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Capitalismo 2010: un morto che cammina
Antonio Carlo
1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica; 2) Gli USA. Un’economia sulla sedia a rotelle che produce disoccupati e debiti; 3) L’Europa in panne. L’agonia di UE ed euro; 4) L’Italia: galleggiare in attesa di S. Gennaro; 5) La Cina. Il miracolo straccione appassisce; 6) Crisi dell’economia reale e follia dell’economia politica; 7) Crisi strutturale ed esplosioni sociali
1) L’economia mondiale nel 2010. Falsa ripresa depressione autentica.
Nei libri di economia si legge che “ripresa c’è quando risale il PIL” e siccome il PIL è cresciuto nel 2010 del 4,8% dovremmo essere in piena ripresa, anche se si sprecano gli aggettivi per dequalificare la ripresa stessa, che sarebbe incerta, fragile, inadeguata, etc. etc.
In realtà la ripresa sembra essere una cosa da paesi sottosviluppati come si evince dalla tabella che segue1.
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Tornare al welfare, ma non siamo negli anni '50
Enzo Modugno
C'è una questione teorica dietro l'esperienza della sinistra al governo che riguarda il passaggio dal welfare al neoliberismo. Il '68-'77 aveva capito che il declino della fabbrica fordista aveva ampliato il numero dei lavoratori non-garantiti rendendo il welfare un'istituzione impraticabile, e che perciò il valore della forza-lavoro si doveva difendere con lo scontro sociale.
La sinistra invece - quella di allora pensò solo alla difesa istituzionale dei garantiti superstiti scaricando gli altri - è andata ora al governo pensando non solo che si potesse tornare al welfare come se ci fosse ancora la fabbrica fordista, ma che lo si potesse fare ancora per via istituzionale, interpretando il neoliberismo come un attacco politico che poteva essere battuto sul suo stesso terreno, politicamente.
Secondo Bertinotti - si riveda ora la sua prefazione al libro di Serge Halimi, Il grande balzo all'indietro, pubblicata agli inizi dell'esperienza governativa - il neoliberismo è stato un'operazione eminentemente politica, dovuta al «potente apparato ideologico» dei pensatori neoliberisti sostenuto da un «poderoso sistema di controllo politico». E pertanto, così come era stato costruito, il neoliberismo poteva essere demolito con un'azione politica uguale e contraria che coinvolgesse i governi di sinistra per riportare al welfare il capitalismo.
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Uscire dall’euro: senza unione politica non c’è unione monetaria
Intervista a Sergio Cesaratto
Come funziona l’Euro? Ne abbiamo parlato con il professor Sergio Cesaratto, ordinario di Economia della crescita e di Politica economica europea all’Università di Siena, collaboratore di riviste di economia italiane ed internazionali come Research Policy, Cambridge Journal of Economics, Review of Political Economy e la rivista online www.economiaepolitica.it, autore di contributi giornalistici pubblicati da Il Manifesto, l’Unità, Il Sole 24 Ore e Micromega. Si è principalmente occupato di teoria della crescita e analisi dei sistemi pensionistici in una prospettiva non ortodossa. Il suo blog è politicaeconomiablog.blogspot.it.
Prima dell’Euro, ci sono stati altri casi di unioni monetarie senza unione politica?
Non ci sono casi di unioni monetarie che abbiano preceduto unioni politiche. È sempre accaduto il contrario. Certo, nel caso di annessioni come quella del Mezzogiorno nel 1860 l’unione monetaria è stata imposta; ma alla lunga la sostenibilità dell’unione ha comportato che le regioni ricche si facessero carico di quelle più arretrate.
Quali sono state le carenze nella costruzione dell’unione monetaria europea (UME)?
L’Euro nasce senza un meccanismo interno di riciclaggio dei surplus commerciali fra i paesi che hanno aderito alla moneta in surplus – i paesi “core” del Nord Europa – e quelli in disavanzo – la periferia.
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Operai e capitale: 50 anni
di Toni Negri e Mario Tronti
Pubblichiamo qui due contributi ad una giornata di studio su Operai e capitale nel cinquantenario della sua pubblicazione. Il seminario si è tenuto all’Università Paris X Nanterre l’11 giugno 2016. Nella discussione, oltre ad Andrea Cavazzini, Fabrizio Carlino, Yaan Moulier Boutang, Etienne Balibar, Morgane Mertueil, sono intervenuti Toni Negri e con una lettera Mario Tronti. Qui pubblichiamo il testo di Toni Negri e la lettera di Mario Tronti. Indicano due vie di lettura nel corso di un cinquantennio – due vie per interpretare il presente (EN)
Che cosa è successo dentro la classe operaia dopo Marx
di Toni Negri
Nel 1966, nella sua prima edizione, Operai e capitale termina con l’impegno a studiare “che cosa è successo dentro la classe operaia dopo Marx” (Operai e capitale, Einaudi, Torino; 1966, p.263). Il postscriptum del 1970 alla seconda edizione di Operai e capitale, analizza la classe operaia nel New Deal e ne descrive le trasformazioni della composizione tecnica (fordismo) e della composizione politica (il sindacalismo ed il riformismo dal New Deal allo Stato del welfare, appunto). Tronti non riconosce tuttavia, per la classe operaia, una differenza strutturale di composizione tecnica e politica fra fordismo e anni ‘70. Non vi è modificazione dei processi lavorativi, taylorismo e keynesismo restano egemoni ed i rapporti politici di classe tuttora dominati dallo Stato-piano. Tra la prima edizione e la seconda di Operai e capitale c’è stato tuttavia il ‘68: a Tronti non sembrava però che fosse avvenuta gran cosa. La classe operaia nel ‘68 e seguenti (in particolare “l’autunno caldo” italiano) è ancora tutta dentro fordismo e New Deal. Affermandolo, Tronti aveva, a mio parere, insieme ragione e torto.
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L'imperialismo globale del nuovo secolo
di Ernesto Screpanti
Si può ancora parlare di imperialismo? E come? Pubblichiamo un'anticipazione del libro di Ernesto Screpanti, L'imperialismo globale e la grande crisi
La tesi centrale di questo libro è che con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento.
La novità più importante consiste nel fatto che le grandi imprese capitalistiche, diventando multinazionali, hanno rotto l’involucro spaziale entro cui si muovevano e di cui si servivano nell’epoca dei grandi imperi coloniali. Oggi il capitale si accumula su un mercato che è mondiale. Perciò ha un interesse predominante all’abbattimento di ogni barriera, di ogni remora, di ogni condizionamento politico che gli Stati possono porre ai suoi movimenti. Mentre in passato il capitale monopolistico di ogni nazione traeva vantaggio dalla spinta statale all’espansione imperialista, in quanto vi vedeva un modo per estendere il proprio mercato, oggi i confini degli imperi nazionali sono visti come degli ostacoli all’espansione commerciale e all’accumulazione. E mentre in passato il capitale monopolistico aveva interesse all’innalzamento di barriere protezionistiche e all’attuazione di politiche mercantiliste, in quanto vi vedeva un modo per difendersi dalla concorrenza delle imprese di altre nazioni, oggi il capitale multinazionale vota per il libero scambio e la globalizzazione finanziaria. La nuova forma assunta dal dominio capitalistico sul mondo la chiamo “imperialismo globale”.
Una seconda novità è che nell’impero delle multinazionali cambia la natura della relazione tra Stato e capitale.
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Le guerre che ti vendono
di Matteo Bortolon
L’agile pamphlet di Sara Reginella (Le guerre che ti vendono, Edizioni Dedalo 2025) è un testo che molto sinteticamente indica un abisso in cui stiamo precipitando. Quello della marginalizzazione di ogni forma di informazione che non coincide con le narrative promosse dai governi e poteri dominanti. La ragione è semplice: in guerra l’informazione diventa un nodo strategico da tenere sotto stretto controllo, e la critica viene spesso accomunata alla “connivenza col nemico”.
Anche le guerre hanno il loro mercato editoriale e di saggistica. Dopo l’11 settembre era tutto un fiorire di testi sul terrorismo, l’islamismo, la penetrazione delle democratiche società occidentali da parte di gruppi di pericolosi fanatici. Una narrativa coerente con le politiche della “Guerra al Terrorismo” del presidente Bush, e che recavano sotto traccia la legittimazione della risposta: la dimensione sicuritaria crescente, il controllo poliziesco della società e, in maniera ultimativa, la guerra. L’eredità di tale stagione è molto pesante. Ma si anche visto un fiorire di analisi sull’imperialismo Usa, sull’economia del petrolio, sul catastrofico lascito del colonialismo occidentale.
Oggi parallelamente vediamo uscire contributi su com’è orribile l’imperialismo della Russia e di quanto sia dispotico il suo governo (che però quando dava le basi agli Usa per la guerra in Afghanistan non sembrava tanto male!), accanto a testi sulla aggressività della NATO, sull’ormai palpabile declino del potere mondiale statunitense e di come le narrative belliche stiano logorando lo stato di diritto nei paesi occidentali.
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Introduzione a "La società dei simulacri"
di Mario Perniola
La società dei simulacri nel tempo del governo dei peggiori
Ho aspettato trent’anni per ripubblicare questo libro, nonostante le ripetute sollecitazioni di lettori e di editori. Infatti solo ora i fenomeni sociali descritti allora, al loro sorgere, il potere delle organizzazioni criminali e la decadenza del sapere, hanno raggiunto il loro momento culminante.
Si è così verificata un’inversione di tendenza: qualcuno si è finalmente accorto che la distruzione sistematica dell’eredità civile, culturale, morale ed estetica dell’Occidente e dei criteri di legittimazione elaborati attraverso più di due millenni, giova alla diffusione dell’ignoranza e della paura, sulle quali prosperano le mafie e il conformismo consumistico. E comincia ad avere il coraggio di dirlo e trova anche spazio in qualche quotidiano senza essere censurato dal timore dei capo-redattori e dei direttori dei giornali di vendere qualche copia in meno o di dispiacere ai loro padrini politici. Nel momento in cui l’amministrazione della giustizia e le istituzioni sanitarie, scolastiche ed accademiche collassano, si è manifestato finalmente il dubbio che il furore contro le aristocrazie scientifiche, intellettuali e burocratiche ha portato al trionfo delle oclocrazie, cioè al governo dei peggiori. Spacciare l’oclocrazia per democrazia è un errore fatale che gli antichi Greci non avrebbero mai commesso.
Il successo che ha ottenuto la prima edizione di questo libro, al punto di essere il più citato tra i miei lavori, si è basato spesso su di un equivoco. Infatti la nozione di simulacro è stata per lo più intesa come sinonimo di falsità, d’inganno, di frode e quindi come una teoria della manipolazione mass-mediatica; al contrario, essa è un salvagente per galleggiare nel tempestoso oceano della comunicazione, in cui tutti siamo, volenti o nolenti, immersi. La posta in gioco era la seguente: inutile impegnarsi nella difesa degli intellettuali, nelle tre forme classiche di giornalisti, professori e politici. Già nel 1980 – anzi già dal 1968 - era evidente che la civiltà di cui erano stati i protagonisti stava tramontando: lungo trent’anni, hanno cercato di difendersi con le unghie e con i denti in una società che non aveva più bisogno di loro, sposando via via le opinioni più idiote, purché sembrassero nuove, up-to-date, riformiste, e contribuendo così in modo determinante al totale sfacelo delle loro istituzioni.
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Cosa possiamo fare?
di Andrea Zhok
Gli ultimi mesi hanno visto un’accelerazione dei processi di dissoluzione dei paradigmi democratici e dei diritti costituzionali inedita nella storia della Repubblica. Che di questa situazione una parte ampia della popolazione italiana non abbia alcuna contezza va registrato con rammarico, ma non può essere un motivo per rimanere alla finestra.
A) Qual è la situazione in cui ci troviamo?
Riassumiamo quanto accaduto negli ultimi mesi sotto il profilo democratico.
• Con la Certificazione Verde si è istituito di fatto un trattamento sanitario obbligatorio sotto mentite spoglie, in violazione dell’articolo 32 della Costituzione.
• Le massive proteste di piazza che si sono succedute per mesi in decine di città italiane sono state ignorate dall’esecutivo e rimosse dalla vista e dal giudizio dai media, salvo nelle occasioni in cui era possibile stigmatizzarne qualche eccesso. L’unica risposta alla protesta di milioni di persone è stata ad un certo punto l’imposizione di un divieto di manifestare, in violazione sostanziale dell’articolo 17 della Costituzione.
• Intanto su molti manifestanti, identificati nel corso di eventi pacifici, senza che gli venisse ascritto alcun reato, hanno iniziato a piovere provvedimenti di DASPO urbani, annuali o triennali.
• Per rendere facile l’operatività dei controlli e l’implementazione del sistema certificativo da inizio ottobre è stata modificata la normativa sulla Privacy, scavalcando il Garante e legittimando di default il trattamento dei dati personali da parte dell’amministrazione pubblica, ogni qualvolta venga dichiarato che tale trattamento avviene per ragioni di pubblico interesse.
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“Il neoliberismo è un progetto politico”
B. S. Risager intervista David Harvey
Un’intervista al grande geografo David Harvey sul mensile Jacobin : https://www.jacobinmag.com/2016/07/david-harvey-neoliberalism-capitalism-labor-crisis-resistance/ - Traduzione a cura di Panofsky (https://www.facebook.com/Panofsky-260479200991238/?fref=ts)

Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.
* * *
Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.
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I think tank, ossia quando Dio e Darwin benedicono l'Impero
Miguel Martinez
I think tank sono nati, negli Stati Uniti, molti decenni fa, con uno scopo di straordinaria ampiezza: ricostruire scientificamente il mondo in funzione degli interessi del capitalismo americano.
Le grandi imprese del paese, ognuna delle quali muoveva un'economia paragonabile a quella di diverse nazioni, hanno delegato a squadre di tecnici il compito di analizzare razionalmente la realtà e trasformarla. Un progetto curiosamente parallelo nel tempo e negli scopi alla grande pianificazione sovietica.
Il think tank non va visto in chiave complottista: la sua è una funzione tecnica, con molta indipendenza, che serve a un vasto complesso di interessi.
Il contesto è lontano da quello feudale italiano, dove simili istituzioni diventerebbero immediatamente ricettacoli di cugini sfaticati di onorevoli e fabbriche di chiacchiere e messaggi trasversali.
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Keynes e l’inelasticità degli investimenti
Beneath Surface
La domanda relativa a come e perché gli investimenti non reagiscano come si vorrebbe al Quantitative Easing e alla politica monetaria in genere ricorre con crescente frequenza. Con l’aiuto di Keynes cerchiamo di scoprire qualcosa in più.
Tanto i classici quanto Keynes ritenevano che un fattore determinante il livello degli investimenti fosse il tasso di interesse. Keynes però rimarcò anche che un ruolo altrettanto e più fondamentale la occupa la redditività attesa degli investimenti: se il loro rendimento è basso malgrado tassi di interesse bassi, allora potrebbe essere considerato, a livello aziendale, non profittevole indebitarsi per avviare detto investimento (vds nota 1).
Keynes dedicò il cap.XII del libro quarto della Teoria Generale al ruolo delle aspettative di lungo termine e all’efficienza del capitale in particolare, pur “perdendosi” in una lunga tirata sul deludente stato(all’epoca sua) della fiducia delle imprese nella stabilità delle proprie previsioni, minate dalla speculazione borsistica sui titoli aziendali (colpa la separazione fra proprietà e gestione, lo abbiamo visto con Schumpeter) trainata dagli animal spirits di cui ci aveva già parlato Forchielli.
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All'origine delle crisi: sovrapproduzione o sottoconsumo?
Louis Gill
In un articolo intitolato “La recessione mondiale: momento, interpretazioni e poste in gioco della crisi”, François Chesnais critica l’interpretazione più diffusa della crisi in corso come crisi di sottoconsumo, causata da una contrazione dei salari che si sarebbe cercato di compensare con una forte espansione del credito. In particolare affronta la variante di questa interpretazione presentata da Alan Bihr in un articolo intitolato “Il trionfo catastrofico del neoliberalismo”, ed esprime il suo disaccordo con la tesi di un “plusvalore in eccesso” che vi sviluppa Bihr. La caratterizza come un totale rovesciamento della comprensione del capitalismo ereditata da Marx, secondo la quale il capitale si scontra non con un eccesso, ma con una insufficienza cronica di plusvalore, di cui una manifestazione è la tendenza all’abbassamento del saggio di profitto.
Il fatto che questa penuria di plusvalore sia percepita sotto forma di difficoltà di realizzazione “dimostra la loro cecità di fronte alle contraddizioni del sistema”, scrive Chesnais, che rinvia al mio libro Fondamenti e limiti del capitalismo per “una presentazione molto chiara di queste contraddizioni e di questa cecità”.
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“La Russia ha vinto la guerra, quello che resta è un lavoro di pulizia”
intervista a Larry C. Johnson
In un’intervista Larry C. Johnson, un ex ufficiale della CIA, sostiene che la Russia ha già vinto la guerra e che rimane solo il lavoro di pulizia. Johnson ha addestrato i commando delle operazioni speciali dell’esercito americano per 24 anni e poi ha lavorato nell’ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato.
* * * *
Può spiegare perché pensa che la Russia stia vincendo la guerra in Ucraina?
Nelle prime 24 ore dell’operazione militare russa in Ucraina, tutte le capacità ucraine di intercettazione radar a terra sono state distrutte. Senza questi radar, la forza aerea ucraina ha perso la sua capacità di interdizione aria-aria. Per le tre settimane successive, la Russia ha stabilito una no-fly zone de facto sull’Ucraina.
Anche se ancora vulnerabile ai missili terra-aria [Manpad] forniti agli ucraini dagli Stati Uniti e dalla NATO, non vi è alcuna indicazione che la Russia abbia dovuto ridimensionare le sue operazioni aeree di combattimento.
Mi ha colpito anche l’arrivo della Russia a Kiev tre giorni dopo l’invasione. Ho ricordato che i nazisti hanno impiegato sette settimane per raggiungere Kiev durante l’operazione Barbarossa [1941] e altre sette settimane per sottomettere la città.
I nazisti avevano il vantaggio di non risparmiare nessuno sforzo per evitare vittime civili ed erano ansiosi di distruggere le infrastrutture essenziali. Tuttavia, molti cosiddetti esperti militari americani hanno affermato che la Russia era impantanata.
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Introduzione a “Il capitale mondo”
di Massimo Maggini
La fase terminale volge sempre in farsa,
anche se, in ultima analisi, in una farsa sanguinosa
Robert Kurz
Con la pubblicazione de Il capitale mondo esce finalmente in Italia uno dei libri più interessanti ed importanti di Robert Kurz.
Kurz, insieme a pochi altri (fra cui Roswitha Scholz, Norbert Trenkle e Ernst Lohoff), è stato il fondatore della corrente di pensiero chiamata Wertkritik (Critica del valore),1 una rilettura del pensiero marxiano che privilegia gli aspetti rimasti in ombra nella ricezione di Marx da parte del marxismo classico. Quest’ultimo, infatti, ha focalizzato l’attenzione sulla lotta di classe, sulla soggettività operaia e sulla richiesta di una più equa distribuzione del prodotto e della redditività sociale – tutti temi sicuramente presenti nell’opera marxiana – trascurando però quasi completamente, tranne qualche insufficiente e temporanea eccezione, una parte altrettanto presente ed importante, se non anche più dell’altra, che analizza la struttura di fondo del sistema del capitale e ne rintraccia le contraddizioni interne e i limiti invalicabili, verso i quali questo sistema è necessariamente indirizzato per un proprio moto interno ineludibile.
Non è un caso, infatti che Kurz parli di un “duplice Marx”,2 distinguendo fra un Marx “essoterico”, quello appunto della “lotta di classe” (un “rampollo e dissidente del liberalismo, il politico socialista della sua epoca ed il mentore del movimento operaio, che si limitava ad esigere diritti di cittadinanza e un ‘equo salario per una giornata di lavoro equa’ ”, come lo definisce Kurz),3 dove il capitale non è letto come un rapporto sociale storicamente determinato ma viene “ontologizzato”, e l’obiettivo principale diventa il rovesciamento dei rapporti di potere, non del sistema nelle sue fondamenta, e quello “esoterico”, critico impietoso della struttura capitalistica e del suo ottuso feticismo, della forma-valore, che presiede al movimento del capitale, e del tanto osannato – specie dai paladini del marxismo classico – “lavoro astratto” che ne è, diciamo, l’“esecutore materiale”.4
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«Una teoria generale del conflitto sociale»
Lotte di classe, marxismo e relazioni internazionali
Matteo Gargani intervista Domenico Losurdo
Rivolgeremo qui alcune domande a Domenico Losurdo, professore emerito presso l’Università degli Studi di Urbino, a partire dalle sue due più recenti pubblicazioni La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013 (abbreviato “LC” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola) e La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014 (abbreviato “SA” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola)
Gargani: Nel marxismo italiano, dal secondo dopoguerra, si possono – con le dovute cautele storiografiche – rintracciare tre filoni fondamentali. Il primo è quello storicista, ossia il canone interpretativo del PCI, impostato nelle sue linee essenziali da Togliatti e ispirato a una lettura di Gramsci quale culmine di un’ideale linea De Sanctis-Labriola-Croce. Il secondo è quello operaista, la cui simbolica data d’inizio può esser fatta risalire alla fondazione nel 1961 della rivista «Quaderni Rossi» e che ha annoverato tra le sue fila personalità differenti per formazione e provenienza politica come Tronti, Panzieri, Asor Rosa, Negri e Cacciari. Il terzo è quello del cosiddetto “dellavolpismo” che, attraverso soprattutto la produzione di della Volpe e Colletti, ha cercato di dare una lettura in chiave scientifica della Critica dell’economia politica di Marx, marginalizzandone la produzione giovanile e accentuandone allo stesso tempo la distanza da Hegel. In che modo ha letto Marx negli anni della sua formazione? Come colloca la sua interpretazione di Marx rispetto a questi tre filoni?
Losurdo: Non metterei sullo stesso piano i tre filoni. Il richiamo a Labriola e ancor prima al Risorgimento non impedisce a Togliatti di mettere l’accento sulla questione coloniale (ignorata da Labriola, che celebra l’espansione italiana in Libia) e di denunciare (con Lenin) la «barbara discriminazione tra le creature umane», propria del capitalismo e dello stesso liberalismo.
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Il separatismo
Forza, garanzia di riconoscimento, necessità della lotta femminista
di Elisabetta Teghil
Il separatismo è una pratica politica di sottrazione che permette ad un insieme oppresso di riconoscersi, di riconoscere l’oppressore e di elaborare in autonomia.
Non appartiene solamente al movimento femminista, ma a molti altri ambiti di lotta come, ad esempio, la lotta contro le discriminazioni razziste o contro quelle basate sull’etnia o sulla religione.
E’ caratterizzato da due elementi:
- consiste nel rifiutare ogni pratica di analisi e costruzione politica con coloro che vengono ritenuti soggetti oppressori.
Un esempio conosciuto, oltre a quello all’interno della lotta di liberazione delle donne, è il separatismo attuato dalle nere e dai neri, nelle loro lotte di liberazione negli Stati Uniti.
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The Lancet: Covid-19 non è una pandemia, ma una sindemia
di Edmondo Peralta
The Lancet è considerata una delle più prestigiose riviste medico-scientifiche. Sia chiaro, anche The Lancet ha preso cantonate, come quando ha dovuto smentire uno studio (poi ricusato) sui pericoli della idrossiclorochina, studio che è servito all’Oms per sospendere l’uso del farmaco nei trial clinici, e lo stesso ha fatto l’Aifa italiana.
Di recente la rivista ha pubblicato un intervento del suo direttore, Richard Horton, che contesta, in riferimento al Covid-19, non solo le clausure il terrorismo sanitario dei governi, bensì lo stesso concetto di pandemia e propone quello di Sindemia. Un neologismo inglese Sindemia (synergy e epidemic) che è usato per caratterizzare l’aggregazione di due o più epidemie concomitanti o sequenziali o gruppi di malattie in una popolazione con interazioni biologiche che aggravano la curva prognostica delle malattie stesse. [Vedi: G. Collecchia, Il modello sindemico in medicina, in Recenti Progressi in Medicina, 220, 2019, pp. 271 ss]
Segnaliamo ai lettori l’articolo che segue.
* * * *
“Covid-19 is not a pandemic“: non una pandemia, ma una “sindemia“. Per il direttore di The Lancet la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.
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Le paure sbagliate del governo
Felice Roberto Pizzuti
Le posizioni emerse nel dibattito sulla proposta di aumentare gli assegni ai disoccupati sono sintomatiche dell’estemporaneità con la quale ancora si affronta il tema degli ammortizzatori sociali e, più in generale, dell’inadeguatezza delle politiche sociali correnti rispetto alle esigenze anche economiche accentuate drammaticamente dalla crisi in atto.
Quella che oramai senza enfasi può essere chiamata “la grande crisi del 2008” rende incontestabilmente più urgente il potenziamento degli ammortizzatori sociali, cosicché oggi appaiono particolarmente ingiustificate le contrarietà ad attuarlo o a subordinarlo alla riduzione delle prestazioni pensionistiche. Va tuttavia sottolineato che le carenze delle misure di sostegno al reddito del nostro sistema di welfare sono da anni sotto gli occhi di chi vuol vedere (o leggere: ad esempio, le periodiche edizioni del “Rapporto sullo Stato sociale” elaborato annualmente presso il Dipartimento di Economia Pubblica della “Sapienza”).
Fatta pari a 100 la spesa sociale procapite della media dell’Unione europea a 15, il dato italiano, dopo una riduzione di 7 punti negli ultimi dieci anni, è arrivato a 75. Se si fanno confronti omogenei, il divario è sensibilmente superiore a quello che emerge dai dati ufficiali.
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Eurobond? No, meglio una buona contraerea
di Comidad
La penosa performance di Merkel e Sarkozy della scorsa settimana ha suscitato un commento caustico da parte dell'ex ministro ed ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato, attualmente senior advisor di Deutsche Bank. In un articolo su "Il Sole-24 ore" del 21 agosto, dal titolo "Van Rompuy, batti un colpo", Amato ha sottolineato l'estemporaneità della posizione Merkel-Sarkozy, appellandosi al presidente permanente dell'Unione Europea, Herman Van Rompuy, al fine di un rilancio delle procedure istituzionali dell'UE, ed anche perché venga presa seriamente in considerazione la proposta degli eurobond, già cara al ministro Tremonti.(1)
Se ad Amato è risultato sin troppo facile fustigare il velleitarismo di Merkel e Sarkozy, ivi compresa la boutade di inserire nelle Costituzioni degli Stati il vincolo del pareggio di bilancio, però non è riuscito a sfuggire anche lui alla stessa incapacità di arrivare al dunque. Van Rompuy si è infatti deciso a battere un colpo, ma solo per dare ragione alla Merkel e per rimandare gli eurobond al giorno in cui tutti gli Stati della UE avranno il bilancio in pareggio (o "virtualmente" in pareggio).(2)
Quell'enigmatico avverbio ("virtualmente") conferisce anche alla posizione di Van Rompuy quel tocco di cialtroneria che lo riconsegna alla medesima antropologia servile dei Sarkozy o dei Merkel. Ma bisogna comunque ammettere che la risposta di Van Rompuy può essere agevolmente tradotta. Il suo significato "virtuale" è infatti questo: di eurobond non se ne parla, ma se per caso un giorno dovessero far comodo alle banche, allora ci scorderemo anche dei vincoli di bilancio, tanto sono soltanto feticci per spaventare i gonzi. Quanto sia subdolo e pretestuoso il vincolo di bilancio, è dimostrato proprio dalle "terapie anti-deficit" che vengono imposte, cioè le privatizzazioni. Insomma, dietro la manovra c'è la solita manovra: privatizzare.
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Un filo rosso: Rosa Luxemburg e Ulrike Meinhof
di Elisabetta Teghil
“No, non voglio essere una delle vostre donne confezionate col cellophane. Non voglio essere presenza tenera di piccole risate e di sorrisi stupidamente allettanti e dovermi sforzare di essere quel tanto triste e ammiccante e al tempo pazza e imprevedibile e poi sciocca e infantile e poi materna e puttana e poi all’istante ridere pudica in falsetto a una vostra immancabile trivialità.” Ulrike Meinhof
* * *
Il libro appena uscito per le Edizioni Gwynplaine “Ulrike Meinhof, una vita per la rivoluzione-R.A.F. Teoria e prassi della guerriglia urbana” a cura di Giulia Bausano e Emilio Quadrelli su Ulrike Meinhof e sui documenti della RAF, viene a distanza di 37 anni da quando l’editore Bertani pubblicò “La guerriglia nella metropoli -Testi della RAF e ultime lettere di Ulrike Meinhof”.
In quella occasione in una nota, l’editore rammentò un articolo della stampa mainstream che ipotizzava che in un “covo” erano stati ritrovati degli scritti della RAF con un elenco di nomi fra cui un certo “George Bertein”. Era facile fare il collegamento fra questa presunta scoperta e il nome dell’editore Giorgio Bertani.
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Lettera aperta a Contropiano, su green pass e dintorni
di Roberto Sassi - Nico Maccentelli - Valerio Evangelisti
Seguiamo Contropiano, ed occasionalmente vi collaboriamo, fin dalle sue origini, lo riteniamo un prezioso strumento di controinformazione e formazione politica, per questo ci siamo presi il tempo per riflettere e confrontarci prima di scrivere questa lettera.
Riteniamo profondamente sbagliato e dannoso l’approccio con cui è stato affrontato il problema del green pass ed in generale dell’emergenza pandemica, sentiamo l’urgenza di aprire un dibattito sul tema che consenta di rettificare queste posizioni.
Il vaccino senza alternative?
I compagni che difendono o tollerano il green pass partono da un assunto mille volte ripetuto dal governo: la vaccinazione universale è l’unico modo per sconfiggere il virus. Un’affermazione totalmente infondata. Sono molti i modi per affrontare la malattia, anche prevenendo il ricovero ospedaliero: ci sono decine di farmaci, spesso a basso costo, che hanno avuto ottimi risultati, anche nella cura a domicilio. In Cina (dove la libertà di scelta terapeutica è a fondamento del sistema sanitario fin dalle sue origini) è stata utilizzata con successo anche la medicina tradizionale, bloccando le ondate epidemiche prima ancora di disporre del vaccino.
Eppure, non appena qualcuno si alza a sostenere la possibilità di guarigione per altra via che non sia il vaccino, incorre in scomuniche, minacce, insulti.
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Avete capito dove ci stanno portando?
di Carlo Lucchesi
Ho letto e ascoltato interventi di autorevoli esperti sempre più convinti che stiamo andando incontro a una guerra fra Europa, con o senza Nato, e Russia. E’ vero che una guerra di USA, Nato ed Europa contro la Russia è in corso da tre anni in Ucraina, ma adesso si parla della guerra diretta, quella con tutti gli eserciti schierati a combatterla. Questa previsione non mi convince e a mio parere rischia di farci perdere di vista i pericoli veri, uno che incombe sempre più minaccioso, l’altro che ha già preso la forma della realtà.
Quel tipo di guerra fra Russia ed Europa non può esserci. Nessuno può pensare che sia la Russia a promuoverla. Ci sono mille buone ragioni che escludono questa eventualità, la prima delle quali è che la Russia non ha il minimo interesse a farlo, anzi, ha l’interesse opposto, ovvero avere con l’Europa buoni rapporti e scambi commerciali reciprocamente utili. Possono dirlo, facendo finta di crederci e provando a convincere i rispettivi popoli, soltanto politici e giornalisti prezzolati o semplicemente proni a volontà e interessi che hanno deciso di servire, mestiere che non richiede intelligenza e neppure l’uso della ragione.
Ma è impossibile anche pensare che sia l’Europa ad avviare la guerra con la Russia. Non perché manchi una qualsiasi motivazione. L’Occidente ha fatto per secoli guerre, massacri e genocidi senza alcuna giustificazione.
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Il «servilismo» italiano e il '68
di Luigi Cavallaro
I post-sessantottini non si chiedono in che modo ciò in cui hanno creduto e credono (e soprattutto ciò che hanno fatto dal 1989 a oggi) possa essere considerato la causa del declino economico e sociale di oggi. E Viale non fa eccezione
Non credo che il problema di questo Paese sia un generico «servilismo», come recentemente sostenuto su queste colonne da Guido Viale. (il manifesto 29/4) Tanto meno credo che codesto «servilismo» non abbia a che fare con le rivolte del '68 contro l'«autoritarismo» e per «la conquista di una propria autonomia personale». Mi pare piuttosto di poter dire che l'origine dei nostri problemi risieda precisamente nel rapporto tra le aspirazioni giovanili della generazione del '68 e le concretizzazioni reali della sua maturità.
È un fatto difficilmente contestabile che, attualmente, le leve del potere dell'industria culturale stiano tutte in mano a (tardi) esponenti della «generazione ribelle», equamente distribuiti fra «destra» e «sinistra». L'editoria più importante non pubblica se non ciò che si richiama alla loro costellazione valoriale. In televisione, occupano la scena come anchor-men (o women) o come ospiti dotati di diritto di parola. Beninteso, qualche spazio letterario o qualche comparsata televisiva si concede anche agli extranei, ma a condizione che i beneficati non pretendano di obiettare all'idealismo (in senso gnoseologico) dei depositari del logos.
Dal punto di vista economico e politico la situazione non è differente.
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Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta
Stefano Perri, Riccardo Realfonzo
1. Nella spesa pubblica italiana si annidano sprechi e intollerabili sacche di privilegi. Questa amara considerazione induce molti commentatori a dedurre che la spesa pubblica italiana sia eccessiva e in questo consisterebbe il principale problema della nostra finanza pubblica, secondo alcuni persino la causa originaria della montagna di debito pubblico. Per questa ragione, la spesa pubblica italiana andrebbe complessivamente ridotta. Ma si tratta di una vecchia ricetta che ha già dato pessima prova di sé. Infatti, la spesa pubblica è oggetto di tagli incisivi in Italia da oltre venti anni, senza che sprechi e privilegi siano stati cancellati. Per non parlare degli effetti macroeconomici dei tagli, e in generale delle politiche di austerità, che hanno arrestato la crescita della nostra economia.
A ben vedere, la spesa pubblica italiana non è affatto elevata e gli sprechi non devono essere combattuti tagliando la spesa, bensì riqualificandola. Infatti, come di seguito mostreremo, il volume complessivo della spesa pubblica italiana è in linea con la media dei Paesi europei, nonostante il volume ingombrante degli interessi sul debito. Ciò significa che la spesa pubblica primaria o “di scopo” – cioè la spesa diretta ad erogare servizi pubblici, con esclusione degli interessi sul debito – è largamente inferiore alla media europea.
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Il concetto di «capitalismo di Stato» in Lenin1
di Vladimiro Giacché*
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0

Dopo sei mesi di rivoluzione socialista coloro che
ragionano solo sulla base dei libri non capiscono nulla.
LENIN, 5 luglio 19182
1. 1917-1918. Il capitalismo di Stato come «passo avanti»
Le prime occorrenze significative del concetto di capitalismo di Stato negli scritti di Lenin del periodo postrivoluzionario risalgono alla primavera del 1918, e si situano nel contesto della dura contrapposizione ai «comunisti di sinistra», l’opposizione interna al Partito comunista allora guidata da Nikolaj Bucharin. Lo scontro, inizialmente infuriato sulla firma del trattato di pace con la Germania, non era meno duro sul terreno economico. Esso riguardava ora la gestione delle imprese e il rafforzamento della disciplina del lavoro al loro interno: alla necessità di questo rafforzamento, su cui Lenin insisteva, i «comunisti di sinistra» contrapponevano la gestione collettiva delle imprese, che finiva in pratica per tradursi nella paralisi e nell’ingovernabilità delle imprese nazionalizzate. Ma il tema centrale era un altro ancora: il ritmo e la direzione della trasformazione economica. In quei mesi Oppokov proponeva di «dichiarare la proprietà privata inammissibile sia nella città che nelle campagne», mentre un altro «comunista di sinistra», Osinskij, parlava di «liquidazione totale della proprietà privata» e di «immediata transizione al socialismo»3.
Per Lenin le priorità sono diverse: «la ricostituzione delle forze produttive distrutte dalla guerra e dal malgoverno della borghesia; il risanamento delle ferite inferte dalla guerra, dalla sconfitta, dalla speculazione e dai tentativi della borghesia di restaurare il potere abbattuto degli sfruttatori; la ripresa economica del paese; la sicura tutela dell’ordine più elementare»4.
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Sartre, tutta una vita dalla parte del torto
di Angelo d'Orsi
Quando mancò - era il 15 aprile del 1980: tre anni prima, sempre a Parigi, nella notte sempre tra il 15 e il 16 aprile se n'era andato un altro grande della cultura francese, Jacques Prévert - chi scrive era borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, dove aveva dato vita a un gruppetto di giovani "ribelli" alle regole piuttosto ferree di quella nobile istituzione. Ci si vedeva oltre che nei locali della biblioteca e dell'archivio, e nelle stanze a noi riservate, al di fuori: a pranzo, a cena, in qualche circolo Arci, sul Lungo Po, e si facevano grandi discussioni politico-culturali. Eravamo insieme quando giunse la notizia. Proposi allora, in una di quelle iniziative un po' sconsiderate che caratterizzano la giovane età, di organizzare un viaggio-lampo nella Ville Lumière e partecipare ai funerali di Sartre, l'indomani. Del resto, ricordo il pezzo forte della mia argomentazione, non aveva teorizzato, Sartre, il "gruppo in fusione" ? E non era ciò che cercavamo di essere?
Il no che ricevetti fu corale. E non era tanto e solo per il peso - innanzi tutto economico, essendo tutti più o meno squattrinati - della spedizione, ma specialmente perché, come sentenziò uno dei miei compagni (oggi importante studioso e commentatore delle relazioni industriali), "Sartre era superato". Forse lo era, ma nel mio deluso entusiasmo vibrava tutta l'ammirazione per la capacità di quel vecchio filosofo (vecchio per noi: in realtà morì a 75 anni non compiuti, essendo nato, ovviamente a Parigi, il 21 giugno del 1905) di mettersi in gioco, sfidando le corporazioni intellettuali, gli ambienti accademici (accademico non fu mai, ma le sue opere erano oggetto di studio nei corsi universitari, non soltanto in Francia, e decine di studiosi togati si erano cimentati in interpretazioni sartriane), le forze politiche, e lo stesso senso comune.
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Classe operaia globale: insurrezione o lotta di classe?
Il concetto di “classe” è nuovamente divenuto popolare. Dopo la più recente crisi economica globale, anche i giornali borghesi hanno cominciato a porsi la domanda: “Dopo tutto, forse che Marx non avesse ragione?”. “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty è stato nella lista dei bestseller degli ultimi due anni – un libro che descrive in modo dettagliato e puntuale come storicamente il processo capitalistico di accumulazione abbia sortito il risultato di una concentrazione di ricchezza nelle mani di una stretta minoranza di possessori di capitali. Per di più, nelle democrazie occidentali le notevoli diseguaglianze hanno provocato un accentuato timore di rivolte sociali. Negli ultimi anni, questo spettro ha ossessionato il mondo – dai disordini di Atene, Londra, Baltimora, fino alle rivolte in Nord Africa, a volte con la cancellazione di governi statali. Come di consueto, in questi tempi di agitazione, mentre una fazione dei detentori del potere invoca la repressione armata, l’altra solleva la “questione sociale”, che si suppone dovrebbe essere risolta attraverso riforme o politiche redistributive.
* * *
La crisi globale ha de-legittimato il capitalismo; la politica dei padroni e dei governi per costringere i lavoratori e i poveri a pagare per la crisi ha alimentato la rabbia e la disperazione. Chi potrebbe ancora contestare il fatto che noi viviamo in una “società classista”? Ma questo che cosa sta a significare?
Le “classi” nel senso più stretto del termine emergono solo con il capitalismo - ma l’appropriazione indebita dei mezzi di produzione, da cui deriva la condizione del proletariato privo di proprietà, non è stato un processo storico eccezionale. L’appropriazione indebita è un ripetersi quotidiano all’interno del processo produttivo: i lavoratori producono, ma il prodotto del loro lavoro non appartiene a loro.
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Lavoro, parola-chiave
di Mario Tronti
Ripartire dal lavoro? Preferisco dire: il lavoro al centro campo. Il campo è l’analisi sociale e l’iniziativa politica. Occorre tornare a “studiare” il lavoro e tornare a farne il terreno privilegiato delle lotte. La fase attuale di crisi capitalistica favorisce il dispiegamento di questa operazione politico-culturale.
Fermiamoci un momento su quest’ultimo punto. Negli anni appena passati, praticamente i tre decenni che stanno alle nostre spalle, ci si era illusi che il capitalismo avesse assunto un assetto definitivo, segnato dalla trionfante globalizzazione neoliberista. Era stata messa in soffitta la lettura marxiana del capitale, non solo come sviluppo, ma anche come crisi. Era stata dimenticata la stessa teoria schumpeteriana dei cicli economici. L’andamento ciclico della produzione/circolazione di capitale - crescita, stagnazione, recessione, ritorno a nuovi livelli, con nuove forme, della crescita - questa è storia, e storia moderna. E si capisce che, in tempi di cancellazione per decreto della storia, si sia potuto commettere questi errori di grammatica.
E l’altro errore, questa volta di sintassi, è che il capitalismo non è solo merce-denaro, e cioè mercato-finanza, ma è, soprattutto, produzione di merci a mezzo di merci, come ci insegnò una volta per tutte un certo Sraffa. Dunque, il lavoro, sì, oggi, ma nella crisi. E la crisi va vista nel duplice aspetto, di maledizione sociale, per il peggioramento che provoca nelle condizioni di vita dei lavoratori, e però di opportunità politica per l’occasione che offre di far ripartire forme di lotta e di organizzazione.
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Il capitalismo oggi
Risposta a Toni Negri
Alain Badiou
Vi proponiamo un estratto dal libro di Alain Badiou "Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali" in cui il filosofo francese rispondendo alle critiche di Toni Negri traccia un profilo dell'attuale fase del capitalismo
Mi si rimprovera spesso, anche nel «gruppo» dei miei potenziali compagni di fede politica, di non tener conto delle caratteristiche del capitalismo contemporaneo, e di non proporne un’«analisi marxista». Di conseguenza per me il comunismo sarebbe soltanto un’idea campata in aria, e io in definitiva sarei soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non sarei nemmeno attento alle sorprendenti trasformazioni del capitalismo, trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da intenditori, di un «capitalismo postmoderno».
Antonio Negri, per esempio, durante una conferenza internazionale sull’idea di comunismo – ero e sono molto contento di avervi preso parte – mi ha pubblicamente assunto quale esempio di tutti quelli che pretendono di essere comunisti senza neanche essere marxisti. In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che pretendere di essere marxisti senza essere nemmeno comunisti. Considerando il fatto che, per l’opinione corrente, il marxismo consiste nell’accordare un ruolo determinante all’economia e alle contraddizioni sociali che ne derivano, chi, oggi, non è «marxista»? I nostri padroni, che, non appena la Borsa comincia a traballare o i tassi di crescita ad abbassarsi, tremano e si riuniscono col favore della notte, sono tutti «marxisti». Provate invece a mettere sotto il loro naso la parola «comunismo», e vedrete come cominceranno a dare in escandescenze, considerandovi alla stregua di un criminale.
Qui invece vorrei dire, senza più preoccuparmi degli avversari e dei rivali, che anch’io sono marxista, in buona fede, pienamente e in un modo così naturale che non è neanche il caso di ripeterlo.
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L’ignoranza nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Paolo Vignola
Di fronte alla questione relativa al compito della filosofia, Gilles Deleuze ha dato una risposta che potremmo definire “fuori dal tempo” per la sua validità, e “fuori dalla filosofia contemporanea” per via della sua semplicità espressiva. Eppure, affermare, sulla scia di Nietzsche, che l’attività della filosofia «è la critica della stupidità e della bassezza»1 significa indicare un assioma fondamentale per la filosofia di questo nuovo secolo e, al tempo stesso, suggerire uno dei compiti politici più urgenti per il nostro presente. La critica della stupidità ha infatti acquisito la sua efficacia più puntuale nel momento in cui «l’informatica, il marketing, il design, la pubblicità, tutte le discipline della comunicazione si impadronivano della parola stessa “concetto”»2 e sembravano così sottrarre alla filosofia il suo lavoro di creazione dei concetti. Ecco allora che Deleuze, mostrando come queste discipline rientrano nel concetto di «controllo», ha voluto prendersi la rivincita del filosofo. Per Deleuze, di fronte all’avvento inesorabile delle società di controllo, il cui strumento principale è il marketing e l’obiettivo è la modulazione delle soggettività nella transizione economico-politica, «non è il caso di avere paura, né di sperare, ma bisogna cercare nuove armi»3 .
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