manipolano le legislature con crescente facilità; partiti perdono iscritti; elettori perdono la fiducia di contare considerato che le scelte politiche si assottigliano e le promesse di differenze durante le campagne elettorali si riducono o svaniscono una volta in carica.
All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.
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Euro, ordo-liberismo e la modifica delle Costituzioni democratiche
A. Bianchi intervista Luciano Barra Caracciolo*
- Gli Stati sono oggi circa 200 e le Organizzazioni internazionali più del doppio. L'azione di quest'ultime è perlopiù esente da alcuna forma di controllo e responsabilità attraverso i consueti meccanismi democratici nazionali. Nel suo libro, inoltre, spiega molto bene la differenza che non viene colta dall'opinione pubblica tra quelle organizzazioni nate per lo sviluppo della pace e della cooperazione internazionale con quelle che, al contrario, hanno fini prettamente economici e che stanno portando ad una riformulazione del vecchio sistema di Westfalia. Come evolverà il rapporto tra Stati ed organizzazioni internazionali e quali sono i meccanismi di difesa rimasti ad i primi?
In un mondo che sostanzialmente vede la diffusione del modello capitalista (liberoscambista) a livello praticamente planetario, i rapporti di forza della comunità internazionale, che una volta erano legati alle cannoniere, sono oggi sul piano esclusivamente economico e legati sempre più alla capacità di penetrazione dei grandi gruppi finanziari internazionali. Non si tratta più di indagare la prevalenza degli stati in sé, ma il modo in cui gli stati collimino, nelle loro scelte, con la classe dirigente mondiale, la famosa oligarchia mondiale e non più con l’interesse nazionale in senso democratico. E su questo il professore coreano di Cambridge Chang nel suo libro “Bad samarhitans” credo offra il punto di vista più lucido.
Molte organizzazioni internazionali sono di fatto oggi dominate dai gruppi economici che utilizzano gli stati per la loro legittimazione formale.
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“A Pechino, in una tranquilla prima mattina, la corona del dollaro è scivolata via”
di Alastair Crooke per conflictsforum.substack.com
“Credo che per comprendere la rivoluzione di Trump dobbiamo partire dall’idea che la sconfitta porti alla rivoluzione. L’esperienza in corso negli Stati Uniti, anche se non sappiamo esattamente cosa sarà, è una rivoluzione. È una rivoluzione in senso stretto? È una controrivoluzione?”
Così ha affermato il filosofo francese Emmanuel Todd nella sua conferenza tenutasi ad aprile a Mosca, “Dalla Russia con amore“:
Questa [rivoluzione di Trump] è, a mio parere, legata alla sconfitta. Diverse persone mi hanno riferito di conversazioni tra membri del team di Trump, e ciò che colpisce è la loro consapevolezza della sconfitta. Persone come JD Vance, il vicepresidente, e molti altri, sono persone che hanno capito che l’America aveva perso questa guerra.
Questa consapevolezza americana della sconfitta, tuttavia, contrasta nettamente con la sorprendente mancanza di consapevolezza degli europei – o meglio, con la loro negazione – della sconfitta:
Per gli Stati Uniti, si tratta fondamentalmente di una sconfitta economica. La politica delle sanzioni ha dimostrato che il potere finanziario dell’Occidente non era onnipotente. Agli americani è stata ricordata la fragilità della loro industria militare. Chi lavora al Pentagono sa bene che uno dei limiti della loro azione è la limitata capacità del complesso militare-industriale americano. “Che l’America sia nel mezzo di una seria rivoluzione, in questo momento – facilmente paragonabile alla fine dell’URSS – è compreso da pochi”. Eppure i nostri preconcetti – politici e intellettuali – spesso ci impediscono di vedere e assimilare la portata di questa realtà.
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Una campagna del mondo del lavoro contro il massacro imposto dall’euro
Intervista di Fabrizio Salvatori a Luciano Vasapollo
Nemmeno il compromesso raggiunto tra Obama e i repubblicani è riuscito a convincere i mercati finanziari. Vuol dire che le modifiche a cui stiamo assistendo sono più profonde di quanto sembrino?
Se dovessi dare un titolo a questa domanda direi “niente di nuovo sul fronte occidentale”. Tutto quello che appare come qualcosa di nuovo come il default degli Usa in realtà va avanti da Bretton Woods del 1971. Con la fine degli accordi gli Usa decidono in base al loro potere potilico e militare di imporre il loro indebitamento come proprio modello di sviluppo basato sull’import facendo pagare il costo agli altri: debito privato, debito pubblico, e consumo sostenuto dal mix tra debito interno ed esterno, avendo molto deboli i cosiddetti fondamentali macroeconomici e una economia reale che già da allora mostrava i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
Cosa è cambiato nell’odierno scenario?
Dopo la caduta del muro di Berlino si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare Usa che con l’imposizione dell’acquisto dei titoli debito Usa in tal modo imponevano il sostenimento della loro crescita basata sull’indebitamento e sull’economia di guerra.
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Lavoro cognitivo
Intervista a Enzo Rullani
1. Se dovesse individuare delle qualità fondamentali per definire la trama del lavoro cognitivo oggi emergente, cosa indicherebbe?
Per identificare le qualità rilevanti del lavoro cognitivo, bisogna innanzitutto capire che cosa è e dove lo troviamo, nei processi produttivi di oggi. Bisogna innanzitutto distinguere il lavoro cognitivo con cui abbiamo a che fare ai nostri giorni (nel contesto della modernità) dal lavoro energetico-muscolare del passato (riferito ai modelli provenienti dall’epoca pre-moderna). In linea generale, possiamo chiamare lavoro cognitivo ogni forma di lavoro che – come output utile – produce conoscenza, usando questa conoscenza sia per generare significati o legami dotati di valore (per gli interlocutori a cui sono rivolti), sia, in altri casi, per governare e avviare trasformazioni materiali realizzate da macchine e da energia artificiale.
Il lavoro energetico invece è una forma di lavoro che usa la forza muscolare per trasformare i materiali, trasportare oggetti pesanti, arare la terra ecc., dando loro una forma utile.
La linea di demarcazione tra le due forme di lavoro, però, è meno ovvia di quello che sembra. Per due ragioni: prima di tutto, anche il lavoro cognitivo dello scienziato, dell’artista, del professore, del tecnico utilizza il corpo e le sue capacità fisiche per produrre/usare la conoscenza; d’altra parte, è altrettanto vero che il lavoro energetico non è soltanto energia allo stato “puro”, ma è sempre energia guidata dall’intelligenza “biologica” dell’uomo-lavoratore, necessaria per rendere efficiente il lavoro di trasformazione realizzato.
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Capitalismo 2013
di Antonio Carlo
1) Premessa. I motivi di un lavoro
Nei miei precedenti articoli sulla crisi mondiale1 ho sottolineato la centralità, quasi oppressiva, dell’economica sulla società nel suo complesso e sulla politica in particolare: una crisi strutturale senza soluzioni possibili, o meglio una depressione che è un crollo graduale già in atto ed irreversibile, produce l’impotenza della politica. Eppure c’è stato un tempo in cui la politica ha avuto un peso notevole negli equilibri della società capitalistica, non nel senso che essa potesse dirigere o pianificare l’economia capitalistico-mercantile, ma nel senso che la politica, lo Stato, sceglievano tra le alternative di sviluppo possibile e compatibili con la logica del capitalismo e del profitto: un esempio per tutti, l’alternativa che caratterizza tutta la storia del XIX secolo tra protezionismo e libero scambio, attorno a cui vi furono conflitti terribili all’interno della classe dominante che in un caso esplosero nella prima guerra dell’era industriale: la guerra di Secessione americana2. Oggi questo non è più possibile perché alternative di sviluppo non c’è ne sono più: gli Stati sopravvivono galleggiando sulla crisi, senza prospettive di medio-lungo periodo, cosa che evidenzio nell’ultimo lungo paragrafo di questo lavoro, dove si pone in luce come nessun Governo sappia in quale modo affrontare la cause della crisi, che appare una maledizione incomprensibile caduta dal cielo,
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Dopo la rivolta
Intervista a Pierandrea Amato*
Lei ha di recente pubblicato un libro, La rivolta (Cronopio), tradotto immediatamente anche in Francia, in cui ipotizza che l’età delle rivoluzioni abbia lasciato il posto a quella delle rivolte. Le pare che gli avvenimenti degli ultimi anni e soprattutto mesi le diano ragione, dalle banlieue ad Atene, da Londra a Roma?
Naturalmente ogni rivolta esprime una propria peculiarità con elementi differenti che non vanno minimizzati. Premesso ciò, credo sia possibile individuare un filo rosso che lega le rivolte che stanno ciclicamente infrangendo la normale esistenza del mondo. Si tratta, per dirla in breve, di un rifiuto politico della politica che emerge con il collasso dei tradizionali centri di governo dell’esistenza ed il fallimento sociale dell’architettura neo-liberale. Il contagio delle rivolte, la loro diffusione a catena, il tratto esemplare che ognuna di esse esprime, mi sembra confermare il carattere politico di queste insorgenze. Nel volume cui lei fa riferimento, in questo senso, cerco di pensare un fondamento onto-antropologico delle rivolte: il declino complessivo del progetto politico moderno, lascerebbe spazio alla manifestazione del carattere naturalmente rivoltante dell’esistenza umana non più imbrigliata in una serie sofisticata e disseminata di dispositivi di controllo. Per questa ragione, come lei dice, il nostro è il tempo della rivolta, quando, cioè, la priorità è l’eliminazione di tutte le istituzioni che concorrono a rendere il mondo un luogo immondo.
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Il collasso degli aiuti a Gaza: non un caso, una strategia
di Davide Malacaria
Le scene apocalittiche dell’assalto agli aiuti umanitari distribuiti a Gaza, nell’area di Tal as-Sultan, “non è stata una tragedia, ma una rivelazione, il disvelamento definitivo e violento dell’illusione che gli aiuti umanitari nascano per servire l’umanità piuttosto che l’impero”. Così Ahmad Ibsais in un articolo di al Jazeera dal titolo: “Il sistema di aiuti di Gaza non è difettoso. Funziona esattamente come programmato” (volevo tagliare, ma è impossibile: la nota è di una intelligenza inusuale).
“Presentato da Israele e Stati Uniti come un modello di dignità e neutralità – continua Ibsais – il nuovo centro di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation si è disintegrato nel caos poche ore dopo l’apertura. Ma non è stato un caso. Era il logico punto di arrivo di un sistema progettato non per nutrire gli affamati, ma per controllarli e contenerli”.
“Mentre la gente affamata di Gaza – costretta ad aspettare per ore sotto il sole cocente, ingabbiata in corridoi stretti tra reti metalliche per ricevere una misera scatoletta di cibo – iniziava ad avanzare in preda alla disperazione, è scoppiato il caos. Il personale della sicurezza – impiegato da un’agenzia sostenuta dagli Stati Uniti – ha aperto il fuoco nel tentativo di impedire un assalto precipitoso [agli aiuti]. Poco dopo, sono arrivati gli elicotteri israeliani per evacuare il personale americano e hanno iniziato a sparare colpi di avvertimento verso la folla. E il tanto reclamizzato centro di raccolta di aiuti è completamente collassato”.
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Le bugie di un usciere neoliberista
Paolo Barnard
“Si faccia curare e non mi importuni più, che ho cose più serie di cui occuparmi”. Marco Travaglio così risponde a un lettore che criticava il suo lavoro sulla base di quanto io ho documentato a fondo. L’usuale arroganza cafona di questo uomo sarebbe solo una sua piaga privata che non ha pubblica rilevanza, non fosse che costui ha “cose più importanti di cui occuparsi”. Ecco di cosa si occupa Marco Travaglio:
Ingannare incessantemente gli italiani in prima serata e sulla stampa per abbattere il governo del politico che non obbedisce alla finanza speculativa internazionale e per riportare in Italia gli uomini del modello Neoliberista anglosassone nel pugno d’acciaio di Wall Street, della City e del Trattato di Lisbona: Il Vero Potere. Riportare cioè a Palazzo Chigi gli affiliati italiani alla Mafia di coloro che hanno “distrutto il 40% della ricchezza planetaria con una frodecriminale” (Matt Taibbi, Democracy Now) e che sono autori di “un colpo di Stato finanziario in piena regola” (Michael Hudson, New Economic Perspectives), cioè Mario Draghi e i notori ‘tecnici’. Questo fa Marco Travaglio, oltre a tacere il motivo per cui lui, Genchi e De Magistris hanno abbandonato di colpo il giudice Clementina Forleo, quella dell’altrettanto abbandonato slogan “Clementinafaccisognare”, la protagonista di un intero capitolo scomparso misteriosamente dalle bozze del noto libro di Genchi, quella soprattutto che aveva messo le mani sul centrosinistra interamente manovrato dal Vero Potere. Non ci è dato sapere se egli esegua ordini discussi con gli uomini che ho elencato nel precedente Aggiornamento, o se semplicemente le sue idee coincidano con le loro. Il risultato è il medesimo, egli funge da loro usciere mediatico in Italia.
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A cosa serve l’epiteto «negazionista» e quale realtà contribuisce a nascondere
di Wu Ming
Video “virali” del tizio o della tizia che gliele canta ai «negazionisti»; titoloni sul pericolo «negazionisti»; invettive contro i «negazionisti»; satira sui «negazionisti», grasse risate! I «negazionisti» sono ovunque, ed è colpa loro se le cose vanno male. Ecco allora i nostri eroi, i prodi che li contrastano, gettando loro guanti di sfida: «Vengano in terapia intensiva, i negazionisti!»
Sono sfide a nessuno, invettive contro fantasmi, colpi sparati nella nebbia. Chi sarebbero i «negazionisti»? Sì, esistono frange secondo cui la pandemia sarebbe finta, ma sono ultraminoritarie. In genere, nemmeno chi è aperto a fantasie di complotto su Bill Gates, i vaccini e quant’altro nega che sia in corso una pandemia e che il virus uccida. E allora di chi si sta parlando?
Il termine «negazionista» ha ormai una storia pluridecennale. Coniato negli anni Ottanta per definire personaggi come David Irving, Robert Faurisson o Carlo Mattogno, secondo i quali nei lager nazisti non sarebbero esistite camere a gas né sarebbe avvenuto alcuno sterminio sistematico di ebrei e altri prigionieri, in seguito è stato esteso a sempre più ambiti, diventando un’arma nelle culture wars del XXI secolo.
In Italia, negli ultimi quindici anni, se n’è appropriata la destra per accusare di «negazionismo» chiunque smontasse le sue narrazioni – bufale storiche incentrate su fantasie di complotto antislave – sulle «foibe» e l’«Esodo istriano-dalmata». In quel modo, mentre una narrazione risalente al collaborazionismo filonazista diventava “storia di Stato” con l’istituzione del Giorno del Ricordo, la destra poteva fingere di occupare il “centro” del dibattito sulla memoria storica. In parole povere, poteva denunciare gli “opposti estremismi”: c’è chi nega la Shoah e c’è chi “nega le foibe”, stessa roba.
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