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Materialismo al tramonto
Rocco Ronchi
Alle spalle della sinistra attuale non c'è, come si crede, un vuoto di idee. Se oggi le si rimprovera di somigliare troppo al suo avversario è perché, rinunciando al materialismo, ha scelto l'opinione al posto della scienza, la retorica al posto della verità, la seduzione al posto della pedagogia, tutte opzioni già segnalate da Platone all'inizio della filosofia
Da tempo la sinistra italiana ha fatto del materialismo solo una delle tante «tradizioni» che (faticosamente) convivono all'interno della sua imprecisata galassia ideologica, quasi il retaggio polveroso di un'epoca definitivamente tramontata. I destini del materialismo, come metodo di analisi e come fondamento della prassi politica, e quelli della sinistra politica non sono inscindibilmente legati. Ne fa fede, appunto, la nostra sinistra. Vale però la pena di chiedersi che cosa diventi una sinistra senza materialismo.
La risposta non è difficile. Diventa quello che effettivamente è oggi in Italia: un movimento di «opinione» che contende ad altre «opinioni» il diritto di essere opinione «dominante». L'arena della contesa è la sfera dell'«opinione pubblica». Su tale opzione di fondo si è costruita l'ipotesi del partito democratico. Fin dalla scelta del nome è resa esplicita l'intenzione programmatica di rompere con l'eredità «materialista» del passato. Un riferimento anche vago al «socialismo» lo avrebbe invece implicato.
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L’Italia senza inconscio. E senza desideri
Massimo Recalcati
Il recente rapporto annuale del Censis che descrive lo scenario sociale del nostro paese, come è stato notato da diversi commentatori, si nutre abbondantemente di concetti, figure e metafore tratte dalla psicoanalisi. Ida Dominijanni, sulle pagine del manifesto di sabato 6 dicembre, riconosceva nel mio ultimo libro, pubblicato a gennaio del 2010 da Cortina con il titolo L’uomo senza inconscio (Raffaello Cortina editore, Milano 2009), la fonte di ispirazione maggiore del ritratto che Giuseppe De Rita e il suo Centro Studi propongono per il nostro tempo. La sregolazione pulsionale e l’eclissi del desiderio, il dominio del godimento immediato, l’apologia del cinismo e del narcisismo, l’evaporazione del padre, sono tutti concetti che il lettore di L'uomo senza inconscio può facilmente ritrovare, alla lettera, nel rapporto del Censis. Lo stesso vale per la coincidenza tra la mia tesi di fondo e quella proposta da De Rita: la cifra nichilistica del nostro tempo si può sintetizzare parlando di una estinzione del soggetto del desiderio e di una apologia del godimento sregolato e immediato.
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Prospettive economiche per i nostri (pro)nipoti?
di Giorgio Gattei
Nell'era della "disoccupazione tecnologica", il reddito di cittadinanza dovrebbe essere quella parte di profitto a cui il capitale rinuncia per garantirsi la domanda di merci
Piuttosto che intervenire sulle condizioni di fattibilità pratica del reddito di cittadinanza, su cui non ho competenza, vorrei interrogarmi sul significato storico che può assumere il dibatterne oggi. Infatti io lo giudico un argomento economico cruciale posto dalla mutazione radicale che sta subendola “maniera capitalistica del produrre”.
Finalmente, dopo un anno di passione sulla tenuta dei conti pubblici, si è arrivati a discutere della disoccupazione, di cui però si possono dare due tipi. C’è la disoccupazione provocata dalla “insufficienza di domanda effettiva” (ossia dalla domanda assistita da moneta): essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata, l’occupazione necessariamente calerà. Da qui il rimedio a simile disoccupazione - che è detta “keynesiana” perchè riconosciuta magistralmente da J. M. Keynes - che consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e/o dello Stato.
C’è però anche un altro tipo di disoccupazione, di cui poco si parla e di cui aveva ben detto Giorgio Lunghini oltre un decennio fa quando ha osservato che «la relazione biunivoca e stabile tra produzione di merci e occupazione di lavoro vivo è mutata: è ancora vero che, se la produzione cala l’occupazione cala, ma non è più vero l’inverso, che se la produzione riprende anche l’occupazione riprende» (1).
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. X
Spandi, spendi, effendi: vecchi e nuovi attori del triangolo Oro-Petrolio-Denaro
di Paolo Selmi
Abbiamo appena lasciato il triangolo d’oro della borsa cinese, una e trina, e approdiamo ora a un altro triangolo, ben più antico del primo, ma che ultimamente – guarda un po’ che caso – sta iniziando a imparare anch’esso la lingua della civiltà del Fiume Giallo. Forse, forse, in realtà l’ha sempre parlata…
Or sappiate ch'egli fa fare una cotal moneta com'io vi dirò. Egli fa prendere scorza d'un àlbore ch'à nome gelso – èe l'àlbore le cui foglie mangiano li vermi che fanno la seta –, e cogliono la buccia sottile che è tra la buccia grossa e 'l legno dentro, e di quella buccia fa fare carte come di bambagia; e sono tutte nere. Quando queste carte sono fatte cosí, egli ne fa de le piccole, che vagliono una medaglia di tornesegli picculi, e l'altra vale uno tornesello, e l'altra vale un grosso d'argento da Vinegia, e l'altra un mezzo, e l'altra 2 grossi, e l'altra 5, e l'altra 10, e l'altra un bisante d'oro, e l'altra 2, e l'altra 3; e cosí va infino 10 bisanti. E tutte queste carte sono sugellate del sugello del Grande Sire, e ànne fatte fare tante che tutto 'l tesoro (del mondo) n'appagherebbe. E quando queste carte sono fatte, egli ne fa fare tutti li pagamenti e spendere per tutte le province e regni e terre ov'egli à segnoria; e nesuno gli osa refiutare, a pena della vita.
E sí vi dico che tutte le genti e regioni che sono sotto sua segnoria si pagano di questa moneta d'ogne mercatantia di perle, d'oro, d'ariento, di pietre preziose e generalemente d'ogni altra cosa. E sí vi dico che la carta che si mette (per) diece bisanti, no ne pesa uno; e sí vi dico che piú volte li mercatanti la cambiano questa moneta a perle e ad oro e a altre cose care. E molte volte è regato al Grande Sire, per li mercatanti che vale 400.000 bisanti e 'l Grande Sire fa tutto pagare di quelle carte, e li mercatanti le pigliano volentieri, perché le spe(n)dono per tutto il paese1 .
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Il personale, il politico e il capitale
di Marco Maurizi
Perché essere ecologista, femminista, queer, antirazzista, antispecista ecc. non fa di te un anticapitalista
1. Amici, ancora uno sforzo se volete essere anticapitalisti
Intendo scontare con un lavoro quanto più possibile analitico e mirato la pretenziosità del titolo di questo intervento, in cui, prometto al lettore, cercherò di tenermi lontano dal tipo di slogan che affliggono così spesso i testi di filosofia politica radicale, tanto più quanto essi si elevano a considerazioni di ordine generale.
Sono assolutamente convinto che costruire una prospettiva socialista che sia in grado di raccogliere e rilanciare il frutto di esperienze di lotta diverse come il femminismo, l’ecologia, la teoria queer o l’antispecismo sia un’ottima cosa. Tuttavia, il tema della cosiddetta “convergenza delle lotte” mi pare circoli da tempo sufficiente per poter cominciare a dire che non abbia prodotto risultati esaltanti, né da un punto di vista teorico, né pratico.
In quanto segue proverò a dare una spiegazione del perché concentrandomi su quelli che mi sembrano essere i tre vizi principali dei movimenti anticapitalisti. Anzitutto, essi non sono affatto “anticapitalisti” o, se lo sono, lo sono in modo molto generico e confuso. In secondo luogo, il tema della “convergenza delle lotte” segue un modello, altrettanto discutibile, che passa sotto il titolo di “intersezionalismo”.
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Chi finanzia il movimento LGBTQ
di Silvia Guerini
A livello internazionale stiamo assistendo a una saturazione mediatica delle rivendicazioni trans ed LGBTQ+, ma è davvero una questione di diritti per una molto piccola anzi piccolissima parte della popolazione globale o c’è un’agenda più ampia e più profonda? La causa LGBTQ+ si trova oggi tra i primi posti nell’agenda dei potenti e i suoi sostenitori sono ai vertici dei media, del mondo accademico e soprattutto del Big Business, della Big Philanthropy e del Big Tech.
I finanziamenti del movimento transfemminista LGBTQ provengono da determinate fondazioni e organizzazioni, come la Open Society Foundations (OSF) di George Soros, per citare la più conosciuta. Meno conosciuta, ma particolarmente significativa è la Terasem Movement Foundation del transumanista Martine Rothblatt, “transessuale MtF”, ceo di United Therapeutics, multinazionale farmaceutica e biotecnologica, impegnata in nuove tecnologie biomediche e xenotrapianti, nel cui consiglio di amministrazione siede il noto transumansta Ray Kurzweill. Rothblatt possiede la più grande azienda per la clonazione di maiali per xenotrapianti in un progetto di ricerca in partnership con la Synthetic Genomics, multinazionale che opera nel campo della biologia sintetica del noto Craig Venter[1]. Rothblatt è anche membro della National Academies of Science, Engineering and Medicine, finanziato dal DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency[2]).
Rothblatt, come altri transumanisti impegnati anche in opere divulgative, ha scritto svariati libri per il largo pubblico in merito alla mappatura del DNA, screening genetici, riproduzione artificiale dell’umano.
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La crisi di Karl
Lo spettro della bolla che si aggira per la realtà
di Vladimiro Giacchè
Un mondo spiegato a partire dalla centralità del capitale finanziario che stringe nella sua morsa l'economia. È questa la lettura dominante della crisi, relegata a incidente di percorso del capitalismo. Spiegazione che può essere smontata a partire dagli scritti di Marx dedicati al tema e che sono stati raccolti in un volume da oggi in libreria di cui pubblichiamo brani dell'introduzione
La spiegazione della crisi attuale come una crisi finanziaria che ha contagiato l'economia reale è oggi largamente prevalente. Si tratta della versione contemporanea della concezione, ben nota a Marx, secondo cui la crisi sarebbe dovuta «all'eccesso di speculazioni e all'abuso del credito». Precisamente questa spiegazione delle crisi era stata sostenuta dalla commissione incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di redigere un rapporto sulla crisi del 1857. Marx contestava questo punto di vista: «la speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell'osservatore superficiale come causa della crisi».
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Tutti devono sapere che FB è una trappola
Franco Berardi Bifo
“Tutti devono sapere” è il nome di una pagina Facebook che informa(va) sulle questioni della cosiddetta riforma Gelmini, l’attacco definitivo scatenato contro la scuola pubblica italiana, il tentativo - che purtroppo sta avanzando - di distruggere alla base ogni vita intelligente, ogni democrazia in questo paese.
Diecimila persone erano collegate a questa pagina: insegnanti, genitori, studenti.
Da un paio di giorni questa pagina è stata cancellata senza motivazioni senza spiegazioni.
Per violazione di qualche norma di un regolamento che nessuno conosce.
Facebook è così. Ricevo sempre più spesso messaggi (spesso comicamente disperati) di persone che sono state bannate dal social network, e annaspano perché la loro socialità si alimentava sempre più degli scambi di messaggi, e della continua consultazione del sito nel quale chi è solo (quasi tutti lo sono di questi tempi) può trovare la coccolante conferma della sua esistenza, e la sensazione di avere amici, anche se più tempo passi davanti allo schermo, meno amici avrai nella carne e nello sguardo.
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La Cina contemporanea, erede principale dell’Ottobre Rosso e del bolscevismo
Per il centesimo anniversario del partito comunista cinese
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Quale tipo di eredità politica lascia e proietta fino ai nostri giorni l’epocale rivoluzione bolscevica del 1917, l’eroico “assalto al cielo” condotto con successo un secolo fa dagli operai e contadini dell’ex impero zarista, diretti dal partito di Lenin?
Dove si cristallizza concretamente l’attualità politico-sociale e il significato odierno, vivo e contemporaneo della Rivoluzione d’Ottobre?
Si tratta di una domanda semplice che trova una risposta politico-teorica altrettanto chiara, anche se sgradita e indigesta per larga parte della sinistra antagonista italiana, affetta sia da una prolungata impotenza politica di tipo anarcoide che da un puerile eurocentrismo: l’erede principale dell’Ottobre Rosso, all’inizio del terzo millennio, è costituito dalla Cina prevalentemente socialista dei nostri giorni.
Si è ormai attuata proprio quella scissione epocale tra “Oriente avanzato” (avanzato sul piano politico-sociale, e ai nostri giorni anche in campo tecnologico-produttivo) e “Occidente arretrato” (arretrato e reazionario sul piano politico-sociale) che Lenin aveva previsto, in modo geniale e provocatorio, fin dal maggio 1913 in un suo splendido articolo dal titolo omonimo e pubblicato sulla Pravda, scritto che il cosiddetto marxismo occidentale, da Otto Bauer fino ad arrivare a Toni Negri e a Žižek, evita come la peste bubbonica.
Certo, la sedimentazione concreta che rimane ancora oggi della rivoluzione bolscevica si rivela e si mostra anche nella memoria collettiva favorevole rispetto ad essa che è emersa di recente all’interno dalla coscienza di milioni di operai, contadini e intellettuali di sinistra di tutto il mondo, a partire ovviamente dal gigantesco continente-Russia.
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Privatizzazioni: lo scambio tra rendite politiche e rendite finanziarie
Massimo Florio
Ho iniziato a occuparmi di privatizzazioni venti anni fa, nel paese dove sono state inventate, la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e John Mayor. Stavo trascorrendo un triennio di studio alla London School of Economics, per una ricerca sull’analisi costi-benefici degli investimenti pubblici, proprio mentre l’intervento pubblico veniva visibilmente smantellato dai governi conservatori. Nel giro di pochi anni passavano ai privati, generalmente attraverso collocamento in borsa, elettricità, acqua, gas, telecomunicazioni, ferrovie, autobus, porti, aeroporti, linee aeree, miniere, e molto altro
Ho raccolto in un libro (Privatizzazioni e interesse. Il caso britannico) i risultati della mia analisi critica di quella esperienza. Ho cercato di dimostrare che (a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti, (c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate, (d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente, (e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City). Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni). La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari.
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Pashukanis e l'estinzione del diritto
di Carlo Di Mascio
E’ da come viene affrontato il tema dell’estinzione del diritto che si può comprendere fino a che punto un giurista è veramente vicino al marxismo e al leninismo.
E. B. Pashukanis, Economia e regolamentazione giuridica (1929)
1. Premessa1
E’ più o meno nota la drammatica vicenda filosofica ed esistenziale di Evgeny Pashukanis2, il quale, nella Russia sovietica tra gli anni 20 e 30 del Novecento - in perfetta sintonia con l’impianto marxista-leninista, e in distonia con quello stalinista mirato, dopo la seconda metà degli anni 30, al massimo rafforzamento del diritto e dello Stato - tenta di spiegare attraverso la sua opera più significativa, La Teoria generale del diritto e il marxismo del 1924, la correlazione esistente fra lo Stato, il moderno diritto formale astratto ed i rapporti sociali capitalistici, e ciò partendo dal presupposto fondamentale secondo cui la forma specifica della regolamentazione giuridica capitalistica ha origine dalla forma-merce, nonché dalla conflittualità degli interessi privati. Pashukanis, in netta antitesi con un certo marxismo ortodosso, ribadisce che Stato e diritto non sono la stessa cosa, né tantomeno possono più essere collegati o dedotti dalla proprietà privata, bensì dalla merce che, in quanto rapporto sociale, intende privilegiare solo valori di scambio per il mercato e non valori d’uso per i bisogni sociali e che, conseguentemente, nel capitalismo può esistere solo un diritto, quello “privato”, rispetto al quale quello “pubblico” rappresenta solo un’abile finzione borghese. Esiste dunque una concatenazione indissolubile tra la forma-merce e la forma giuridica, nel senso che la prima non fa che materializzare la seconda, dato che il capitalismo, universalizzando tutto quanto è legato alla merce, ne impone la sua forma al lavoro salariato, e ciò in particolare perché giunge a concepire ogni individuo come soggetto giuridico, un soggetto cioè uguale ad altri e libero di operare come meglio crede nel mercato, ma di fatto ridotto dal rapporto di produzione capitalistico a mera funzione nella produzione, e quindi nello sfruttamento.
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Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
Thomas Isler intervista Wolfgang Streeck
Il futuro, sostiene il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, appartiene allo Stato-nazione e non agli organismi sovranazionali. Solo all’interno degli Stati-nazione può essere esercitato un vero potere di controllo democratico
D: Signor Streeck, in Europa c’è ancora bisogno di singole nazioni, oppure è l’Unione Europea che deve risolvere i nostri problemi politici?
R: La democrazia moderna è nata dai conflitti all’interno degli stati nazionali. E fino ad oggi ha la sua patria (Heimat) negli stati nazionali. Al contrario, le organizzazioni internazionali sono dominate dagli esperti. Mancano di quella che chiamerei la dimensione plebea della democrazia.
D: Cosa intende con ciò?
R: La democrazia non è prerogativa di una classe colta, istruita, i cui membri si comportano in modo gentile e garbato tra di loro, e cercano di risolvere insieme i problemi. Anche quelli che stanno ai gradini inferiori della società devono poter alzare la voce e dire quello che vogliono.
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Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo
Hans Heinz Holz

Prefazione di Stefano Garroni
Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.
Voglio dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.
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LA GRANDE CRISI E L’IMPERIALISMO GLOBALE*
Ernesto Screpanti
Relazione presentata alla IX Università Popolare di Attac Italia, tenuta a Roma, Città dell’Altra Economia, 1-3 Maggio 2009. Aggiornata a febbraio 2010
Introduzione
Molti osservatori hanno paragonato la crisi iniziata nel 2007 a quella del 1929-33[1], avendo notato che esistono diverse somiglianze tra di esse. In realtà se guardiamo indietro nella storia del capitalismo ci accorgiamo che di grandi crisi come l’attuale ce ne sono state altre, oltre a quella del 1929-33. Per esempio ce ne fu una che scoppiò negli anni 1857-61. Un’altra si verificò nel 1836-38. Uno storico dell’economia potrebbe individuarne altre ancora, ma qui non sono interessato a una completa ricostruzione storica[2].
Quattro grandi crisi che si somigliano sono sufficienti per giustificare l’elaborazione di un concetto e di un modello che consentano di sviluppare una teoria capace di spiegare il fenomeno nella sua regolarità, e senza far ricorso all’ipotesi di shock esogeni eccezionali. Il concetto potrebbe essere appunto quello di “grande crisi”, intesa come evento non riducibile alle tipiche recessioni del normale ciclo economico e tuttavia rispondente e una ben definita logica che lo rende “eccezionale” solo per le dimensioni, non per le cause e le modalità.
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Per una teoria del potere destituente
Giorgio Agamben
Conferenza pubblica (Atene, 16 novembre 2013), trascrizione a cura di ΧΡΟΝΟΣ
Traduzione di Giacomo Mercuriali
Una riflessione sul destino della democrazia oggi qui ad Atene in qualche modo è inquietante, poiché obbliga a pensare alla fine della democrazia nel luogo stesso in cui questa è nata. In effetti, l’ipotesi che vorrei proporre è che il paradigma governamentale predominante oggi in Europa non solo non sia democratico, ma che non possa nemmeno essere considerato politico. Tenterò allora di mostrare che la società europea non è più una società politica: è qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa per cui ci manca una terminologia appropriata e dovremo quindi inventare una nuova strategia.
Permettetemi di iniziare con un concetto che sembra aver rimpiazzato ogni altra nozione politica a partire dal settembre 2001: la sicurezza [security]. Come sapete, la formula “per ragioni di sicurezza” funziona oggi in ogni ambito, dalla vita quotidiana ai conflitti internazionali, come una parola chiave che serve per imporre misure che le persone non hanno alcuna ragione di accettare. Tenterò di mostrare che lo scopo reale delle misure di sicurezza non è, come si ritiene comunemente, prevenire pericoli, disordini o addirittura catastrofi. Sarò dunque obbligato a fare una breve genealogia del concetto di “sicurezza”.
Una possibile modalità per abbozzare questa genealogia sarebbe quella di inscrivere la sua origine e la sua storia nel paradigma dello “stato di eccezione”.
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Capitalismo 2015: La Grande Depressione ed il dramma greco
di Antonio Carlo
1) L’economia mondiale nel 2015: PIL, disoccupazione, debito, fallimento delle politiche economiche.
A) Crescita asfittica del PIL.
Da anni seguo la dinamica dell’economia mondiale 1 ed ho la sensazione di essere spesso ripetitivo, ma questo avviene perché le situazioni si riproducono continuamente senza alcuna sostanziale soluzione: ogni anno il debito pubblico cresce, la disoccupazione rimane elevata (anche se le statistiche tendono a nasconderla), l’evasione fiscale si impenna, si fanno riunioni dei vari G (7, 8, 20) che non producono alcun risultato, i consumi delle famiglie cinesi non riescono a decollare, il Giappone oscilla tra recessione e ristagno, etc, etc. etc.
Questo ripetersi avviene anche per i giudizi sull’andamento del PIL almeno dopo il 2010, allora ci fu un rimbalzo abbastanza forte (dopo il calo del 2009) che fece dire a molti (non a me) che la ripresa aveva gambe, ma dal 2011 il quadro cambia pressocchè ininterrottamente: la ripresa c’è ma è modesta, fragile, moderata, inadeguata etc. ed il 2015 non fa eccezione. Così Jack Lew, Ministro del Tesoro USA, osserva che essa è deludente in termini di PIL ed occupazione 2 , Larry Summers, un tempo consigliere economico numero uno di Obama, parla addirittura di ristagno secolare alle porte 3 , Draghi sottolinea che i rischi di ribasso nella crescita non sono transitori etc. 4 . Di particolare rilievo è, a questo proposito, un’intervista della elegantissima signora Lagarde (numero uno della FMI) al noto economista venezuelano Moisés Naìm in cui, pur non accettando la tesi della stagnazione secolare, si osserva che la crescita soffre di una “nuova mediocrità”, che i posti di lavoro creati non sono sufficienti, che enormi quote di ricchezza si concentrano nelle mani della finanza e c’è il rischio che i costi della crisi ricadano sui poveri e le classi medie impoverite 5 .
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“NeoRealismi” a confronto. Rigurgiti postmoderni e rivalse scientiste?
Francesca Fistetti
L’estate 2011 ha stupito noi lettori distratti da continue iniezioni televisive di iperrealtà con l’ennesima versione, forse anch’essa postmoderna, di una delle più dibattute polemiche filosofiche dell’ultimo decennio, quella tra ‘(neo-)realismo’ e ‘postmoderno’. Procediamo però con cautela, tentando di chiarire al meglio i termini della complessa questione.
Tutto ha inizio dal provocatorio manifesto di un presunto ritorno alla realtà, lanciato dalle colonne de “La Repubblica” da Maurizio Ferraris, noto filosofo formatosi alla scuola del ‘pensiero debole’ di Gianni Vattimo, oggi, vicino al trascendentalismo scientista di derivazione searliana. Il battesimo di questo esorcismo collettivo, che dovrebbe ricondurre finalmente quel che resta di un pensiero razionale e critico a riacciuffare le redini della Storia, riabilitando tre parole-chiave “Ontologia, Critica e Illuminismo”, dopo le superbe rodomontate postmoderne che hanno invece generato solo scioperataggine speculativa, sarà officiato in un importante convegno, a Bonn, nella prossima primavera, a cui parteciperanno nomi illustri del calibro di Umberto Eco e John Searle. Inoltre, il certificato di morte del postmoderno è ormai redatto e validato da una mostra londinese – ci informa Edward Docx, sempre dalle pagine culturali de “La Repubblica”[1] – al Victoria and Albert Museum, dal titolo emblematico, Postmoderno – Stile e sovversione 1970-1990.
Dalla proposta di un NewRealism è così scaturito un confronto tra Ferraris e Gianni Vattimo, il quale ha marcato nettamente le distanze da qualunque forma di sdoganamento sociale dell’ambiguo concetto di verità, che per inverarsi avrebbe bisogno sempre e comunque, nella prospettiva dell’autore de La società trasparente (1989), di un’autorità superiore che la sanzioni dogmaticamente.
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«La catena di montaggio inizia in cucina, al lavello, nei nostri corpi»*
Intervista a Silvia Federici
Rendiamo qui disponibile, in traduzione, una breve intervista a Silvia Federici, pubblicata di recente in spagnolo, e incentrata sulla sua opera più conosciuta Caliban and the Witch (2004), a sua volta rielaborazione del più vecchio Il Grande Calibano (1984), scritto in italiano con Leopoldina Fortunati. Se la biografia dell'Autrice può essere di qualche interesse, giusto due note: Silvia Federici svolge attività d'insegnamento presso la Hofstra University di New York, è militante femminista dagli anni '60, e membro del gruppo «Midnight Notes Collective», di cui segnaliamo in italiano l'Introduzione alle Nuove Enclosures (in «Anarchismo», n. 71, 1993).
Ci proponiamo di rendere presto disponibile su questo blog Il Grande Calibano, ed è precisamente a scopo propedeutico che pubblichiamo questa intervista. Ciò corrisponde alla nostra volontà di sviluppare, sulla lunga distanza, un discorso articolato sui temi della riproduzione (dei rapporti sociali capitalistici), del femminismo e del genere. La continua e inesausta messa a fuoco della definizione del capitale – come rapporto sociale, come totalità e come contraddizione in processo – non può prescindere dalla comprensione di ciò che sono il valore e il plusvalore (la contraddizione proletariatocapitale), ma non si può più pensare che sia sufficiente fermarsi là. Il fatto è che qualcosa di non tematizzato, perfino di rimosso, di non immediatamente riconducibile al plusvalore, ma che riguarda nondimeno le sue condizioni di esistenza, ne cade fuori; e l'emersione del femminismo radicale degli anni '70 ne è stata precisamente l'illuminazione: un lampo nella notte. Tutto ciò fu interpretato allora da marxisti e non marxisti – anche dai più lucidi – come una deviazione modernista, preludio al postmodernismo ideologico degli anni '80 e '90: come un ostacolo in più, insomma, sulla strada lunga e dura dell'unità di classe e della rivoluzione proletaria. È tempo di ammetterlo: fu un errore.
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L'ossessione ricorrente: abbattere la previdenza pubblica
Felice Roberto Pizzuti
Nelle «Considerazioni finali» si trovano preoccupanti riferimenti alla previdenza. L'idea di fondo è che «Un riequilibrio duraturo richiede un intervento sul sistema previdenziale».
L'intervento dovrebbe caratterizzarsi per l'aumento dell'età pensionabile e per l'aggiornamento dei coefficienti di calcolo delle pensioni; ma, più sostanzialmente, andrebbe molto più sostenuta la previdenza privata verso cui andrebbe dirottata anche una quota della contribuzione attualmente destinata alla previdenza pubblica.
Circa i collegamenti tra bilancio pubblico e pensioni vale la pena ricordare che il saldo tra i contributi incassati e le prestazioni previdenziali effettivamente erogate, cioè al netto delle trattenute fiscali, è positivo per un ammontare pari a circa mezzo punto di Pil. Dunque, attualmente, il bilancio pubblico è avvantaggiato, non peggiorato, dal sistema pensionistico previdenziale.
L'età di pensionamento effettiva dei lavoratori italiani è solo di 7 mesi più bassa della media europea, ma è superiore rispetto a quella d'importanti paesi come la Francia che, tra l'altro, ha una spesa pubblica complessiva più elevata della nostra e una crescita economica maggiore. In Italia, invece, il tasso d'occupazione è tra i più bassi in Europa, per motivi strutturali che evidentemente attengono alla scarsa capacità del nostro sistema produttivo di creare occupazione; in questo contesto, finché non verrà modificato, forzare l'aumento dell'età di pensionamento implicherà ridurre il turn over, aumentare la disoccupazione giovanile, peggiorare la composizione della forza lavoro e, dunque, ostacolare anche il rinnovamento produttivo.
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L’imminente frattura globale causata dallo scontro tra diversi ordini economici
Intervista a Michael Hudson
Il post che segue è la traduzione di un’intervista al prof. Michael Hudson pubblicata su The Unz Review. Un’altra analisi essenziale per comprendere gli avvenimenti epocali che stiamo vivendo e orientarci in un mondo che si fa sempre più complesso, oltre che “grande e terribile”. L’originale lo puoi trovare qui.
Prof. Hudson, è uscito il suo nuovo libro “Il destino della civiltà”. Questo ciclo di conferenze sul capitalismo finanziario e la nuova guerra fredda presenta una panoramica della sua particolare prospettiva geopolitica.
Lei parla di un conflitto ideologico e materiale in corso tra Paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. In che cosa consiste questo conflitto e perché il mondo si trova in questo momento in un “punto di frattura” particolare, come afferma il suo libro?
L’attuale frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: Nell’Occidente USA/NATO, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato l’industria manifatturiera verso la leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri Paesi asiatici, insieme alla Russia che fornisce materie prime di base e armi.
Questi Paesi sono un’estensione di base del capitalismo industriale che si sta evolvendo verso il socialismo, cioè verso un’economia mista con forti investimenti governativi nelle infrastrutture per fornire istruzione, assistenza sanitaria, trasporti e altre necessità di base, trattandole come servizi di pubblica utilità con servizi sovvenzionati o gratuiti per queste necessità.
Nell’Occidente neoliberale degli Stati Uniti e della NATO, invece, questa infrastruttura di base viene privatizzata come un monopolio naturale che estrae rendite.
Il risultato è che l’Occidente USA/NATO è rimasto un’economia ad alto costo, con le spese per la casa, l’istruzione e la sanità sempre più finanziate dal debito, lasciando sempre meno reddito personale e aziendale da investire in nuovi mezzi di produzione (formazione del capitale).
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Introduzione a Frattura metabolica e Antropocene
di Giuseppe Sottile
Autori vari: Frattura metabolica e Antropocene.Saggi sulla distruzione capitalistica della Natura, a cura di Alessandro Cocuzza e Giuseppe Sottile, Ed Smasher, 2023
La crisi nelle condizioni naturali dello sviluppo umano è dovuta alle caratteristiche fondamentalmente antiecologiche del lavoro salariato e dei rapporti di mercato.
Paul Burkett
Il giovane Marx formulò l’idea dell’unità tra umanità e natura nella società futura nei termini d’un pienamente compiuto umanesimo = naturalismo, una concezione che Marx conservò anche dopo i vari successivi cambiamenti della sua prospettiva teorica.
Kohei Saito 1
Il termine «Antropocene» comincia ad essere assai diffuso anche nel nostro Paese. È probabile esso prenda la veste di una parola tanto più innocua nel significato quanto più usata dai mass-media. La genesi che ne consente un uso appropriato la si può rintracciare in una serie di documenti che negli ultimi decenni sono scaturiti come esito della ricerca scientifica. Qui ne vogliamo citare solo tre, tra i più importanti e recenti: When did the Anthropocene begin? A mid-twentieth century boundary level is stratigraphically optimal, The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration e Planetary Boundaries: Guiding Human Development on a Changing Planet2.
Il primo documento fa iniziare quella che l’AWG, il 21 maggio del 2019, ha ufficialmente indicato come un’epoca successiva all’Olocene3 a partire dalla metà del secolo scorso, per via della dimensione globale, durata e sincronicità del cambiamento stratigrafico.
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Il dibattito economico su globalizzazione e distribuzione
Alessandra Cataldi
Diverse voci autorevoli[1] hanno documentato la progressiva caduta nella quota di reddito destinata a remunerare il lavoro (labor share) che si registra a partire dagli anni Ottanta nei Paesi industrializzati e in modo accentuato nell’Europa continentale. Tra le spiegazioni generalmente avanzate in letteratura per comprendere tale fenomeno si fa spesso riferimento alla globalizzazione dei mercati, la quale avrebbe avuto ripercussioni negative sulle retribuzioni e/o sui tassi occupazionali, soprattutto dei lavoratori poco qualificati. In particolare, il legame tra andamento del labour share e globalizzazione nasce dall’osservazione che la progressiva caduta nella quota di reddito destinata al lavoro è coincisa con l’ integrazione delle economie dei Paesi industrializzati con i Paesi di nuova industrializzazione (NIC).
L’approccio standard nell’analizzare gli effetti del commercio internazionale si propone di studiare in che modo l’apertura agli scambi internazionali incida sulle quote distributive e sulle remunerazioni di lavoro e capitale con riferimento a modelli teorici secondo cui ciascun Paese si specializza in quelle produzioni in cui ha un vantaggio comparativo[2]. Ad esempio, i Paesi industrializzati si specializzerebbero nella produzione di beni ad alta intensità capitalistica per cui la remunerazione e l’utilizzo del lavoro tenderebbe a ridursi.
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Il capitale dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2) Pubblicazione e teoria
di Roberto Fineschi
Premessa
Un libro relativamente noto di Jacques Bidet s'intitola significativamente Que faire du Capital? lo credo che si possa essere più radicali e fare un passo indietro chiedendosi che cosa sia Il capitale. Attraverso quest'opera Marx voleva rendere comprensibile il funzionamento della società borghese. Quale però? Quella della Rivoluzione industriale? Oppure voleva elaborare un modello generale che andasse oltre la contingenza, o la limitatezza di fase e che servisse come quadro generale al quale riferire dei sottoperiodi o delle articolazioni ulteriori? Ma in verità il problema non consiste solamente nello stabilire come intendere il testo da un punto di vista teoretico: la domanda può essere estesa all'esistenza stessa di tale testo, soprattutto in considerazione della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA).
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Teoria della crisi. 100 tesi
di Vladimiro Giacché
[Cinque anni fa, il 15 settembre 2008, il fallimento della Lehman Brothers ha reso visibile all'opinione pubblica mondiale la gravità della crisi economica che stiamo attraversando. Queste tesi sono apparse su «Democrazia e diritto», 3, 2012].
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1. A oltre cinque anni dall’inizio della crisi, l’elenco delle sue presunte cause è sempre più lungo. Mutui subprime, obbligazioni strutturate, derivati sui crediti, avidità dei banchieri, società di rating, orientamento al profitto di breve termine, creazione di veicoli finanziari fuori bilancio, inefficacia del risk-management, lacune regolamentari, politica monetaria della Fed… Sono solo alcune delle cause tirate in ballo in questi anni. Più di recente all’elenco dei colpevoli si sono uniti alcuni Stati: la Grecia (che ha taroccato i bilanci), l’Irlanda (che ha salvato le proprie banche private finendo in bancarotta), la Spagna (che non ha impedito il formarsi di una gigantesca bolla immobiliare), il Portogallo (che non cresce abbastanza e ha una bilancia commerciale molto squilibrata), e infine l’Italia (che ha un debito pubblico troppo elevato… da trent’anni).
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È fin troppo facile osservare che nessuno di questi presunti colpevoli è in grado di spiegare questa crisi: né il suo decorso, né la sua durata e gravità, né le sue conseguenze.
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Comunismo: qualche riflessione sul concetto e la pratica
Toni Negri
Questo testo è stato estratto dall'intervento pronunciato in occasione di una conferenza tenutasi a Londra nel maggio 2009 al Birbeck Institute, per iniziativa di Alain Badiou e Slavoj Žižek, dal titolo On the idea of Communism. Gli atti di questo incontro, che hanno visto la partecipazione di alcuni dei principali filosofi contemporanei, sono stati raccolti in un libro che ha visto la pubblicazione in Francia, Spagna e Inghilterra. In Italia, con il titolo L’idea di comunismo, lo stesso libro sarà disponibile nel mese di aprile nel catalogo delle edizioni DeriveApprodi. Segnaliamo che il testo qui riportato non rappresenta la versione integrale dell'intervento
L’affermazione che la storia è storia della lotta di classe, sta alla base del materialismo storico. Quando il materialista storico indaga sulla lotta di classe, lo fa attraverso la critica dell’economia politica. Ora, la critica conclude che il senso della storia della lotta di classe è il comunismo: «il movimento reale che distrugge lo stato di cose presente». Si tratta di starci dentro a questo movimento. Si obietta spesso che queste affermazioni sono espressioni di una filosofia della storia. A me però non sembra che si possa confondere il senso politico della critica con un telos della storia. Nel corso della storia, le forze produttive normalmente producono i rapporti sociali e le istituzioni dentro i quali sono trattenute e dominate: questo sembra evidente, questo registra ogni determinismo storico. Perché allora ritenere che un eventuale rovesciamento di questa situazione e la liberazione delle forze produttive dal dominio dei rapporti capitalisti di produzione costituiscano (secondo il senso operativo della lotta di classe) un’illusione storica, un’ideologia politica, un non-senso metafisico? Cercheremo di dimostrare il contrario.
1) I comunisti dunque assumono che la storia è sempre storia della lotta di classe.
Taluni dicono che non è possibile assumere questa affermazione perché la storia è stata talmente predeterminata, ed è ora talmente dominata dal capitale da rendere questa assunzione ineffettuale e inverificabile.
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Il grande reset dopo la pandemia
di Aldo Zanchetta
«Cari compagni e compagne: siamo nel pieno di un naufragio della civiltà.
Dobbiamo organizzare il salvataggio -non solo delle persone,
ma anche delle idee e dei valori».
Jorge Riechmann
Preambolo
Mi sento come nel mezzo del guado di un torrente impetuoso qual è la transizione epocale che stiamo vivendo, nella quale è difficile fare pronostici: “Io speriamo che me la cavo” fu il titolo di una gustosa raccolta di elaborati scolastici di bambini napoletani di alcuni anni addietro. Dicendo “Io” però intendo la mia specie, quella dell’homo sapiens, perché queste acque impetuose o si attraversano tenendosi forte per mano o si affoga. Insistendo con le metafore, di fronte alla realtà presente mi sento come di fronte ad una scatola contenente le tessere di un immenso puzzle, che da solo non riuscirò certamente a ricomporre per intero, ma del quale posso ricomporre alcuni pezzi, ed è quello che vorrei tentare di fare. Per intuire almeno a grandi linee il disegno complessivo. Le 3 grandi tessere sono:
– La Pandemia causata da un virus inopportuno (ma forse non tanto, anche senza pensare a complotti: di necessità talora si fa virtù, e nel male esso può a qualcuno può essere servito).
– Il Panottico digitale, iniziato con un lock-down, giustificato da ragioni di sicurezza rese necessarie di fronte a tale imprevisto, accompagna da un perentorio “Restate in casa”.[1]
– Il Grande Riaggiustamento, The Great Reset, annunciato nel giugno scorso dal World Economic Forum (WEF) e subito riecheggiato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). In realtà più che di un “riaggiustamento” si tratta, parole loro, di una vera e propria Grande Trasformazione.
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Dopo il Carnevale, la Quaresima
di Mario Pezzella
Rispondo con ritardo e con qualche osservazione alla lettera di Anna Pizzo, dopo aver letto anche le considerazioni più recenti di Pierluigi Sullo e Marco Revelli.
Quando una democrazia finisce o rischia di finire, anche se si tratta di quella democrazia spettacolare, svuotata, che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, trovo che ci sia poco da festeggiare e che sia normale una grande tristezza: perché nelle più oscene caricature della democrazia è pur sempre presente almeno un ricordo della sua origine, della sua richiesta di diritti e di uguaglianza, un immaginario non del tutto riducibile alla sua figura attuale. Era vero per la Repubblica di Weimar ed è vero per l’Italia e per la Grecia oggi. Non viviamo solo una crisi della politica, ma una catastrofe dell’immaginario politico che ci ha accompagnato nel corso della nostra vita.
Secondo Hegel, un regime politico in declino può mantenere intatta la sua facciata per un tempo relativamente lungo, anche se è roso internamente da una contraddizione non risolvibile; l’apparenza del suo potere resiste al vuoto che internamente si propaga sempre di più, finché – oltre una certa sogli a- basta un leggero colpo di dito e tutto l’edificio crolla al suolo in pochissimo tempo.
Alcuni anni fa, nella “Carta della democrazia insorgente”, riprendendo un’idea di Guy Debord, scrivemmo che il regime politico democratico parlamentare sopravviveva solo più come uno spettacolo e una messa in scena, mentre i veri luoghi di potere e di decisione si spostavano in organismi paralleli, ufficiosi, segreti. Questo declino della democrazia ha preso inizio all’inizio degli anni ottanta del Novecento ed è ora giunto al suo termine. Di segretezza e di associazioni nascoste non c’è più bisogno.
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Green pass. Compagni, bisogna scegliere: collaborare o disobbedire
di Marco Craviolatti*
L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.
Lorenzo Milani
Disagio, malessere, nella testa e nello stomaco: incontro pubblico tra gi storici Alessandro Barbero e Angelo D’Orsi, ottimo candidato alle elezioni di Torino che ha unificato almeno parte dei comunisti locali. Alle porte del cinema, giovani militanti controllano zelanti i lasciapassare “verdi”, in coda decine di persone, volti noti, la mia “famiglia” ideologica e perfino antropologica, attendono pazienti con il QR pronto, senza un commento, una critica, nemmeno rassegnati, semmai pacificati. Il lasciapassare è la nuova normalità.
Stessa sensazione due giorni dopo a teatro, spettacolo dello stesso D’Orsi e della band Primule rosse sulla vita di Gramsci, lo stomaco si contorce e per un attimo immagino Gramsci lì in coda addomesticato con il lasciapassare in mano. E poi di nuovo al Festival delle migrazioni, dove “nessuno è clandestino”, dove si è solidali con i “sans papier”, ma qui sans papier sei clandestino e non entri. E poi la grigliata alla storica e accogliente Casa del popolo di Chieri, un messaggio: ”mi spiace ma non puoi partecipare. Mi spiace ma queste regole non sono solo individuali e come collettivo non possiamo assumerci le conseguenze di violarle”.
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Dell'inutilità in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale
Luigi Tedeschi intervista Costanzo Preve
(Tedeschi) L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale, che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso della propria individualità, ormai non più compatibile con le prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi evolutivi della società globalizzata.
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"Ipocrisia"
di Carlo Rovelli
Poche volte mi sono sentito come in questo periodo, così lontano da tutto quanto leggo sui giornali e vedo alla televisione riguardo alla guerra ora in corso in Europa orientale.
Poche volte mi sono sentito così in dissidio con i discorsi dominanti. Forse era dai tempi della mia adolescenza inquieta che non mi sentivo così ferito e offeso dal discorso pubblico intorno a me.
Mi sono chiesto perché. In fondo, sono spesso in disaccordo con le scelte politiche e ideologiche dei paesi in cui vivo, ma questo è normale — siamo in tanti e abbiamo opinioni diverse, letture del mondo diverse. Anche del mio pacifismo, poi, sono poi così sicuro? Ho dubbi, come tutti.
Allora perché mi sento così turbato, ferito, spaventato, da quanto leggo su tutti i giornali, e sento ripetere all’infinito alla televisione, nei continui discorsi sulla guerra?
Oggi l’ho capito. L’ho capito proprio ritornando col pensiero al periodo della mia prima adolescenza, quando tanti anni fa la gioventù di tanti paesi del mondo cominciava a ribellarsi a uno stato di cose che le sembrava sbagliato. Cos’era stata quella prima spinta al cambiamento? Non era l’ingiustizia sociale, non erano i popoli massacrati dal Napalm come i Vietnamiti, non era il perbenismo, la bigotteria, l’autoritarismo sciocco delle università e delle scuole, c’era qualcosa di più semplice, immediato, viscerale che ha ferito l’adolescenza di mezzo secolo fa e ha innescato le rivolte di tanti ragazzi di allora: l’ipocrisia del mondo adulto.
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