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Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è il marxismo del XXI secolo
di He Yiting
Presentiamo la traduzione dal cinese dell’articolo scritto a metà giugno del 2020 dal compagno He Yiting, allora vice direttore della prestigiosa Scuola di Partito centrale del partito comunista cinese, avente per oggetto la funzione e ruolo su scala mondiale del pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era.
Buona lettura
Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è il marxismo del 21 secolo: questa è la definizione scientifica del Partito comunista cinese sulla rilevanza storica attribuita al pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era, oltre ad essere anche la prima volta che il nostro Partito per denominare gli ultimi risultati della cinesizzazione del marxismo utilizza “secolo” come parametro.(1)
Il marxismo fin dalla sua comparsa ha superato confini geografici e barriere temporali mosso dalla forza della verità, si è diffuso attraverso i cinque continenti e i quattro oceani seguitando a evolversi nel tempo; ha influenzato profondamente il corso generale della storia globale, modellandola razionalmente e mutandone sensibilmente l’aspetto.
Come ha sottolineato il Segretario Generale Xi Jinping nel suo discorso alla conferenza di commemorazione del 200° anniversario della nascita di Marx: “La ricchezza spirituale lasciataci da Marx che più ha valore ed autorevolezza è senz’altro la teoria scientifica che porta il suo nome: il marxismo. Come una magnifica alba, questa teoria ha illuminato il cammino dell’umanità nella sua indagine sulle leggi della storia e nella ricerca della propria emancipazione.”
Non è possibile affermare che le conquiste teoriche marxiste di ogni paese e di ogni popolo possano essere inserite negli annali del pensiero dell’umanità e venir considerate forme di marxismo del secolo, non tutte possono acquisire il titolo di “marxismo del secolo”.
Perché il marxismo possa essere definito secondo il criterio di “secolo”, riteniamo debbano sussistere tre condizioni: in primis l’obiettivo di ricerca teorica deve essere un modello/campione rappresentativo del mondo; in secundis il risultato teorico deve avere valenza storica a livello mondiale e infine in tertiis, che l’efficacia della prassi modifichi il mondo reale.
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Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo*
di Giovanni Arrighi e Lu Zhang
[Un'anticipazione dal cap. 5 di Capitalismo e (dis)ordine mondiale, raccolta degli scritti di Giovanni Arrighi a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, in uscita presso Manifestolibri]

Parte della confusione sorge dalla persistente influenza sulla politica mondiale di vari aspetti del defunto consensus. Come notato da Walden Bello, “il neoliberismo [rimane], semplicemente per forza d’inerzia, il modello standard per molti economisti e tecnocrati che... non hanno più fiducia in esso”.
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Aspetti politici del pieno impiego
Michał Kalecki
I
[La dottrina economica del pieno impiego]
I.1
Una solida maggioranza degli economisti è oggi dell’opinione che, anche in un sistema capitalista, il pieno impiego possa essere assicurato da un programma di spesa del Governo, purché siano disponibili impianti adeguati ad impiegare tutta la forza lavoro esistente, e purché sia possibile ottenere in cambio delle esportazioni forniture adeguate delle necessarie materie prime che devono essere importate dall’estero.
Se il Governo garantisce investimenti pubblici (ad esempio costruisce scuole, ospedali e autostrade) o sostiene con sussidi il consumo di massa (con gli assegni familiari, la riduzione delle imposte indirette, o con sussidi diretti a mantenere bassi i prezzi dei beni di prima necessità) e se, in più, queste spese sono finanziate con un maggiore indebitamento e non con la tassazione (che potrebbe avere un effetto negativo sugli investimenti e sui consumi privati) allora la domanda effettiva per beni e servizi può essere incrementata fino al punto che corrisponde al raggiungimento del pieno impiego.
Si noti che questa spesa del Governo incrementa l’occupazione non solo direttamente ma anche indirettamente, dal momento che i redditi più elevati che essa genera provocano a loro volta incrementi secondari della domanda di beni di consumo e di investimento.
I.2
Ci si potrebbe chiedere dove il pubblico prenderà il denaro da prestare al Governo se non riduce i suoi investimenti e i suoi consumi.
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Intervista all’economista professor Prabhat Patnaik
di Bollettino Culturale
Prabhat Patnaik, nato a Jatani il 19 settembre del 1945, è uno dei principali economisti marxisti dell’India. Tramite una borsa di studio ha la possibilità di studiare al Daly College di Indore ed in seguito si laurea in economia al St. Stephen’s College di Nuova Delhi. Ad Oxford consegue il proprio dottorato per poi tornare in patria nel 1974 per insegnare, fino al pensionamento avvenuto nel 2010, presso il Centre for Economic Studies and Planning (CESP) della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi. Specializzato in macroeconomia ed economia politica, è uno dei più attenti osservatori e critici della politica economica del governo indiano. Feroce critico delle politiche economiche neoliberiste e del nazionalismo hindu, ha pubblicato numerosi articoli e libri in diverse lingue.
Tra i più importanti vorrei ricordare: A Theory of Imperialism, scritto con sua moglie Utsa Patnaik, altra importante economista marxista indiana, The Value of Money, Re-Envisioning Socialism, e Demonetisation Decoded – A Critique of India’s Currency Experiment.
* * * *
1. Professor Patnaik, lei è un marxista in un paese che scivola sempre di più a destra. Il fondamentalismo indù di Modi ha molto in comune con lo sciovinismo di Abe in Giappone, Trump, Orbán e Salvini. Come si materializza questo fondamentalismo indù in economia e che rapporto ha con la gestione dell’ordine neoliberista?
L’attuale partito al governo del paese è stato istituito dalla RSS [Rashtriya Swayamsevak Sangh, Organizzazione Nazionale Patriottica] come suo braccio politico. La RSS è un’organizzazione fascista istituita nel 1925 che aveva inviato un emissario a Mussolini e aveva grande ammirazione per il fascismo tedesco e italiano.
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Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
di Fabrizio Marchi
Dopo quasi due anni di sterminio sistematico del popolo palestinese (detto a latere, stucchevole quanto grottesco il “dibattito” in corso per stabilire se si tratti di genocidio o di “semplici” crimini di guerra…) il PD ha indetto una manifestazione per chiedere il cessate il fuoco a Gaza, la sospensione della fornitura di armi a Israele, la possibilità di far entrare cibo, medicinali e aiuti umanitari, il rispetto del diritto internazionale e la liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Quest’ultimo punto è ovviamente una “furbatina” che serve a far mostra di equilibrio o meglio di equidistanza e a non rompere i rapporti con Renzi e Calenda con i quali dovranno comunque venire a patti in un prossimo futuro per poter mettere in piedi uno straccio di alleanza in grado di sconfiggere il centrodestra e la Meloni alle prossime politiche.
Ora, la domanda è: perché il PD ha preso questa decisione? Le risposte sono diverse ma, in estrema sintesi, sono le seguenti:
- Il PD è parte integrante di quella che ho chiamato “internazionale neoliberale”, cioè la fazione del sistema capitalista e imperialista che ha cavalcato e guidato il processo di globalizzazione (cioè il dominio capitalista occidentale sul mondo) negli ultimi tre decenni, a partire dal crollo del blocco sovietico in poi.
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Che cos'è il debito?
Denaro, crisi e progresso sociale secondo un antropologo
Philip Pilkington intervista David Graeber
Su cosa si fonda il valore del denaro? Come si origina il debito? Di fronte alla crisi globale che scuote oggi le più potenti economie capitalistiche del pianeta, sono probabilmente molti i profani di economia che, come il sottoscritto, si sono posti magari per la prima volta nella loro vita domande del genere.
Ho quindi deciso di realizzare e pubblicare su questo blog la traduzione di un'interessante intervista all'antropologo (nonché militante anarchico) David Graeber, già professore associato di Antropologia a Yale e oggi assistente di Antropologia Sociale presso la Goldsmiths University di Londra. La brillante carrellata storico-antropologica proposta da Graeber nel suo ultimo lavoro "Debt: the First 5.000 Years"(MelvilleHouse Publ.), ci riporta alle origini del credito nell'Antica Mesopotamia e all'invenzione delle prime forme di moneta coniata da parte dei grandi imperi del passato, offrendo spunti particolarmente interessanti per interpretare la "crisi del debito" che sta sconvolgendo gli equilibri del mondo capitalistico.
L'intervista, disponibile in inglese sul blog naked capitalism, è stata realizzata dal giornalista e scrittore irlandese Philip Pilkington. Traduzione di Don Cave. Un grazie a DueCents (aka Paul D-Boy Kondratiev) per la segnalazione.
David Graeber: Sì, c'è una storiella convenzionale che è stata raccontata a tutti noi, un "c'era una volta" – nient'altro che una fiaba, in effetti. Non merita davvero di essere introdotta diversamente da così: secondo questa teoria, in origine tutti gli scambi erano fondati sul baratto. "Sai cosa ti dico? Ti darò venti galline per quella vacca. O tre punte di freccia per quella pelliccia di castoro o per qualcos'altro tu possa offrirmi." Questo creava degli inconvenienti, magari perché il tuo vicino non aveva bisogno di galline in quel momento, ragion per cui si dovette inventare il denaro.
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Arrigo Cervetto a cinquant'anni dalla nascita di Lotta Comunista
Attilio Folliero intervista Dante Lepore
Cinquant'anni fa, nel dicembre del 1965, usciva il primo numero di Lotta Comunista, l'organo ufficiale dell'omonimo partito fondato da Arrigo Cervetto assieme a Lorenzo Parodi. Per parlare di Arrigo Cervetto, delle sue idee, della concezione del partito abbiamo intervistato Dante Lepore, che per anni è stato militante di Lotta Comunista; ha conoscito Arrigo Cervetto e collaborato con lui nella fondazione della sede torinese di Lotta Comunista.
Ricordiamo che Arrigo Cervetto T nato a Buenos Aires, Argentina, il 16 aprile del 1927 ed è morto a Savona il 23 Febbraio 1995. Nella foto a lato, Arrigo Cervetto durante la partecipazione alla Terza Conferenza Nazionale dei GAAP, svoltasi a Livorno il 26 e 27 settembre 1953.
D. Il Partito, la formazione del partito del proletariato, del partito di classe è uno degli aspetti fondamentali del marxismo. Arrigo Cervetto ha affrontato tale questione. Qual è la concezione del partito in Arrigo Cervetto?
R. Questa domanda, pur nell’apparente semplicità, è complessa, dato che riconduce alla genesi e maturazione di un problema, quello del partito di classe, che non è una mera astrazione concettuale e mai era stato precedentemente posto allo stesso modo e che lo stesso Cervetto dovette sviluppare in una complessa vicenda storica.
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Libere di vendere il proprio corpo a pezzi
di Carlo Formenti
Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in 28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.
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La teoria economica dominante e le teorie alternative*
di Giorgio Lunghini
Indirizzo questa lezione breve ai non economisti di questa classe: e soprattutto ai letterati, che da tempo hanno smesso di leggere scritti di economia.
Stendhal raccomandava alla amatissima sorella Pauline, per la sua felicità, di leggere Smith e Say (al quale faceva inviare le proprie opere) e riteneva che la conoscenza approfondita di Malthus, Say e Ricardo fosse titolo per diventare un ministro delle finanze eccellente. L’allora Henri Beyle aveva letto gli economisti nel 1810, con l’amico Crozet, e addirittura aveva progettato un Boock dal titolo Influence de la Richesse sur la population et le bonheur
De Quincey, il mangiatore d’oppio che in tal modo ne guarisce, scopre Ricardo: «Ecco l’uomo! Un’opera così profonda era veramente nata in Inghilterra, nel XIX secolo? Ricardo aveva d’un tratto trovato la legge, creato la base, aveva gettato un raggio di luce in tutto il tenebroso caos di materiali nel quale si erano perduti i suoi predecessori».
Intorno al 1830 Flaubert comincia a raccogliere le voci sulla bêtise; il Dizionario delle idee comuni prende forma, come parte di Bouvard e Pécuchet, nei primi anni settanta dell’Ottocento. Il 1830 e il 1870 sono gli anni cruciali nella storia del pensiero economico, segnano il periodo in cui l’economia politica progressivamente si riduce a economica. Flaubert, puntuale, nel Dizionario registra: «ÉCONOMIE POLITIQUE. Science sans entrailles». Da allora in poi saranno pochi gli scrittori che si occupano di teoria economica. Ricordo soltanto Ruskin con la sua Economia politica dell’arte, Pound con il suo ABC dell’economia. Tra gli italiani ricordo Dossi: «L’economia politica, questa matematica della Morale, che concilia i calcoli e l’interesse colle aspirazioni più sublimi del sentimento». E ricordo Gadda, con la sua favola brevissima: «Adamo Smith e Davide Ricardo erano economisti».
Si capisce perché i letterati oggi non ci leggano più: l’economia è diventata una scienza davvero triste. E la rivolgo, questa lezione, anche ai colleghi dell’altra classe: che credo scoprirebbero, in questa mia breve storia della “scienza economica”, un curiosum epistemologico.
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Smascherare i sionisti che iniziano a sventolare le bandiere palestinesi!
di Massimiliano Ay
Israele forse sta vincendo tatticamente, ma dal punto di vista strategico ne uscirà certamente sconfitta: sta subendo infatti perdite militari ed economiche importanti e le contraddizioni interne allo stesso sistema sionista crescono di giorno in giorno, senza contare la pessima reputazione che si è ormai costruita agli occhi non solo delle masse popolari dei paesi emergenti, ma anche in Occidente. Le élite occidentali, interessate a mantenere in piedi l’Entità sionista, ora si devono quindi riorganizzare: il genocidio iniziato nel 1948 con la fondazione di Israele e che da oltre due anni si sta compiendo in maniera sempre più spietata e manifesta ai danni del popolo palestinese è sempre stato tollerato dall’UE, dagli USA e dalla NATO, ma ora sta diventando un fattore di instabilità che deve cessare. Per farlo, senza al contempo intaccare il potere sionista in quanto tale, che resta necessario geopoliticamente nel conflitto fra l’imperialismo e il multipolarismo, bisogna che cada il solo governo di Benjamin Netanyahu così da far credere all’opinione pubblica internazionale che il problema sia solo lui (e il suo partito di estrema destra) ma non il sionismo in sé.
Ecco perché la guerrafondaia Kaja Kallas, alta rappresentante dell’UE (e sionista), ha di punto in bianco iniziato a dire di voler revisionare l’accordo di associazione UE-Israele e, con due anni di ritardo, inizia pure a mostrare pietà per i palestinesi: sono ovviamente lacrime di coccodrillo! Ed ecco perché anche l’ultra-sionista Donald Trump potrebbe far riconoscere lo Stato di Palestina dagli USA.
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Essere senza tempo nel “tic-tac” del capitalismo
di Marco Sferini
Essere senza tempo potrebbe sembrare un paradosso: in fondo il tempo lo si vive, che lo si voglia o no. Eppure tu dici che il tempo in qualche modo ci viene rubato, sottratto. Da chi, da cosa?
Tra le molteplici definizioni che si possono attribuire al nostro specifico momento storico ve n’è una che forse, meglio delle altre, coglie il suo spirito: il nostro presente è l’epoca della fretta, un “tempo senza tempo” in cui tutto corre scompostamente e senza fermarsi mai, impedendoci non soltanto di vivere pienamente gli istanti presenti, che si succedono vorticosamente, ma anche di riflettere serenamente su quanto accade intorno a noi. Troppi eventi vanno accumulandosi in lassi di tempo sempre più ristretti, determinando, in noi che viviamo questa accelerazione di ogni settore dell’esperienza (dall’ambito della vita quotidiana a quello lavorativo, dai processi di apprendimento al mondo delle informazioni), una sensazione spaesante e, insieme, irritante: non abbiamo mai tempo sufficiente per tutto quello che dovremmo o vorremmo fare. La modernità, con la sua passione per il futuro, aveva scientemente scelto la strada dell’accelerazione dei ritmi in nome dell’avvenire: il presente era inteso come punto di passaggio in vista di un futuro diverso e migliore.
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L'effetto Berlusconi
Antonio Gnoli intervista Slavoj Žižek
Si può analizzare un fenomeno mediatico, politico, culturale qual è da quasi un ventennio Silvio Berlusconi, senza lasciarsi condizionare dal fastidio che l'«oggetto» in questione sovente provoca in chi lo analizza? Non è una forma di neutralità che si invoca, ma una connessione più attenta tra superficie e profondità: diciamo tra il volto-maschera, al quale ci ha abituati nelle sue molteplici apparizioni televisive, e l'anima-merce, nella quale albergano desideri, finzioni, progetti. Per molti italiani egli è l'uomo del sogno: figura temibile e consolatoria a un tempo, le cui parole, quando vengono pronunciate, hanno per lo più un carattere fuggitivo. Nello schema generale del suo linguaggio rassicurante (legato all'idea del fare) le variazioni sono minime, e la mobilità è massima. Nel senso che Berlusconi tende a dire sempre le stesse cose, ma nel dirle - come accade nei sogni - le parole hanno un carattere volatile e lievemente ipnotico. Quel linguaggio diverte e rassicura coloro che ne sposano i contenuti. Egli incarna un potere «grottesco»: esilarante, minaccioso, imprevedibile, efficace. Ci ha colpiti il modo col quale, qualche tempo fa, sulla «London Review of Books», Slavoj Zizek riportava quel potere all'ironica immagine di un Panda, protagonista di un cartoon di successo. Ed è la ragione per cui abbiamo voluto incontrare questo intellettuale che con grande libertà ha messo assieme Lacan e il cinema, indagato Freud e Marx e preferito il moderno al «post». Zizek non si considera un esperto di Berlusconi e soprattutto — tiene a precisare — pensa che per molti versi il problema non sia lui, ma che lo stesso Berlusconi sia l'effetto di un processo più generale che non coinvolge solamente l'Italia. Il discorso, dunque, non può che cominciare dall'intreccio tra due figure cardine della modernità: politica ed economia.
Lei sostiene che sia stata recisa ogni connessione fra democrazia e capitalismo. Com'è accaduto? E cosa sostituisce oggi quel legame?
Sì, nella mia interpretazione questo accade soprattutto in Cina, anche se non solo lì. Qualche tempo fa il mio amico Peter Sloterdijk mi confessò che, dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, la sua risposta sarebbe Lee Kwan Yew, per oltre trent'anni Primo ministro di Singapore. E stato lui a inventare quella pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare «capitalismo asiatico»: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro ma che può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia. Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le riforme e si convinse che quel modello andava applicato alla Cina.
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Produttività alle stelle, salari e occupazione alle stalle; si va verso la catastrofe
di Gianni De Bellis e Mario Fragnito
Ci scusiamo innanzitutto del ritardo e della parzialità con cui rispondiamo alle obiezioni dei compagni, ma, per ragioni soprattutto lavorative e familiari, non possiamo, come altri fortunati, passare molto del nostro tempo a scrivere. Per questo finora, per anni, ci eravamo quasi sempre limitati a leggere quello che altri compagni scrivevano su “Collegamenti” e altri siti politici.
Sull’argomento della crisi pensavamo e pensiamo di poter dare anche noi, nel nostro piccolo, un modesto contributo, da qui l’espansione del nostro ruolo sulla lista. I nostri due lavori pubblicati [“risposta a Carlo, Sacchi e Pagliarone sulla decomposizione del capitalismo” e “risposta a Giussani sulla crisi e sul saggio di profitto”] hanno riscosso sia consensi che critiche, come era logico aspettarsi, tuttavia il nostro auspicio è che possano anche contribuire ad un sereno e costruttivo dibattito collettivo. Sappiamo per esperienza che anche i punti di vista diversi dai propri servono, forse più di quelli simili, a farci riflettere e ad arricchirci. L’importante è che il dibattito sia improntato ad una sincera ricerca senza scadere nella polemica o nella mancanza di rispetto tra i compagni; in questo ci scusiamo se involontariamente lo abbiamo fatto noi nei riguardi di qualche compagno negli interventi precedenti: non era assolutamente nelle nostre intenzioni.
Cerchiamo qui di rispondere solo a qualche critica o a qualche osservazione, anche se dovremo comunque impiegare parecchie pagine; le risposte saranno l’occasione per la definizione più puntuale di alcuni concetti.
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La rivoluzione da Mosca a Cambridge*
di Emiliano Brancaccio
Pareva destinato a diventare una reliquia, un polveroso cimelio del periodo tra le due guerre. Ed invece, dopo il fallimento di Lehman Brothers dell’ottobre 2008 e l’inizio della cosiddetta Grande Recessione, il nome di Keynes è tornato improvvisamente a risuonare nei dibattiti di politica economica. Si tratta, beninteso, di una evocazione ancora spettrale, che per adesso incide solo in termini marginali e confusi sulle azioni pratiche delle autorità monetarie e di bilancio. Ma già il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito.
Il rinnovato interesse per l’eresia keynesiana costituisce un segno del terremoto che dall’inizio della crisi ha iniziato ad agitare il campo di battaglia delle teorie e delle politiche economiche. Come però tipicamente capita alle visioni per lungo tempo sommerse e dimenticate, il pensiero di Keynes risulta oggi appannato da una vulgata approssimativa, per molti versi fuorviante. Si consideri ad esempio una delle sue più celebri affermazioni: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Questa frase viene spesso affiancata ad un’altra sua enunciazione, scritta diversi anni dopo: «Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata [..] di scavar fuori di nuovo i biglietti [..], non dovrebbe più esistere disoccupazione». Basandosi su queste due frasi giustapposte, svariati commentatori hanno preteso di descrivere Keynes come un intellettuale frivolo, irresponsabile, incurante del futuro, fautore dello sperpero e della dissipazione di risorse produttive.
Con buona pace dei veri esegeti di Keynes, questa chiave di lettura risulta oggi diffusa e influente.
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Vite parallele
Elisabetta Teghil
Plutarco scrisse “Vite parallele”, biografie a confronto di personalità greche e romane.
Marx, si cita sempre in queste occasioni, disse che le vicende si ripetono due volte, la prima in termini tragici, la seconda in dimensione di farsa.
Non è questo il caso. L’anima dell’opera di Plutarco era precettistica ed etica, il dramma è oggi.
L’accostamento, allora, era spesso artificioso, mentre in questa occasione è calzante.
Intendiamo parlare di Lucas Papademos e Mario Monti che governano ad Atene e a Roma, presentati, l’uno e l’altro, come dei tecnici.
Secondo dei buontemponi, che tanto in buona fede non sono, ci sarebbero zone franche così dette “apolitiche”.
La nomina, ai vertici dello Stato, di tecnocrati, presentati sempre come provvidenziali, smaschera l’inconsistenza delle false alternanze politiche.
Intanto, chiariamo subito che, l’uno e l’altro, sono uomini di destra, checché ne dicano quelli/e che si sono inventati l’annullamento della destra e della sinistra.
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L'Italia nella crisi
Marino Badiale e Massimo Bontempelli
Nelle terribili turbolenze che stanno investendo i mercati e che hanno ricadute crudeli su alcuni paesi, è davvero essenziale, per preservare quel che resta della civiltà da un'inedita barbarie, possedere diagnosi e prognosi corrette di quel che sta succedendo. Alcuni sottovalutano il ruolo della speculazione finanziaria, sostenendo (come ha fatto anche il presidente della Repubblica Napolitano) che se le condizioni di un paese sono sane, esso non ha nulla da temere dalla speculazione, dimenticando, tra tante altre cose, che la sanità rispetto alla speculazione e quella rispetto all'economia reale sono ben distinte, e che le condizioni che appaiono sane perché allontanano gli attacchi speculativi, possono essere quanto mai nocive per l'economia reale.
Altri puntano il dito contro la speculazione, ma in maniera sbagliata e distorcente perché la intendono come un'attività specifica di alcuni gruppi finanziari (ad esempio i famosi hedge fund). La prima cosa da comprendere è, invece, che speculazione e sistema finanziario globale, inclusivo di tutte le sue diversissime articolazioni, sono esattamente la stessa cosa. Il sistema finanziario globale, cioè, non può agire che in maniera ininterrottamente speculativa nella sua interezza.
Per comprendere questa realtà occorre fare riferimento a tre concetti marxiani: accumulazione allargata, plusvalore e capitale fittizio.
È dimostrato da Marx e dai fatti che il capitale non può autoriprodursi se non allargandosi continuamente, e che il suo allargamento consiste in una produzione crescente di plusvalore dal valore.
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Si può ancora dire classe? Appunti per una discussione
di Maurizio Ricciardi
Questo testo riprende e amplia l’intervento del 20 marzo 2023 al Laboratorio di teorie antagoniste, organizzato a Bologna presso l’Ex-Centrale di via Corticella 129
1. Le classi e la classe
Poniamo direttamente la questione: esiste ancora la classe? Possiamo dare per scontato che esistano le classi. Esiste cioè una classificazione degli individui in base alla differente posizione occupata all’interno del processo di produzione e riproduzione della società. È difficile negare che queste differenze esistano. Il problema è caso mai se è ancora utile ragionare in termini di classe per sottrarsi e possibilmente cancellare questa classificazione. Storicamente l’affermazione e, per un certo periodo di tempo, il predominio del linguaggio di classe è stato il modo in cui milioni di uomini e di donne hanno cercato di farla finita con la classificazione che li collocava in una posizione subordinata all’interno della società. Questo è un primo punto che deve essere sottolineato. Il linguaggio di classe ha un doppio significato: esso è originariamente un linguaggio d’ordine e solo successivamente diviene la rivendicazione di una possibile rivolta contro l’ordine delle classi. Inizialmente esso serve a classificare una molteplicità di fenomeni prima nelle scienze naturali e poi anche in quelle sociali, assegnando a ciascuno e ciascuna il suo posto. Questa ossessione classificatoria del sociale deriva dall’altrettanto ossessiva paura per il caos prodotto dalla presenza simultanea di una moltitudine di individui formalmente uguali senza alcuno status ascritto. I loro movimenti, le loro azioni, le loro stesse parole vengono percepiti come la minaccia di un disordine potenzialmente ingovernabile. La presenza delle classi è in un primo tempo attribuita alla contrapposizione all’interno del popolo di due gruppi divisi dalla loro diversa origine. Al gruppo dei conquistatori viene opposta la rivolta dei conquistati che ristabilisce il giusto ordine.
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Quel pasticciaccio brutto dell’euro
Sergio Cesaratto
« [...] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. »
Introduzione1
In questo saggio illustreremo la spiegazione Classico-Kaleckiana della crisi dell’Eurozona, per domandarci successivamente se questa crisi sia effettivamente un effetto indesiderato o, invece, essa rappresenti il dispiegamento dei veri obiettivi della moneta unica. Esamineremo infine le possibili vie d’uscita, inclusa quella di un massiccio piano d’investimento europeo propugnato dal sindacato tedesco. Mentre quest’ultima soluzione ci appare come inadeguata, altre due – rispettivamente la più desiderabile via Keynesiana e la più densa di incognite rottura dell’euro – ci appaiono per ora non nell’ordine delle cose, a meno di un grave incidente politico-finanziario che conduca dritti al secondo esito. Al momento quella che è stata definita come la kossovizzazione della periferia europea sembra come la prospettiva più probabile. Se essa condurrà a un certo punto ad altri rivolgimenti è impossibile a dirsi ora.
1. Sovrappiù e domanda aggregata
Per comprendere il brutto pasticcio in cui il nostro paese si è cacciato può essere utile ripercorrere le origini e natura della crisi dell’unione monetaria europea (UME) (Cesaratto 2013a/b/c). Nel sviluppare il nostro ragionamento faremo alcuni riferimenti alla seconda edizione del volume di Yanis Varoufakis (2013), economista legato a Syriza, Il minotauro globale2.
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Benjamin, Facebook e la fine della distanza tra la radio e il suo pubblico
Tiziano Bonini
È vero. Il titolo suona blasfemo. Accostare la parola Facebook a Walter Benjamin può suonare come “un porno al cinema d’essai” (l’espressione non è mia, ma di un direttore di Radio Popolare per definire il programma Bar Sport all’interno del palinsesto di una radio come quella milanese). Eppure questo articolo farà proprio questo: accosterà il pensiero radiofonico di Benjamin ai cambiamenti che social media come Facebook hanno portato alla radio stessa. Si parla molto di user generated content, come se fosse un tratto distintivo dei soli social media digitali. E invece già negli anni trenta, all’alba dell’era della comunicazione di massa, Benjamin aveva intuito la radicalità di questi strumenti, se solo fossero stati aperti alla partecipazione dei lettori/ascoltatori/spettatori. I social media di oggi rappresentano solo la tappa finale di un lungo processo di abbattimento delle barriere tra emittente e ricevente. Proverò brevemente a ripercorrerne le tappe e a proporre una riflessione su cosa cambia nel fare la radio oggi, ai tempi di Facebook.
Nel 1933 Brecht, proiettando sulla radio le sue tesi sul teatro didattico, scriveva: “La radio potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si possa immaginare, uno straordinario sistema di canali, cioè potrebbe esserlo se fosse in grado non solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con gli altri. La radio dovrebbe di conseguenza abbandonare il suo ruolo di fornitrice e far sì che l’ascoltatore diventi fornitore”. Ma ancora prima di Brecht, e in maniera ancora più brillante, era stato Walter Benjamin ad intuire il potenziale radicale della radio come “social medium”. Mentre Adorno e Horkheimer consideravano la radio uno strumento di propaganda e di intrattenimento soporifero, Benjamin, complice una maggiore conoscenza del mezzo che gli veniva dall’aver prodotto per la radio della Repubblica di Weimar novanta trasmissioni dal 1929 al 1933, mantenne una visione positiva del mezzo, capace secondo lui di trasformare il rapporto del pubblico con la cultura e la politica. Ma è nelle Riflessioni sulla radio (1930) che Benjamin esprime le idee più fertili per il nostro tempo: “il fallimento cruciale della radio è stato di perpetuare la separazione fondamentale tra i produttori radiofonici e il suo pubblico, una separazione che è in contrasto con la sua base tecnologica (…) il pubblico deve essere trasformato in testimone nelle interviste e nelle conversazioni e deve avere l’opportunità di farsi sentire”. La radio che aveva in mente Benjamin è uno strumento che riduce la distanza tra chi trasmette e chi riceve, in cui sia l’autore/conduttore sia l’ascoltatore possono rivestire il ruolo dei produttori, contribuendo entrambi alla costruzione della narrazione radiofonica.
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Eserciti nelle strade*
Alcune questioni intorno al rapporto NATO "Urban operation in the year 2020
A cura di «Nonostante Milano»**
Elementi d’algebra: la discarica dell’eccedenza
Per la prima volta nella storia, la maggioranza della popolazione mondiale vive in città [1]. E grandi quote di questa popolazione urbana conoscono condizioni d’assoluta povertà. Il concentramento di queste sterminate masse umane entro spazi sempre più ristretti, al fine di controllarle e sfruttarle meglio [2], ha generalizzato le baraccopoli su tutti i continenti, nessuno escluso, dando luogo a quello ch’è stato definito il “pianeta degli slum”. Secondo il rapporto dell’ONU The Challenge of Slums. Global Report on Human Settlements (2003), attualmente vivono negli slum quasi un miliardo di persone (una ogni sei, se si considera l’intera popolazione mondiale, ovvero un abitante di città su tre) e si ritiene che questo numero possa raddoppiare entro il 2030, talché nello stesso rapporto si parla di una crescente “urbanization of poverty”.
La Banca Mondiale, alla fine degli anni Novanta, aveva già messo a fuoco le conseguenze di questo processo: “La povertà urbana diventerà il problema principale e politicamente più esplosivo del prossimo secolo” [3]. La ricetta è però sempre la stessa: Praful Paten, rappresentante della Banca Mondiale al World Urban Forum organizzato da UN-Habitat (agenzia dell’ONU) a Barcellona nel 2004, in quella sede ha sostenuto che commercio internazionale e globalizzazione “nella maggior parte dei casi funzionano”.
Non è possibile fare qui un’esposizione dettagliata dell’urbanesimo planetario e dell’immiserimento nell’epoca della catastrofe capitalista; ci limiteremo quindi a una veloce carrellata.
Secondo UN-Habitat, le più alte percentuali (sopra il 90%) di abitanti negli slum si trovano in Etiopia, Ciad, Afghanistan e Nepal. “Bombay, con dieci o dodici milioni di occupanti abusivi e abitanti di casamenti, è la capitale globale dello slum, seguita da Città del Messico e Dhaka (tra i nove e i dieci milioni ciascuna), e poi Lagos, Il Cairo, Karachi, Kinshasa-Brazzaville, São Paulo, Shanghai e Delhi (tra i sei e gli otto milioni ciascuna)” [4]. Complessivamente, dall’inizio degli anni Settanta, nel Sud del mondo gli slum hanno avuto una crescita superiore all’urbanizzazione in quanto tale.
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Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre"
Luigi Cavallaro
Dodici anni fa, Marco Revelli pubblicò un libro intitolato "Le due destre". Vi si sosteneva che lo scenario politico italiano vedeva contrapporsi non una destra e una sinistra, bensì due destre, una tecnocratica ed elitaria, l'altra populista e plebiscitaria. Che entrambe avevano l'obiettivo di offrire una sponda al processo di ristrutturazione in corso nel mondo produttivo, smantellando le regole e le garanzie su cui si era costruito il compromesso socialdemocratico della seconda metà del '900. Che entrambe rimettevano al centro del discorso politico l'impresa, in pro della quale si prefiggevano privatizzazioni del patrimonio industriale pubblico, flessibilizzazione del mercato del lavoro e tagli delle prestazioni sociali (dalle pensioni alla sanità alla scuola). E che, unite nei fini, esse si distinguevano nei mezzi, la destra tecnocratica ed elitaria puntando essenzialmente alla mobilitazione dei ceti medi riflessivi in un progetto di società individualizzata e competitiva, la destra populista e plebiscitaria rivolgendo invece la propria offerta politica alle fasce sociali che più avrebbero sofferto del crollo della domanda indotto dalla dissoluzione del precedente patto sociale, vale a dire la piccola e media impresa, i disoccupati, i precari, i sommersi (e mai salvati).
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Xi Jinping a Mosca per la Parata del 9 Maggio: Pechino sfida gli avvertimenti di Kiev
di Clara Statello
Nonostante le minacce e gli allarmi su possibili attacchi o false flag, nessun leader ha ritirato la partecipazione. L’evento si trasforma in un banco di prova per l’asse Russia-Cina e l’influenza diplomatica di Zelensky
Il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping si recherà a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio, nonostante gli avvertimenti di Kiev. Lo ha confermato domenica mattina il Cremlino con una nota ufficiale, nella quale comunica che il leader cinese compirà una visita ufficiale nella Federazione Russa dal 7 al 10 maggio.
Oltre alla partecipazione alle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della vittoria sul nazismo, sono in agenda colloqui bilaterali sulle “principali questioni relative all'ulteriore sviluppo delle relazioni di partenariato globale e di interazione strategica, nonché le questioni di attualità dell'agenda internazionale e regionale” tra Russia e Cina.
Inoltre si prevede la firma di una serie di documenti bilaterali intergovernativi e interdipartimentali, riferisce la nota.
Chi sarà presente alla parata della Vittoria
Il primo ministro slovacco Robert Fico e il presidente serbo Aleksandr Vucic saranno a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio. Ieri la loro presenza era stata messa in dubbio dalle condizioni di salute dei due leader, che negli scorsi giorni avevano annullato all’ improvviso di importanti attività politiche. Questa mattina entrambi hanno ufficialmente confermato la partecipazione.
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Il diritto di avere diritti
Carlo Formenti, Stefano Rodotà
Per una replica da Rodotà
Carlo Formenti
Bellissimo il titolo – Il diritto di avere diritti (Laterza, 2012, 433 pp., € 20,00) – del saggio di Stefano Rodotà perché sintetizza perfettamente il nodo centrale attorno acui ruotano i molti temi di un lavoro stimolante e complesso. L’obiettivo di questo articolo, tuttavia, non è recensire il libro, né ricostruirne nel dettaglio i percorsi argomentativi, bensì evidenziarne quelle che mi paiono le tesi più interessanti e, al tempo stesso, metterne in luce alcune aporie per sollecitare repliche e approfondimenti da parte dell’autore. In particolare intendo concentrarmi su quattro punti: 1) Chi è il titolare del «diritto di avere diritti» evocato nel titolo e in che modo può essere fatto valere questo «meta-diritto»? 2) Quanto e come questo concetto può contribuire a tutelare quei diritti sociali che rischiano di essere spazzati via dallo strapotere del mercato? 3) Come si inquadra il tema dei beni comuni nello scenario descritto dal saggio? 4) Come si definiscono i «nuovi diritti» associati all’avvento della rete e quali ostacoli si frappongono alla loro realizzazione? Partiamo dal primo punto, che a mio avviso è quello che solleva più problemi. Per Rodotà il titolare del diritto di avere diritti è la persona. Attenzione però: per capire il senso che l’autore attribuisce a tale termine occorre andare oltre i confini classici in cui lo rinchiudono le tradizioni del pensiero giuridico, filosofico, sociologico e psicologico.L’idea di persona che ci propone Rodotà è un’«immagine» che deve essere costruita ex novo, allo scopo di fronteggiare la crisi di civiltà associata al collasso della sovranità nazionale, cioè di quello che, almeno finora, è stato il «contenitore» per eccellenza tanto dei diritti quanto dei soggetti (i cittadini degli Stati-nazione) che ne erano titolari.
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Nuova lettera a Liliana Segre
di Elena Basile
Sento il dovere di oppormi ad alcuni argomenti utilizzati da Liliana Segre nell’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 5 maggio 2025. La Senatrice rappresenta una delle voci più autorevoli e lucide della comunità ebraica, una sorta di icona, nel bene come nel male, di un certo potere italiano. Appare essenziale confutare alcune tesi da lei sostenute, proprio in quanto in grado di influenzare l’opinione pubblica, seminando una confusione che potrebbe essere nociva al dibattito democratico.
Spero che la Senatrice non me ne voglia e non mi denunci nuovamente per antisemitismo. Io la leggo con attenzione e rispetto. Mi domando se Liliana Segre faccia lo stesso con i miei scritti e quelli di tanti altri, a cominciare da Moni Ovadia e Raniero La Valle, che esprimono una critica senza indulgenze alle politiche di Israele e non solo al Governo di Netanyahu.
Ecco, in sintesi, le mie obiezioni a una certa retorica che traspare dalle risposte assertive della Senatrice.
1. Si afferma, in un inciso, di non voler confondere un governo democraticamente eletto, quello di Netanyahu, con un movimento terroristico, Hamas.
In effetti, Hamas è stato anch’esso eletto democraticamente a Gaza nel 2007 e aveva fatto non poche aperture sul riconoscimento di Israele, che vennero rimandate al mittente.
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Italia a marcia indietro
di Guido Salerno Aletta*
Un’analisi spietata del “modello economico” italiano ed europeo. Ma fatta su un giornale economico, non su un opuscolo “antagonista”. La miseria profonda del capitalismo nazionale emerge ormai senza alcun velo.
Non c’è molto da aggiungere, anche se crediamo che il risultato dei referendum sul jobs act – anche se non cambierebbero la situazione dei salari, nell’immediato – potrebbero diventare una spinta politica per rimuovere la “passività” dei lavoratori, che sembrano da anni tramortiti da una condizione di vita e reddituale ai limiti della sopravvivenza.
Buona lettura. E tenete d’occhio i corsivi…
Prima i numeri, che già da soli dicono tutto: perché questo è il risultato di mezzo secolo di polemiche sull’”alto costo del lavoro” in Italia, il problema che veniva sbandierato come la fonte di tutti i mali.
A valori concatenati con anno di riferimento 2020, e quindi sterilizzando la dinamica dei prezzi [facendo comunque finta che l’inflazione reale, per i redditi bassi, sia davvero quella ufficiale registrata dall’Istat, ndr], la spesa per consumi finali delle famiglie italiane era stata nel 2007 di 1.111 miliardi di euro, un livello mai registrato successivamente. Diciassette anni dopo, nel 2024, è stata ancora di appena 1.085 miliardi, dunque inferiore del 2%.
La spesa per consumi finali delle P.A. è rimasta inchiodata per via della ultradecennale questione del debito insostenibile, passando da 364 miliardi del 2007 ai 363 miliardi di euro del 2024 [anche qui, probabilmente, lo scarto rispetto all’inflazione ufficiale è sensibilmente maggiore, ndr].
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Vi spiego perché vogliono andare alle elezioni proprio adesso
di Claudio Messora
Il Parlamento peggiore della storia di questa Repubblica SpA si avvia a fare le valigie. Con pochissime eccezioni, arroccate sia tra le fila dei partiti che nei gruppuscoli di fuoriusciti, numericamente ininfluenti, questa masnada di pavidi, opportunisti, utili idioti ed arrivisti ha avallato la peggiore macelleria sociale e le politiche di repressione più violente dai tempi della Seconda guerra mondiale, tanto più stolide quanto basate su assunti scientifici traballanti quando non completamente falsi. Ha supinamente recepito tutte le direttive imposte dall’alto, e non già dalle organizzazioni internazionali, di per sé poco rappresentative degli stati nazionali perché comunque eterodirette, come l’Oms, ma direttamente dalle multinazionali e dai ricchi padroni del pianeta che si riuniscono nei loro parlamenti privati di Davos. Un Parlamento che avrebbe dovuto rappresentare la voce del popolo italiano (perché siamo ancora, sebbene formalmente, una Repubblica parlamentare), e che invece, esattamente come i sindacati, ha rappresentato solo la sua subordinazione muta al potere dei soldi, della finanza e dei progetti di ingegneria sociale dei multimiliardari globali.
Per un parlamentare la prima legge morale è la coerenza. In questo senso, forse i migliori sono i piddini: tutto quello che è successo è opera loro, fa parte del loro dna. Sono loro i globalisti, i cessori di sovranità, loro che anelano ad un mondo in cui il potere anche politico risiede nelle mani di pochi, possibilmente lontano dai popoli che amministrano, meglio sarebbe addirittura su un altro pianeta.
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Quorum referendario: e se….?
di Alessandro Mariani
Parafrasando Einstein con lo sguardo volto ai fatti di casa nostra, si può dire che se ci sono due cose infinite, queste sono la tracotante ignoranza della destra e la stupidità della sinistra. La cosa però finisce qui, perché mentre Einstein nutriva qualche dubbio sulla smisurata vastità dell’universo, noi non ne abbiamo alcuno riguardo all’affermazione dalla quale siam partiti. In fisica due forze uguali e contrarie si annullano, ma nella politica nostrana le cose vanno diversamente e destra e sinistra si rafforzano a vicenda. Non in termini elettorali, è ovvio; semmai nel senso che l’una diventa sempre più becera mentre l’altra diventa sempre più stupida.
Ma se la fisica la fa facile la politica è più complicata, e raggiunto il livello di saturazione le qualità in eccesso si trasferiscono da una parte all’altra. A conferma di ciò, solo per restare ai fatti più recenti, si prenda ad esempio l’invito alla sobrietà per ricordare l’ottantesimo Anniversario della Liberazione; un’idiozia in piena regola rilanciata all’unisono da tutti i giornalacci della destra. E di converso, quanto sono state volgari, false e tracotanti le grida della sinistra (M5S compreso) contro l’invito all’astensione per i prossimi referendum avanzato da alcuni esponenti della destra? Il tutto rilanciato, com’era naturale che fosse, dai giornaloni di marca progressista.
Il voto come dovere civico, la fattiva partecipazione dei cittadini… e chi più ne ha più ne metta. Ma da che pulpito?! Non erano stati i Democratici di Sinistra, a far esplicita propaganda astensionista per il referendum del 2003, guarda caso sempre in materia di lavoro?
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Osservazioni sulla crisi*
Antiper
La relazione introduttiva di Giulio Palermo all'assemblea sulla crisi economica che si è tenuta a Massa il 24 febbraio scorso1 è stata certamente interessante ed ha offerto molti elementi di riflessione. Il punto più forte è stato senza dubbio quello dell'aver interpretato la crisi come crisi derivante, in ultima istanza, dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, ciò che viene spesso dimenticato oppure, quando va bene, ricordato in modo puramente rituale. E' stato meritevole anche il fatto di aver introdotto la serata con una sostanziosa ricognizione su alcune categorie marxiane (dalla differenza tra capitale fisso e capitale costante, al plusvalore, alla formulazione del saggio medio di profitto, accennando anche ad una critica alle impostazioni “empiriste” ed al metodo di misurazione adottato in alcune analisi econometriche).
Molti passaggi sono risultati condivisibili, alcuni anche in modo inatteso (visto l'andazzo nel cosiddetto “movimento”), come il richiamo a non schierarsi, anche solo inconsapevolmente, a fianco del “capitalismo dal volto umano” -magari quello dei settori produttivi che “danno lavoro” -contro il capitalismo “cattivo” delle banche (per quanto una distinzione di questo genere, dopo l'Imperialismo di Lenin, sia ormai in larga parte formale). E' un punto importante che da anni andiamo sostenendo nei confronti di coloro che hanno agitato la categoria di “neo-liberismo” proprio nel senso paventato da Palermo il quale è stato tanto più meritevole in quanto, pur avendo scritto un libro intero sui caratteri del neo-liberismo2, ha usato con parsimonia questa categoria.
Invece di riassumere tutte le questioni emerse nella serata, ci concentriamo solo su quelle che a noi paiono più controverse. Ne indichiamo due in particolare, entrambe di carattere principalmente “politico”: “movimento no debito” e “de-mercificazione”.
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Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
di Michelangelo Severgnini
Trenta miliardi di scambio commerciale tra Italia e Turchia. Questo era il traguardo da celebrare in pompa magna. E’ stato persino rinviato, prima per il viaggio negli States della Meloni, in seguito per la morte del papa. Ma prima che cominci il conclave, un buco è stato trovato.
La Turchia è volata a Roma nella giornata di martedì 29 aprile 2025 con quasi l’intero governo: oltre al presidente Erdogan sono atterrati a Ciampino: il ministro degli Affari esteri Hakan Fidan, il ministro della Famiglia e dei servizi sociali Mahinur Özdemir Gökta, il ministro della gioventù e dello sport Osman Aikin Bak, il ministro della cultura e del turismo Mehmet Nuri Ersoy, il ministro della difesa nazionale Yafar Güler, il ministro dell'industria e della tecnologia Mehmet Fatih Kacer, il ministro del commercio Ömer Bolat, il capo del M?T Ibrahim Kalin, il Direttore delle Comunicazioni della Presidenza Fahrettin Altun, il capo delle Industrie della Difesa della Presidenza Haluk Görgün e tanti altri.
Migrazione, Europei di calcio 2032, Libia, scambio commerciale a tutti i livelli, ma soprattutto armi. Da un lato il bisogno di armarsi europeo e italiano. Dall’altro il desiderio di vendere armi turco.
“Puntiamo ai 40 miliardi!”, hanno esclamato in coro la Meloni ed Erdogan.
Se questo è stato un banchetto di nozze, la firma dell’accordo di matrimonio è stata messa il 6 marzo scorso, quando Leonardo, il colosso italiano della difesa e aerospazio, e l’azienda turca dei droni Baykar hanno siglato un Memorandum of Understanding per dar vita a una joint-venture, con sede in Italia, dedicata alla progettazione, sviluppo, produzione e manutenzione di sistemi aerei senza pilota.
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La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
di Michelangelo Severgnini
Un rapida rassegna stampa alle uniche testate che oggi hanno riportato, a modo loro, i fatti in corso a Tripoli:
1) Il Manifesto.
La tesi del Manifesto: invece di fare non si capisce bene cosa, l'Italia ha pensato solo a fermare i migranti, quindi abbiamo reso potenti i criminali che adesso si sparano uno con l'altro.
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