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Una rapina chiamata libertà
di Carlo Rovelli
Nel corso della mia vita, ho visto la parola “libertà” subire una spettacolare traiettoria discendente. È passata da luminoso ideale universale, a ipocrita copertura della difesa di privilegi.
“Libertà” è stata la parola d’ordine della Rivoluzione Francese per liberarsi dal dominio dell’aristocrazia. Della Rivoluzione Americana per liberarsi dal dominio della corona inglese. Delle comunità religiose che volevano liberarsi dal potere corrotto delle gerarchie cattoliche. Delle polis greche che non volevano cadere nelle mani dell’impero persiano. Dei popoli che cercavano di liberarsi da secoli di feroce sfruttamento coloniale. È stata l’ideale della lotta contro fascismo e nazismo che avevano scatenato un’immensa aggressività distruttiva. Libertà è stata la parola magica che aleggiava sulla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sulla dichiarazione d’indipendenza, sulla Rivoluzione Russa e su quella Cinese. Era Galileo libero di difendere l’idea che la Terra gira. Era libertà dai dogmi, era l’idea che il pensiero non debba essere costretti in limiti. Gli esseri umani non debbano essere schiavi, non debbano essere in catene.
Libertà è stata la parola d’ordine della mia generazione, che rifiutava ipocrisie e imposizioni di un mondo dominato da minoranze, e voleva cercare la sua strada. Da ragazzo, percepivo attorno a me un mondo pieno di regole che volevano impormi modi di essere che mi sembravano ingiusti.
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I limiti del keynesismo
di Michel Husson
La stagnazione europea sembra dare ragione alle “analisi keynesiane”. Il ragionamento di fondo è il seguente: l’austerità provoca recessione e debito, si tratta quindi di una politica assurda. Sarebbe meglio rilanciare l’attività economica attraverso politiche monetarie e di bilancio più dinamiche e un aumento dei salari e/o degli investimenti pubblici. Questa presentazione è un po’ caricaturale, ma è un riassunto provvisorio del nocciolo di questo discorso che chiameremo, per comodità, “keynesiano”.
La critica che possiamo indirizzare a questo discorso obbedisce alla seguente dialettica:
- Le proposte “keynesiane” sono in un certo senso corrette;
- ma fanno astrazione della logica profonda del capitalismo,
- e perciò conducono ad alternative incoerenti poiché incomplete.
I modelli post-keynesiani
La diagnosi “keynesiana” si fonda sul ricorso ai cosiddetti modelli di stock-flow consistent realizzati da una scuola di economisti eterodossi che si definiscono piuttosto come “post-keynesiani”. Questi modelli combinano i flussi (per esempio il volume della produzione, l’investimento, la massa salariale) con gli stock (per esempio il capitale fisso, l’indebitamento,ecc.).
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La rivoluzione reazionaria
di Maurizio Zanardi
Il capitale umano e l’avvenire della politica
1. Apocalisse
“Nel 1971-72 è cominciato uno dei periodi di reazione più violenti e forse più definitivi della storia. In esso coesistono due nature: una è profonda, sostanziale e assolutamente nuova, l’altra è epidermica, contingente e vecchia. La natura profonda di questa reazione degli anni settanta è dunque irriconoscibile; la natura esteriore è invece ben riconoscibile”[1], così scriveva Pasolini nel luglio del 1973 in un articolo apparso su “Tempo illustrato”. In apparenza il periodo iniziato nel 1971-72 sembra connotato dal “risorgere del fascismo, in tutte le sue forme, comprese quelle decrepite del fascismo mussoliniano, e del tradizionalismo clericale-liberale”. Ma questo aspetto più immediato, assai facile da riconoscere, che asseconda le pigre abitudini interpretative, nasconde la natura profonda, la violenza inaudita, l’aspetto assolutamente nuovo e definitivo di ciò che per Pasolini è in incubazione già a metà degli anni ’60. Da questo punto di vista, il termine “reazione” si rivela del tutto inadeguato alla natura profonda del processo in atto:
La restaurazione o reazione reale cominciata nel 1971-72 (dopo l’intervallo del 1968) è in realtà una rivoluzione. Ecco perché non restaura niente e non ritorna a niente; anzi, essa tende letteralmente a cancellare il passato, coi suoi “padri”, le sue religioni, le sue ideologie e le sue forme di vita (ridotte oggi a mera sopravvivenza). Questa rivoluzione di destra, che ha distrutto prima di ogni cosa la destra, è avvenuta attualmente, pragmaticamente. Attraverso una progressiva accumulazione di novità (dovute quasi tutte all’applicazione della scienza): ed è cominciata dalla rivoluzione silenziosa delle infrastrutture[2].
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Un nuovo Marx
di Roberto Fineschi
[Trascrizione, con revisione minima, della conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018”, tenutosi presso Le stanze delle memoria il 22 ottobre 2018. Per una trattazione più dettagliata di molte delle questioni toccate, si veda: R. Fineschi, Un nuovo Marx. Interpretazione e prospettive dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008]
1. Il titolo del mio intervento è “Un nuovo Marx”. Da una parte è un titolo un po’ paradossale perché Marx è un autore ben noto, molto letto, molto interpretato. Su di lui si sono scritti fiumi di inchiostro e non solo: la sua faccia era impressa su bandiere politiche, il suo nome è stato utilizzato da molti e in molte direzioni come bagaglio politico ideologico per legittimare movimenti storici, addirittura Stati.
In questo senso, nella misura in cui lo si utilizzava politicamente, era in una certa misura inevitabile creare una ortodossia, perché i movimenti politici che diventano istituzioni hanno bisogno di una verità ufficiale, eterna che, chiaramente, per esigenze di identità e di autolegittimazione , tende irrimediabilmente ad irrigidirsi in formule che piano piano perdono appiglio alla realtà e si trasformano in un formulario da ripetere negli anniversari e nelle celebrazioni.
Sicuramente questo è in parte il destino che l’opera di Marx ha subito in Unione Sovietica o nell’est Europa dove era una dottrina ufficiale di una istituzione e non poteva che essere vera, immodificabile, sicura in secula seculorum. Il diamat ne è l'esempio per antonomasia. Tra gli elementi cardine di queste varie formulazioni avevamo ovviamente che il socialismo reale costituiva l’inveramento delle teorie di Marx: il socialismo reale realizzandosi verificava le previsioni di Marx, l’esistenza di una intrinseca necessità storica per cui alla fine lì si doveva arrivare. Il presunto esito della evoluzione storica era quello che si era verificato.
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Appunti sulla potenza del capitale nel tempo presente
In luogo di una introduzione
Alessandro Simoncini
M. Tronti, Dall’estremo possibile, 2011
Il capitalismo, si sa, non è soltanto un modo di produzione di beni, merci e servizi; non è neppure solo un mero regime di accumulazione e di valorizzazione del capitale. È piuttosto un complesso rapporto sociale sostenuto da una molteplicità di dispositivi biopolitici e disciplinari capaci di governare le popolazioni, i corpi e le menti, adattandoli alla perpetuazione del sistema nel campo di battaglia della riproduzione sociale1. Fin dalla sua nascita, quindi, la produzione della soggettività, individuale e collettiva è una delle poste in gioco fondamentali del capitalismo. Come ben sapeva Michel Foucault, infatti, non si dà accumulazione del capitale senza l’elaborazione di adeguati “metodi per gestire l’accumulazione degli uomini”2. Valorizzazione del capitale e governo dei viventi: i due processi sono inseparabili.
Attraverso il concetto di “sussunzione reale” del lavoro al capitale, del resto, già Karl Marx aveva mostrato che gran parte della forza materiale del sistema capitalistico consisteva nella sua formidabile capacità di mettere al lavoro (e “a valore”) tutto ciò che in prima battuta sembrava opporglisi antiteticamente, cioè in modo irriducibilmente antagonistico3. Marx pensava al lavoro vivo, ma lo stesso può accadere ad altri potenziali oppositori, come il desiderio e l’immaginazione dei viventi ad esempio. Ed è quanto si è storicamente manifestato in modo nitido con l’affermazione sociale egemonica della forma-merce e delle sue “fantasmagorie” infantilizzanti: creatività e desiderio sono stati catturati nel contesto del dispiegamento progressivo di quella che Guy Debord ha chiamato “società dello spettacolo”4.
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Gli inganni della propaganda intellettuale odierna
Franco Soldani
Chi non conosce la scienza,
sa ben poco del mondo contemporaneo.
Roland Omnès
In questi mesi a Bologna, per iniziativa del fisico Bruno Giorgini, si stanno svolgendo alcuni incontri intitolati Scienza & Democrazia. Ci si può fare una sommaria idea del carattere degli incontri scorrendo le pagine del blog dedicato all'iniziativa: http://scienzademocrazia.wordpress.com.
Leggendo la traccia preparata dallo stesso Giorgini, Voci per un seminario, siamo rimasti colpiti dal numero e dalla qualità dei luoghi comuni, dalla selva di idee depistanti e dai trucchi cui egli ricorre pur di costruire l'ennesima immagine stereotipata della scienza, ancora una volta del tutto funzionale alla riproduzione del dominio e perciò lontana, troppo lontana da un qualsiasi discorso su cosa possa mai essere oggi la democrazia. Con una scienza come questa e con uomini come questi che la fanno non è possibile alcuna forma di democrazia...
Nello scritto che segue, che proponiamo diviso in sette puntate, Franco Soldani muove dalla critica all'impostazione degli incontri bolognesi e arriva a disegnare un quadro ben diverso della comunità scientifica occidentale e delle sue prassi. Un quadro dove risaltano le forti compromissioni degli uomini di scienza con i funzionari dei media e con quel cielo invisibile sotto il quale scienza e teologia - dato in pasto alle plebi acculturate dell'Occidente il mito della loro irriducibile querelle - si sono invece sempre rincorse ed abbracciate fuori scena allo scopo di scongiurare un qualsiasi salto di consapevolezza circa l'effettivo stato delle cose da parte dei dominati...
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Tornare sui propri passi, ovvero storia e memoria degli anni 70
di Sergio Bologna
“L’autunno caldo è un periodo della storia d’Italia segnato da lotte sindacali operaie che si sviluppa a partire dall’autunno del 1969 in Italia, ritenuto il preludio del periodo storico conosciuto come anni di piombo… I sindacati ufficiali furono condizionati dai Comitati unitari di base (CUB), mentre i governi democristiani che si alternarono in quel periodo (Rumor I e Rumor II) non riuscivano a distinguere le richieste ragionevoli da quelle demagogiche, piegandosi a entrambe pur di arrivare a una pacificazione sociale: i CUB esigevano salari uguali per tutti gli operai in base al principio che «tutti gli stomachi sono uguali», senza differenze di merito e di compenso, concependo il profitto come una truffa, la produttività un servaggio e l’efficienza un complotto, sostenendo invece che la negligenza diventava un merito e il sabotaggio era un giusto colpo inferto alla logica capitalistica”. Ecco alcuni stralci dalla pagina italiana di Wikipedia dedicata all’Autunno caldo. Analisi tratte da libri “astorici” di Montanelli e Cervi ( L’Italia degli anni di piombo, 1991). Una revisione della storia che oggi rischia di diventare dominante.
A partire proprio da questa citazione e dunque da una amara constatazione, martedì 7 giugno 2016, Sergio Bologna ha tenuto alla Casa della Cultura di Milano una bellissima e ricca relazione intitolata “Il lungo autunno: il conflitto sociale degli anni Settanta” – all’interno di un ciclo di incontri curato da Franco Amadori, “L’approdo mancato”.
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Marx e la decrescita. Per un buon uso del pensiero di Marx
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli
Questo saggio, il cui titolo nomina Marx e la decrescita, è ovviamente rivolto in primo luogo alle persone interessate a Marx e a quelle interessate alla decrescita, e il primo obiettivo che ci poniamo è quello di suscitare una discussione costruttiva fra questi due gruppi.
1. Introduzione.
E’ noto che, in genere, fra coloro che continuano a ricavare ispirazione dal pensiero di Marx e coloro che in tempi recenti hanno iniziato a teorizzare la decrescita non corrono buoni rapporti. I primi tendono a vedere la decrescita, nel migliore dei casi, come un’aspirazione soggettiva di natura socialmente ambigua, mentre i “decrescisti” vedono nel pensiero di Marx nient’altro che una versione “di sinistra” dell’idolatria dello sviluppo che oggi domina il mondo e contro cui intendono combattere. Giudichiamo questa contrapposizione del tutto negativa, e cercheremo in questo saggio di mostrare le ragioni di questo nostro giudizio.
La prima tesi generale che ci sforzeremo di argomentare nel seguito può essere così enunciata, in una sintesi quasi da slogan: “coloro che seguono le teorie di Marx hanno bisogno della decrescita, la decrescita ha bisogno di Marx”. E con questo intendiamo dire quanto segue: da una parte, oggi ogni teoria ispirata a Marx ha bisogno della decrescita perché essa rappresenta l’unica formulazione possibile di un anticapitalismo adeguato alla realtà del capitalismo attuale; dall’altra, la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx perché in esso si trovano alcuni fondamenti teorici indispensabili per l’elaborazione di una proposta teorica e politica adeguata ai problemi che la decrescita stessa individua.
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La critica dell’economia politica, ieri e oggi*
di Sergio Cesaratto
1. A mo’ di premessa: la parabola dell’economia critica
Nel lontano 1973 due valorosi economisti sraffiani aprivano un (allora) influente articolo su marxismo ed economia con la seguente ottimistica affermazione: «[c]rediamo non si possa mettere in dubbio che la teoria economica, che ha dominato praticamente incontrastata per quasi un secolo, attraversa oggi una crisi profonda»1. Purtroppo questa veniva sostenuto proprio nel mentre nelle università degli Stati Uniti si consolidava la contro-rivoluzione monetarista che avrebbe rapidamente spazzato via quella keynesiana dei primi due decenni del secondo dopoguerra, preparando culturalmente l’avvento alla fine del decennio di Reagan e Thatcher. Naturalmente il clima in Italia era ancora ben diverso. Attraverso la fondazione della Facoltà di economia di Modena e l’esperienza delle 150 ore, la critica dell’economia politica, profondamente influenzata dall’opera di Sraffa, si fondeva, per esempio, con le esperienze operaie e sindacali più avanzate2. Di lì a pochissimo le cose sarebbero evolute in direzioni ben diverse anche in Italia.
Al formidabile impatto che il lavoro di Sraffa ebbe negli anni caldi del movimento operaio (e studentesco) contribuì da un lato, com’è evidente, la domanda intellettuale da parte dello stesso movimento di un’alternativa alla teoria economica dominante, ma anche l’eco dello scossone che il famoso “dibattito fra le due Cambridge” diede alla teoria economica.
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Pierangelo Garegnani, l’economista controcorrente
Fabio Petri
Sabato 15 ottobre 2011 all’età di 81 anni è venuto a mancare Pierangelo Garegnani, il maggiore economista teorico italiano degli ultimi cinquant’anni, figura di assoluto rilievo internazionale che ha contribuito come nessun altro a chiarire, portare avanti ed estendere il progetto avviato da Piero Sraffa di riabilitazione dell’impostazione teorica classica (o, come Garegnani anche la chiamava, impostazione del ‘sovrappiù’). Si tratta dell’impostazione in sede di teoria del valore e della distribuzione del reddito che nella sua struttura fondamentale accomuna i Fisiocratici, Adam Smith, Ricardo e Marx, e che venne abbandonata nell’ultimo quarto del 19° secolo in favore dell’impostazione ‘marginale’ (detta anche ‘della domanda e offerta’, o neoclassica come impropriamente oggi spesso la si definisce), anche per via della maggiore capacità di questa seconda impostazione di offrire argomenti a difesa del capitalismo a fronte della crescente protesta operaia.
In effetti, come messo in luce da molti studi di storia del pensiero economico, fin da poco dopo la morte di Ricardo (1823) era iniziata la ricerca di teorie dell’origine dei profitti che ne fornissero una giustificazione capace di opporsi alla tesi, derivabile dalle analisi degli stessi Adam Smith e Ricardo, che i profitti scaturiscono dalla maggior forza contrattuale dei capitalisti rispetto ai lavoratori salariati (la quale permette di imporre ai lavoratori di lavorare più di quanto basterebbe a produrre i loro salari), ed hanno dunque una origine analoga a quella del reddito dei signori feudali, derivante dal monopolio della terra che permetteva di imporre ai servi della gleba le corvées: da cui l’accusa di sfruttamento del lavoro come vera origine dei profitti. La pericolosità dell’impostazione classica per la struttura di classe dell’epoca emerge bene in un brano del 1831 di Scrope, il quale, riferendosi a Ricardo e ai suoi seguaci, scriveva: “Sicuramente la pubblicazione di opinioni … che, se anche fossero vere, poiché sconvolgono i principi fondamentali della simpatia e dell’interesse comune che costituiscono il cemento della società, non potrebbero essere che profondamente dannose, costituisce un crimine […].
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Guerra in Ucraina, invio di armi e propaganda
Intervista al gen. Fabio Mini
"Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti." E' il pensiero di Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, già Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. "E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui", dichiara a l'AntiDiplomatico. E' stato scritto correttamente come le voci più sensate nel panorama della propaganda a senso unico siano quelle dei generali, di coloro che conoscono bene come pesare le parole in momenti come questi. Come l'AntiDiplomatico abbiamo avuto l'onore di poter intervistare uno dei più autorevoli.
* * * *
L'INTERVISTA
Dal Golfo di Tonchino alle armi di distruzione di massa in Iraq- e tornando anche molto indietro nella storia - Generale nel suo libro “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?” Lei riesce brillantemente a ricostruire i falsi che hanno determinato il pretesto per lo scoppio di diverse guerre. Qual è l’ipocrisia e il falso che si cela dietro il conflitto in corso in Ucraina?
Il falso è che la guerra sia cominciata con l’invasione russa dell’Ucraina. Questo in realtà è un atto nemmeno finale di una guerra tra Russia e Ucraina cominciata nel 2014 con l’insurrezione delle provincie del Donbas poi dichiaratesi indipendenti.
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Cosa sono i CDS Credit Default Swap
Felice Capretta
Oreste Lavolpe, Franco Sicuro e i CDS
Titoli, titoli, titoli.
Oggi ci sono titoli per ogni ben di dio: obbligazioni aziendali, titoli di debito pubblico, azioni, e ci sono anche i cosiddetti derivati.
In particolare, un derivato è un titolo che dipende da un altro titolo o da un’altra cosa, detta "sottostante". Ci sono derivati di ogni tipo su ogni tipo di sottostante: options su azioni, future sul petrolio e sul grano, swap su valute e mille altre cose.
Oltre la frontiera dei derivati ci sono contratti tra due parti, detti Credit Default Swap, i CDS, che sono cosa alquanto perversa in quanto la relazione con il sottostante è praticamente assente e si limita alla scommessa sul fallimento di qualcuno, solitamente di una terza parte.
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George Orwell e la critica della modernità
di Robert Kurz
Nella storia della letteratura, sono apparse, regolarmente, alcune "opere universali" o "opere del secolo": metafore di tutta un'epoca per le quali l'effetto è stato così importante che la loro eco continua a risuonare fino ai nostri giorni. Non è assolutamente per caso che la forma letteraria di tali opere sia stata spesso la parabola. Questa forma permette di rappresentare idee filosofiche fondamentali di modo che esse vengano recepite come se fossero delle storie pittoresche ed accattivanti. Una tale doppia natura fa sì che l'opera non comunichi la stessa cosa a chi è già formato teoricamente, da una parte, e al bambino o all'adolescente, dall'altra, però entrambi possono divorare il libro allo stesso modo. Ed è proprio questo ad alimentare la profonda impressione lasciata da tali opere nella coscienza mondiale, fino a renderli topos del pensiero quotidiano e dell'immaginazione sociale.
Nel XVIII secolo, Daniel Defoe e Jonathan Swift, con le loro grandi parabole, hanno fornito dei paradigmi al nascente mondo della modernità capitalista. Il Robinson di Defoe divenne il prototipo dell'uomo diligente, ottimista, razionale, bianco e borghese, che crea, dopo aver concepito un piano rigoroso, un mondo fisico sull'isola selvaggia, in quanto custode della sua anima e della sua esistenza economica, un luogo piacevole a partire dal niente, e che riesce inoltre ad elevare per mezzo del "lavoro" l'uomo di colore "sottosviluppato" ai meravigliosi comportamenti civilizzati.
Al contrario, il Gulliver di Swift vaga attraverso dei mondi favolosi, tanto bizzarri quanto spaventosi, nei quali la modernizzazione capitalista si riflette in quanto satira mordente e come parodia delle "virtù dell'uomo moderno" di Defoe.
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Giorgio Agamben e l’“homo sacer”
di Marco Pacioni
L’estrema versatilità disciplinare e tematica ha potuto disorientare per un po’ i lettori di Giorgio Agamben, renderli perplessi riguardo gli obiettivi ai quali mirava la sua opera. Si pensi, ad esempio, all’apparente eclettismo del suo secondo libro, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (Einaudi 2011, prima ed. 1977), che si interroga sul rapporto tra poesia e critica passando per la lirica provenzale (da cui deriva il titolo), la melanconia di Dürer, Baudelaire, Freud, Marx, Heidegger (a lui il libro è dedicato), per personaggi e miti come Odradek, Beau Brummel, Edipo, Narciso, Pigmalione, la Sfinge. Analoghe considerazioni si potrebbero fare per Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (Einaudi 2001, prima ed. 1978), raccolta di saggi di estetica, antropologia culturale, teoria della storia che spaziano da Hegel a Heidegger, da Lévi-Strauss a Benveniste, da Adorno a Benjamin. Ma chi sulla base di un’apparente dispersione pensava che Agamben fosse un pensatore capace soltanto di grandi exploits, un disseminatore di spunti accattivanti privo di sistematicità si è dovuto ricredere.
E non soltanto perché Agamben con le sue escursioni etimologiche, erudite ed estetiche stava rimettendo mano al nodo fondamentale della filosofia che è, come da tradizione nel pensiero occidentale, l’essere, ma anche perché quando ci si è accorti della portata della sua ricerca, non si è dovuto prendere partito soltanto su questioni teoretiche, ma con queste ultime anche sulla politica e la vita. L’aver rimesso il dito nella piaga dell’essere e della sua negazione, con Agamben ha significato affrontare la bio-politica dalle sue dimensioni più astratte come quella della sovranità fino alle sue manifestazioni più concrete e storiche come Auschwitz.
Con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, (vol. I, Einaudi 1995), libro che ha destato attenzione internazionale, i nodi ontologici, estetici e politici della sua riflessione sono venuti veramente al pettine.
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Come evitare il suicidio dell'Europa*
di Riccardo Bellofiore e Jan Toporowski**
La Grecia non è responsabile della crisi europea. Se l’euro fosse ristretto a Germania e ‘satelliti’ la crisi poteva scoppiare in Belgio (rapporto debito pubblico/PIL al 100%). La variabile chiave non è il debito, in rapporto al PIL o in assoluto, ma quanto la banca centrale si rifiuta di rifinanziare. L’ideologia per cui le banche centrali dell’UE devono acquistare titoli privati, persino tossici, non titoli di stato, è stata incrinata: ma troppo timidamente. La BCE ha aderito a fondi di stabilizzazione, ampliato la durata delle concessioni di liquidità, esteso la gamma dei titoli che accetta, e rifinanzia i titoli di stato sui mercati secondari. Si dovrebbe però garantire stabilmente la liquidità del mercato dei titoli pubblici: anche solo sui mercati secondari, con un intervento annunciato, credibile e continuo.
Il default non dovrebbe essere un problema. Parte della sinistra ne pare convinta e propugna il diritto al default. Si suggerisce anche di uscire dall’euro per guadagnare competitività. Bisognerebbe chiedersi cosa succederebbe al sistema bancario se ciò che si desidera accadesse. Il default unilaterale lo fa crollare:il governo si rifiuta di pagare le proprie banche, dovendo tornare a chiedergli prestiti; per le banche svanisce il valore dei titoli di stato, e finiscono insolventi. L’uscita dalla moneta unica aggrava le cose, per una previa fuga dei depositi in euro, seguitadal valore delle passività che schizza verso l’alto nella nuova valuta. L’accordo di giovedì mattina è ingannevole. Si è concordata con i creditori della Grecia una sorta di bancarotta dentro l’euro. Può a prima vista avere il merito di ‘tagliare’ buona parte di crediti inesigibili, evitando di uccidere il malato con i salassi. L’haircut è però finanziato in modo improbabile da un fondo di stabilizzazione su cui (oltre Halevi sul manifesto) vale quanto profeticamente scrive Münchau lunedì scorso sul Financial Times: moltiplica fittiziamente le munizioni per il soccorso costruendo un effetto leva e una ‘assicurazione’ sui prestiti di tossicità pari all’opaco meccanismo sottostante i subprime. A termine amplifica, non risolve, la crisi.
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La grande menzogna della globalizzazione
di Dani Rodrik (*)
Gli esponenti della sinistra della “Terza Via” hanno presentato la globalizzazione come inevitabile e vantaggiosa per tutti. In realtà, non è né l’uno né l’altro e l’ordine liberale ne sta pagando il prezzo
Non molto tempo fa, la discussione sulla globalizzazione era data per morta e sepolta – dai partiti di sinistra come per quelli di destra.
Nel 2005, il discorso di Tony Blair al congresso del Partito Laburista coglieva lo spirito del tempo: “Sento persone che dicono che dobbiamo fermarci e discutere della globalizzazione” – disse Blair al suo partito – “si potrebbe anche discutere se l’autunno debba seguire l’inverno”. Ci sarebbero stati imprevisti e disagi sul cammino; qualcuno sarebbe rimasto indietro, ma non importava: le persone dovevano andare avanti. Il nostro “mondo che cambia”, continuava Blair, “è pieno di opportunità, ma solo per quelli rapidi ad adattarsi e lenti a lamentarsi”.
Oggi, nessun politico competente potrebbe esortare i suoi elettori a non lamentarsi in questo modo. Le élite di Davos, i Blair e i Clinton si stanno scervellando, domandandosi come un processo che pensavano fosse inesorabile possa essersi invertito. Il commercio internazionale ha smesso di crescere rispetto alla produzione, i flussi finanziari transnazionali non si sono ancora ripresi dalla crisi globale di un decennio fa, e dopo lunghi anni di stasi nei dibattiti sul commercio mondiale, un nazionalista americano ha cavalcato un’onda populista per andare alla casa Bianca, da dove sta scoraggiando ogni sforzo a favore del multilateralismo.
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Il lavoro cambia. E allora che si fa?
di Sergio Bologna
Non ricordo esattamente quando mi hanno invitato la prima volta a partecipare ad un dibattito dal titolo “il lavoro che cambia” ma può essere stato non meno di trent’anni fa. Del resto sono i documenti stessi a dirlo: sulla rivista “primo maggio” le analisi del decentramento produttivo, della scomposizione dell’unità aziendale in un sistema a rete, erano cominciate nel 1976/77. Negli stessi anni, i lavori del Dipartimento di Scienze del Territorio del Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, avevano parlato di “fabbrica diffusa”.
Probabilmente si parlava ancora troppo di disarticolazione del complesso aziendale, cioè di “nuovo modo di fare impresa” e troppo poco di “nuovo modo di lavorare”, ma l’idea che la classe operaia venisse frammentata sul territorio per indebolirla era chiara. Le grosse novità sembravano però concentrate ancora nella fabbrica fordista, come il passaggio dalla lavorazione alla catena a quella “a isole”, la robotizzazione ecc.. Negli stessi anni si apriva un dibattito – purtroppo caratterizzato da forzature ideologiche – sulla fine della centralità dell’”operaio massa” e la comparsa sulla scena di una nuova figura egemone, quella dell’”operaio sociale”. Insomma, che nel mondo del lavoro si fosse alla vigilia di qualcosa di grosso, era chiaro a molti dei protagonisti di quelle analisi già dalla metà degli Anni Settanta.
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Refrain
Elisabetta Teghil
Fino a vent'anni fa, le grandi imprese funzionavano con un sistema di produzione integrato che impiegava migliaia di operai in sedi gigantesche.
La "nuova economia" ha ridotto le dimensioni degli impianti nei paesi occidentali attraverso le delocalizzazioni ed il subappalto: le prime in paesi dove le condizioni di lavoro sono schiavistiche, le seconde resuscitando forme, che non pensavamo più di vedere, di forte sfruttamento.
Le delocalizzazioni delle grandi fabbriche e lo sviluppo di unità di produzione in subappalto, hanno raggiunto l'obiettivo di aggirare la resistenza operaia e di costruire un nuovo rapporto con il lavoro e con le lotte sociali. Nell'ambito dei contratti lavorativi è stata introdotta ogni forma di individualizzazione, come quelle del salario e dei premi, nello sforzo, riuscito, di dissuadere gli operai/e da ogni tipo di azione collettiva. E questo comincia dalla procedura di assunzione dei lavoratori/trici che mira ad accertare la docilità dei/delle candidati/e. Questo spiega la scelta frequente, tutta nuova e diversa dal passato, di ricorrere a ragazze-madri.
Gli operai/e sono , nella quasi totalità pagati/e a salario minimo e viene fatto loro capire che non devono aspettarsi di fare carriera. Gli orari sono molto variabili, i gruppi di lavoro non si conoscono. Le lavoratrici/i vengono reclutate/i ad interim, per breve periodo, ed il rinnovo è in funzione del loro comportamento sul lavoro, nel quale devono dimostrare disponibilità e lealtà verso l'impresa. Non esercitano più un lavoro con un suo linguaggio, una sua cultura, i suoi modi di trasmissione tra anziani/e e nuovi/e, ma una sorta di opera puntuale legata ad un progetto.
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Ascesa e declino nella storia economica d’Italia
G. Gabbuti intervista Emanuele Felice
Con Ascesa e declino. Storia economica d’Italia (il Mulino, Bologna 2015, 392 pp), Emanuele Felice offre una sintetica ma assai documentata narrazione dell’evoluzione dell’economia italiana dall’Unità ad oggi. Classe 1977, abruzzese, Dottorato a Pisa, Felice è recentemente rientrato in Italia come Professore Associato presso l’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, dopo un periodo di cinque anni all’Università Autonoma di Barcellona. Il suo libro è per certi versi il primo tentativo di sintesi della storia economica italiana a seguito della grande crisi – non solo quella globale ed europea degli ultimi anni, ma quella più generale italiana, che le precede di almeno due decenni. L’ultima grande sintesi accademica – quella di Vera Zamagni, intitolata Dalla Periferia al centro – si chiudeva infatti con il 1990: e già all’epoca, osservatori come Marcello De Cecco si chiedevano con amara ironia se il titolo non avrebbe dovuto essere integrato, già dalla seconda edizione, con un “…e ritorno”. Felice, che in un recente articolo con Giovanni Vecchi ha certificato questo “ritorno” nelle misure di produzione come il PIL, nel suo libro estende l’analisi alla grande mole di dati prodotti dalla storiografia economica italiana negli ultimi decenni. Relegando tuttavia la gran parte delle serie storiche nell’appendice online, i dati vengono evocati nel testo in modo da venire incontro al lettore non tecnico, non sovrastando ma accompagnando costantemente la narrazione storiografica. Proprio per questa caratteristica, Ascesa e Declino sta generando un dibattito abbastanza insolito per la disciplina sui giornali, con qualche eco anche nel dibattito politico interno al Partito Democratico. Per questo, il libro si presta a ragionare non solo della storia economica italiana, ma anche di come questa possa interrogare il presente, di quale ruolo debba avere come disciplina all’interno della formazione e del discorso pubblico italiani. Per questo motivo vi proponiamo un’intervista, come prima pietra di un focus tematico sulla storiografia economica e sociale italiana.
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Il libro è organizzato seguendo le categorizzazioni classiche della storiografia italiana – Italia Liberale, Fascismo, Dopoguerra (prima e dopo Bretton Woods). Molti tuoi colleghi, in effetti, si sono concentrati su uno solo di questi periodi. Traendo beneficio dalla prospettiva di lungo periodo, è corretto mantenere questa tradizionale suddivisione rigida, o prevalgono elementi di continuità nello sviluppo italiano, come sostenuto ad esempio da Rolf Petri?
Sicuramente esistono elementi di continuità, ed è anche normale che sia così.
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Keynes vs Tabellini
di Alberto Bagnai
Non sarò breve (mi scuso).
Il professor Guido Tabellini interviene sul Sole 24 Ore sostenendo che le politiche di rigore sono necessarie ma non saranno sufficienti perché “le fondamenta stesse dell’euro sono viziate”. Un vizio determinato da due “difetti costitutivi”: primo, la Bce può svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza solo rispetto alle banche (rifinanziandole), ma non rispetto agli Stati (acquistando i loro titoli); secondo, la politica monetaria è centralizzata, ma la vigilanza è rimasta nazionale. Quali conseguenze avrebbero questi difetti? Senza un acquirente di ultima istanza dei titoli pubblici i paesi ad alto debito “sono lasciati in balia dei mutamenti di umore dei mercati”. Il decentramento della vigilanza invece porta a una segmentazione dei mercati, perché le autorità nazionali, diffidando di quelle dei paesi vicini, impedirebbero alle banche di prestare all’estero, e questa situazione “non può durare”.
Meglio tardi che mai
L’ammissione di errore deve essere accolta senza facili ironie e con grande rispetto. Dallo scoppio della crisi, in Italia gli economisti ortodossi hanno spesso testimoniato una profonda e sincera volontà di rimettere in discussione le proprie certezze. A sinistra non c’è stato niente di simile, per un semplice motivo: economisti e politici di “sinistra” hanno rivendicato per due decenni la scelta dell’euro come un loro grande successo. Il tatticismo politico ora impedisce loro di comprendere e di ammettere che questa scelta è contraria agli interessi del loro elettorato.
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Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia
di Luigi Ferrajoli
1. Potere di revisione costituzionale e potere costituente – C’è un fatto che accompagna, da circa trenta anni, la lunga crisi della democrazia italiana. All’aggravarsi di tutti i suoi aspetti – il discredito e lo sradicamento sociale dei partiti, la loro subalternità all’economia e alla finanza, la loro opzione comune e sempre più esplicita per le controriforme in materia di lavoro e di stato sociale – ha fatto costantemente riscontro il progetto di indebolire il Parlamento e di rafforzare il governo, tramite modifiche sempre più gravi della seconda parte della Costituzione repubblicana: dapprima, negli anni Ottanta e Novanta, i tentativi delle Commissioni Bozzi, De Mita-Jotti e D’Alema; poi l’assalto ben più di fondo alla Costituzione da parte del governo Berlusconi con la riforma del 2005, scritta dai cosiddetti “quattro saggi” in una baita di Lorenzago e bocciata dal referendum del giugno 2006 con il 61% dei voti; infine l’ultima, non meno grave aggressione: la legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi approvata il 12 aprile 2016, sulla quale si svolgerà il referendum confermativo nel prossimo ottobre. Di nuovo, come sempre, l’argomento a sostegno della revisione, oltre a quello penoso e demagogico della riduzione dei costi della politica, è stato la necessità di accrescere la “governabilità” nel tentativo, ancora una volta, del ceto di governo di far ricadere sulla nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.
L’attuale revisione costituzionale investe l’intera seconda parte della Costituzione: ben 47 articoli su un totale di 139.
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Heidegger e la bomba atomica: ovvero la scienza deve pensare
di Gianni Vattimo e Massimo Zucchetti
Per un seminario su “Se la scienza non pensa”, Politecnico di Torino, 2016
Introduzione
La frase di Heidegger «La scienza non pensa»i risale all’inizio degli anni 50 dello scorso secolo. Questa frase si è prestata, da quando la scrisse il filosofo, a molte superficiali interpretazioni -alcune delle quali in senso riduttivo -quasi ad affermare che il pensiero umano, nella sua accezione più alta, fosse terreno estraneo alla scienza materiale. In realtà, Heidegger – nella trattazione che questa frase contiene -non ha affatto intenzioni denigratorie nei confronti della scienza. Se mai, si tratta – come vedremo -di una delimitazione: una definizione dell’ambito entro il quale, secondo il filosofo, ama muoversi la scienza, descrivendo quei confini naturali che è poi la scienza stessa a darsi. Heidegger, anzi, riflette se questi comodi confini siano giustificati, e sulle ragioni per le quali la scienza, invece, dovrebbe pensare, o perlomeno essere aiutata a farlo.
Sotteso a questa affermazione vi è in realtà il dibattuto concetto di neutralità della scienza. Scienza che secondo alcuni – come ad esempio lo scienziato atomico Werner Heisenberg [D. C. CASSIDY, Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 126] dovrebbe occuparsi della ricerca, dell’avanzare della conoscenza tecnica del genere umano, del “progresso”, applicando il metodo scientifico, che tanti successi e miglioramenti materiali ha apparentemente portato all’umanità negli ultimi secoli.
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Capitalismo senile e demolizione controllata
di Fabio Vighi
Su quali principi si regge il capitalismo senile? Ne elencherò cinque in modo sommario, per poi discuterne gli intrecci:
1. Debito. L’unica strada verso il futuro del capitalismo continua a essere lastricata di programmi di creazione di liquidità. Creare denaro dal nulla, per metterlo in moto come credito, è l’unica strategia monetaria che ci permette di ignorare l’abisso che già si spalanca sotto i nostri piedi – come per il personaggio dei cartoni animati che, finito oltre il precipizio, continua a correre a mezz’aria sfidando la gravità. Tuttavia, come dimostra l’attuale violenta ondata inflazionaria – ancora in doppia cifra in Europa – l’attrazione gravitazionale è ormai irresistibile.
2. Bolle. Le bolle speculative, alimentate dal moto perpetuo del credito, costituiscono l’unico significativo meccanismo di produzione di ricchezza. Per questo motivo, la sola preoccupazione dei gestori del “capitalismo di crisi” è impedire la deflagrazione della mega-bolla. Ma mentre l’ultra-finanza distrugge la “società del lavoro”, la vita umana diventa eccedenza inutilizzabile, enorme surplus non-produttivo da amministrare creativamente.
3. Demolizione controllata. Dumping salariale e concorrenza al ribasso per posti di lavoro devastati dall’automazione tecnologica sono l’altro lato del paradigma di bolla. Affinché i mercati speculativi possano continuare a levitare, la società fondata sul lavoro (articolo 1 della Costituzione italiana) dev’essere gradualmente ma radicalmente ridimensionata, poiché l’attuale ipertrofia finanziaria richiede la demolizione della domanda reale. Detto diversamente, il “capitalismo dei consumi” si ricicla nel “capitalismo della gestione della miseria collettiva”, con annesso cambio di narrazione ideologica.
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La Crisi irrisolta
Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa
di Francesco Schettino
È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per esperienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta[1]. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.
Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.
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“Dipendenza”
di Alessandro Visalli
A settembre 2020 è uscito il libro “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”[1]. Un libro che si può leggere in tre modi: racconta una storia che si sviluppa dal New Deal ad oggi, mostrando un andamento ciclico ed interconnesso di periodi di disordine sistemico, di espansione e di destabilizzazione; individua una teoria che con questa storia reagisce; presenta la sconfitta politica di un generoso tentativo.
Il primo piano si concentra sulla concatenazione di crisi che aprono sempre alla successiva, con un meccanismo (descritto nella teoria) mosso dalla tendenza del capitalismo alla concentrazione e (quindi) al sottoinvestimento. E descrive quindi le controtendenze che la tengono sotto controllo: guerra fredda, cetomedizzazione, esportazione di capitale, dipendenza interna ed esterna. Ne deriva anche una spiegazione interna della crescita della classe media nel “trentennio” e della ‘società del benessere’ non come confutazione della tesi marxiana (delle “due classi”) ma come sua estensione[2]. Ma ne deriva anche il “teorema di impossibilità” che Baran e Sweezy enunciano con la loro “legge della crescita del surplus”[3], e quindi il tentativo di investire le periferie (e non il centro) del compito della rivoluzione.
Questa è l'ipotesi politica della dipendenza che cade quando le periferie sono sussunte (o sono disperse) nell’inversione degli anni ottanta. Di qui nasce la “teoria dei sistemi mondo” che sposta l'attenzione più avanti nello spazio e nel tempo.
Per descrivere analiticamente il testo.
Un primo blocco teorico descrive le posizioni di quegli autori che convergono nella creazione dell’assiomatica di base. Almeno dei principali: sono Paul Baran negli anni cinquanta, Paul Sweezy negli anni sessanta, Gunnar Myrdal e Francois Perroux.
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La Cina è capitalista?
Intervista a Rémy Herrera
“La Cina è capitalista?”. Questo il titolo del nuovo di libro di Rémy Herrera (economista marxista francese, ricercatore al CNRS e alla Sorbona, Parigi) e Zhiming Long (economista marxista cinese della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua, Pechino), uscito a Marzo per le Éditions Critiques. Gli autori intendono smentire stereotipi e incomprensioni sulla Repubblica popolare cinese, ripercorrendo la storia dello sviluppo economico del paese dal 1950 a oggi. L’intervista che trascriviamo è stata realizzata da Le Média, un nuovo media alternativo legato alla sinistra francese.
* * * *
Il vostro è un libro controcorrente. Presenta un punto di vista piuttosto raro in Francia, che merita di essere segnalato e discusso. Innanzi tutto, come fate notare, quando si parla dell’economia cinese spesso lo si fa attraverso un prisma occidentale, usando dati prodotti da occidentali: secondo voi, ciò falsifica la visione che noi abbiamo del successo cinese.
Esattamente, ed è un punto fondamentale. Tutti infatti hanno un’opinione sulla Cina, ma che rischia di non essere necessariamente ben fondata. Ciò è dovuto, secondo noi, alle difficoltà rappresentate dalla lingua e dalla lontananza geografica. Difficoltà che rendono in qualche modo inaccessibili gran parte dei dibattiti interni alla Cina e che obbligano passare attraverso questo prisma occidentale. Uno sguardo esterno che occupa in pratica la totalità della nostra percezione della Cina. E questo è un problema, esso è dovuto innanzi tutto a una difficoltà di accesso ai dati, ma non certo perché le statistiche cinesi siano nascoste – al contrario esistono, sono molto numerose e diffuse. Tuttavia sono nella maggioranza dei casi in cinese, cosa che le rende di difficile utilizzo. Queste statistiche sono, contrariamente all’opinione comune, abbastanza serie, ben costruite e relativamente affidabili e questo da molto tempo – grazie all’Ufficio nazionale di statistica che esiste dal 1952. Tuttavia possono risultare incomplete, per noi che avevamo bisogno di un certo numero di indicatori che non esistevano oppure, laddove esistevano, non erano esenti da imperfezioni.
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Socializzazione della Finanza e Crisi Economica Globale
Intervento di Info Free Flow
"Indietro non si torna"
Punto di partenza di questa discussione è l'assunzione di due ipotesi di ricerca della sociologia del lavoro contemporanea: il muoversi di pari passo del paradigma produttivo con l'evoluzione tecnologica e la centralità del linguaggio nella valorizzazione capitalista contemporanea, come flusso che contemporaneamente attraversa e determina sia la sfera della produzione industriale che quella del mercato finanziario. Vedremo come la complementarità di questi elementi, riflessa nell'irrompere del modello di rete (che sia a livello infrastrutturale che organizzativo modifica il paradigma fordista) e della nuova determinazione dell'informazione (come vettore di conoscenze, competenze, relazioni, pubblicità ed investimenti trasversalmente agli ambiti lavorativi e del tempo libero) modifichi radicalmente le dinamiche di controllo capitalista sui versanti della produzione e del consumo, fino ad accomunare l'economia finanziaria e quella (cosiddetta) reale, ed a rendere fallimentari i tentativi di scindere le due nella proposizione di un progetto sostenibile di governance economica per il dopo-crisi.
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Leggere L'accumulazione del capitale
di Maria Turchetto*
Un’aquila
Lenin la definì “un’aquila”. E davvero Rosa Luxemburg volò molto in alto, in una società che era ancora profondamente maschilista. A quei tempi in quasi tutto il mondo le donne erano escluse dal voto e dai diritti politici, in molti paesi non avevano accesso alle professioni liberali, nel lavoro erano sfruttate e sottopagate rispetto agli uomini, nella famiglia soggette all’autorità del marito.
Rosa Luxemburg i diritti politici se li prese: fu una dirigente socialista di prima grandezza. Sostenitrice di posizioni internazionaliste, fu attiva nella sua Polonia, in Russia e soprattutto in Germania. Lucida, coerente, lontana da ogni opportunismo, all’epoca fu una delle poche rappresentanti del socialismo a non compromettersi con nessuna guerra, a battersi sistematicamente e implacabilmente contro il militarismo. Per questo suo atteggiamento passò in prigione la maggior parte degli anni della guerra, scrivendo, studiando e continuando a seguire gli eventi politici: la costituzione in Germania della Lega di Spartaco, di cui fu diretta ispiratrice; la rivoluzione russa, che valutò e commentò con grande intelligenza – sostenne Lenin e i bolscevichi, ma fu da sempre consapevole delle difficoltà e delle degenerazioni cui il partito rivoluzionario poteva andare incontro1.
Anche la parità con gli uomini Rosa Luxemburg se la prese – eccome. Primeggiò in un’epoca di giganti: i suoi interlocutori erano personaggi del calibro di Lenin, Trotsky, Kautsky, Bukharin, Bauer, Bernstein, Hilferding, Bebel.
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Il pluralismo che blocca il pensiero critico
Riccardo Bellofiore
AA. VV. IL CAPITALISMO INVECCHIA?, MANIFESTOLIBRI, PP.140, EURO 22
Nel mezzo della crisi il manifesto intervistò 14 economisti. Con altri interventi, l'iniziativa è ora un libro a cura di Cosma Orsi, con prefazione di Alberto Burgio, postfazione del curatore, e un testo prezioso di Paolo Sylos Labini commentato da Giorgio Lunghini. Il volume «naviga» tra molte interpretazioni. Il titolo, Il capitalismo invecchia?, è singolare. Il capitale è un «morto vivente»: si rianima succhiando lavoro vivo, ringiovanendo (lo ricorda Vladimiro Giacché) proprio grazie alle crisi. Il quesito è: che crisi è questa, di quale capitalismo? Il manifesto non è nuovo a dibattiti del genere, né si è accorto con ritardo della crisi (come molti degli intervistati). Parlato, presentando le interviste, scrisse che il manifesto «sa poco di economia». In realtà la pagina capitale e lavoro ha coperto esemplarmente lo tsunami finanziario e reale dall'agosto 2007. Lo stesso Parlato pubblicava nel 1974 Spazio e ruolo del riformismo. Oggi leggiamo punti di vista che si affiancano senza dialogare davvero. Allora la discussione partiva un punto di vista definito. Oggi, pluralismo eclettico di monologhi. Ieri, pluralità di punti di vista dialoganti.
Com'era il dibattito, da metà Novanta sino al 2007? Si contendevano il campo due letture. Una, stagnazionistica, si appoggiava o sulla caduta del saggio del profitto (da aumento della composizione del capitale) o sul sottoconsumo (da bassi salari). L'altra insisteva sulla dinamicità di un Impero esente da crisi, l'economia della conoscenza e una cooperazione sociale immediata. Entrambe duramente smentite. Si è proceduto come se niente fosse, a furia di seconde globalizzazioni e golpe nell'Impero. Il pensiero critico è così arrivato impreparato alla crisi.
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E questo è quanto
di Silvia De Bernardinis
“E questo è quanto. Storie di rivoluzionarie e rivoluzionari”. Il titolo della nuova collana edita da Bordeaux e curata da Ottone Ovidi esordisce con questo primo volume dedicato a Salvatore Ricciardi. Una storia e una vita di militanza, iniziata nelle piazze, con le grandi manifestazioni contro il governo Tambroni nel 1960 e la rivolta degli edili a Piazza SS. Apostoli nel 1963, stesso carattere e stessi contenuti della più nota Piazza Statuto torinese dell’anno precedente, uno snodo importante che comincia a dare fisionomia ad una nuova soggettività operaia, quella che farà da traino e sarà il collante del movimento di classe che emergerà chiaramente durante il biennio 68-69. La crescita politica di Salvatore, come lui stesso racconta, avviene nel contesto di queste lotte operaie, prima con gli edili e poi, soprattutto, nelle ferrovie, dove svolge attività sindacale nella Cgil e successivamente, cacciato dal sindacato, nel Cub-ferrovieri, di cui è uno dei fondatori. Sono gli anni, quelli tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, che sanciscono il passaggio dalla non ostilità alla rottura con la sinistra istituzionale, ed in particolare con il Pci, che nel corso degli anni 70 diventerà sempre più profonda. Nel 1977, l’entrata nella colonna romana delle Brigate Rosse. Sarà arrestato nel 1980, e come tutti i prigionieri politici sperimenterà il circuito delle carceri speciali e l’ultima grande rivolta carceraria, quella di Trani che, legata al contemporaneo sequestro D’Urso, porterà alla chiusura dell’Asinara. Ultima battaglia unitaria delle BR, dopo la quale si consumerà la scissione dell’organizzazione, diretta dall’interno del carcere, con la formazione del Partito Guerriglia al quale, diversamente dalla maggioranza dei prigionieri politici BR, Salvatore non aderirà. È un processo, questo che porta alla scissione, che Salvatore vive in parte fuori e in parte dentro il carcere, che inizia nel 1979 con una dura critica dei prigionieri politici all’Esecutivo, espressa attraverso le 20 tesi del “documentone” elaborate nel carcere di Palmi, con le quali si accusava l’organizzazione all’esterno di incapacità di innalzare lo scontro sociale e guidare un movimento che si immaginava, astrattamente ed erroneamente, fosse all’offensiva.
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