Effetti culturali dell’economia neoliberista
di Luca Benedini
I pesanti impatti del neoliberismo e della sua intrinseca mentalità patriarcale sulla vita quotidiana delle persone e sulla loro sfera interiore
(prima parte: un intreccio di precarietà e consumismo, con le facilitazioni fornite dalla pesantissima caduta qualitativa della “politica di sinistra” nel ’900)
Ci vuole tempo per amare
E libere menti per amare,
E chi è che ha tempo nelle mani?
– Jorma Kaukonen
dalla canzone Star track, incisa nell’album Crown of Creation (1968), dei Jefferson Airplane
Qui nella Buona-Vecchia-Dio-Salvi-L’America
La patria della gente coraggiosa e libera
Siamo tutti dei codardi, oppressi senza speranza
Da qualche dualità
Da una molteplicità senza posa
– Joni Mitchell
dalla canzone Don Juan’s reckless daughter, incisa nell’album omonimo (1977)
Si è già accennato – nel precedente intervento Il neoliberismo non è una teoria economica [1] – che il neoliberismo tende a trasformare nei fatti la società in una scoordinata aggregazione di persone mosse soprattutto da interessi materiali di tipo egoistico. Ciò innanzi tutto come effetto del fatto che i neoliberisti vedono il mondo come un’arena gladiatoria in cui le élite economiche possono utilizzare e manipolare pressoché a proprio piacimento le altre classi sociali – fino anche, come spesso accade, a logorarle sino allo sfinimento o a sostanzialmente stritolarle – usandole come ingranaggi, servi, oggetti, giocattoli oppure scarti [2]: un’arena in cui ciascuno è spinto ad arrangiarsi per sopravvivere e cavarsela, a titolo individuale o al massimo famigliare. E la realtà sociale degli ultimi decenni mostra che, di fatto, attualmente le élite in questione non solo valutano di poterlo fare, ma solitamente prendono anche in pratica la strada del farlo con grande applicazione....
Ma in parte è una tendenza che serve anche allo scopo dei neoliberisti di poter giustificare più facilmente – di fronte all’opinione pubblica – il neoliberismo stesso come unico modo veritiero, attendibile ed efficace di rappresentare il mondo e di muoversi in esso...: giustificazione tanto più necessaria nella società contemporanea dal momento che sono sempre di più i paesi con istituzioni di tipo democratico, dove dunque le opinioni predominanti all’interno della popolazione possono acquisire un peso politico determinante.
Tra precarietà e consumismo
Da un punto di vista più specificamente sociologico e psicologico, vi è un ulteriore duplice effetto nodale che proviene da una delle più tipiche caratteristiche del neoliberismo, cioè dal suo essere una moderna commistione di atteggiamento liberista (che sin dall’Ottocento tendeva a minimizzare tanto i diritti umani riconosciuti in campo economico e lavorativo quanto i servizi pubblici, tra i quali soprattutto quelli forniti gratuitamente alle persone, e ad affidare il più possibile al settore privato le attività che hanno una qualsiasi valenza economica) e di aspirazioni consumiste (diffusesi in pratica come crescente deformazione di un’equa e sostanzialmente sana aspirazione a condividere i frutti del progresso tecnico-scientifico concretizzato dall’umanità).
Si tratta di aspirazioni che dopo il boom tecnologico novecentesco sono quanto mai diffuse in tutte le fasce sociali. Ed è una diffusione che tuttora continua ad espandersi, non solo per motivi intrinseci al progresso tecnologico, ma anche sotto la spinta sia dell’onnipresente esaltazione pubblicitaria del possesso individuale di prodotti specialmente “di ultima generazione” (un’esaltazione fortemente funzionale al successo economico di molte grandi imprese, e tanto più di quelle che proprio giocando sull’evoluzione tecnologica tendono ad immettere con grande frequenza sul mercato nuovi modelli o nuovi prodotti), sia più in generale della cultura neoliberista che propaganda orientamenti esistenziali nei quali vengono enfatizzati l’individualismo e i beni materiali.
Fatto indubbiamente paradossale per i neoliberisti e per questa loro esaltazione dei beni materiali e in particolare delle tecnologie “di ultima generazione”, il boom in questione è stato enormemente favorito proprio da quelle che per molti aspetti possono essere considerate l’opposto del liberismo, cioè le politiche più o meno keynesiane che hanno iniziato ad affermarsi in Occidente dopo la crisi economica del ’29 e che specialmente dopo la fine della seconda guerra mondiale hanno sostituito a lungo il liberismo come approccio fondamentale degli Stati all’economia: consentendo un ampio incremento del reddito delle classi lavoratrici, hanno inserito queste ultime nel flusso commerciale di molti prodotti (tra i quali anche numerosi dei cosiddetti “beni durevoli”) e hanno dato in tal modo fortissimi stimoli alla ricerca tecnologica, che potendo ammortizzare su una produzione molto più ampia di prima i suoi elevati costi ha visto aprirsi orizzonti e prospettive molto più vasti.... E, per mettere in evidenza come il consumismo odierno sostanzialmente non sia altro che il nipote di tali politiche e del modo “keynesianamente fasullo” in cui – come già si è messo in rilievo in precedenti interventi [3] – gran parte di esse è stata concretizzata in molti paesi nel corso del secondo dopoguerra, possono essere sufficienti le tematiche su cui si focalizzava più di mezzo secolo fa un testo emblematico come L’uomo a una dimensione, di Herbert Marcuse (Einaudi, 1967).
In effetti, si potrebbe dire che la differenza principale tra liberismo e neoliberismo è che il primo era un’economia di pochi ricchi e tantissimi poveri, mentre il secondo parte da una base molto diversa – perché nel mezzo ci sono state appunto le cosiddette “politiche keynesiane”, che hanno ampiamente ridotto la povertà e hanno tendenzialmente mostrato la possibilità di eliminarla – e in prospettiva tenta di ritornare sostanzialmente verso un’economia di pochi ricchi e tantissimi poveri o precari, ma senza dirlo pubblicamente (perché senza almeno un minimo di consenso popolare non si può dominare stabilmente e a lungo una società) [4].... Dopo che nel globo sono iniziate le esperienze economiche di tipo keynesiano, il lavoratore precario-ma-non-proprio-misero che attualmente è sempre più tipico del mondo “sviluppato” e che è comparso in modo crescente anche in vari altri paesi offre in effetti certi evidenti vantaggi anche alla parte più classista delle élite economiche: essendo precario rimane socialmente debole come avveniva nell’industrialismo ottocentesco, ma essendo non proprio misero è in grado di consumare e, quindi, di partecipare sia a “tenere maggiormente in piedi” l’economia sia a fornire quel minimo di base economica che è necessario per il proseguimento dello sviluppo tecnologico (con tutti i profitti e il tendenziale dominio economico che tale sviluppo consente alle élite che lo dirigono e che grazie alla propria posizione possono sfruttare a proprio vantaggio i risultati concreti dello sviluppo stesso...).
Da un lato, così, tra le classi lavoratrici vi è una grande presenza di insicurezza socio-economica a seguito sia della tipicamente vasta diffusione della disoccupazione e del lavoro precario (che è in pratica l’unica forma di lavoro che il neoliberismo tende a prendere in considerazione) sia, parallelamente, del fatto ben noto che lo Stato neoliberista tende a deregolamentare i mercati il più possibile e a non prevedere affatto degli ammortizzatori sociali adeguati (capaci cioè di sottrarre alla miseria le fasce sociali correntemente più svantaggiate). Per un grandissimo numero di persone ciò porta anche alla tendenziale impossibilità di progettare con una certa stabilità e affidabilità un proprio futuro personale, specialmente da punti di vista come l’avere dei figli in un modo pienamente consapevole e responsabile – che prenda in considerazione soprattutto le esigenze, il benessere complessivo e la potenziale gioia esistenziale dei figli stessi – e il pianificare iniziative a medio-lungo termine per le quali sono richiesti investimenti consistenti [5].
In tal modo, in gran parte del mondo avviene che all’interno di una stessa società ci siano persone (solitamente parecchie nei paesi “sviluppati” e tantissime negli altri paesi) che addirittura faticano a procurarsi cose necessarie come cibo, acqua potabile, un’abitazione soddisfacente, medicine, ecc. e che possono permettersi ben poco di superfluo, mentre altre persone (decisamente poche) passano gran parte della loro esistenza praticamente immerse non solo nel necessario ma anche in numerosi tipi di superfluo [6].... E ciò non certo per una mancanza di risorse disponibili, ma soltanto per una precisa volontà delle maggiori élite economiche e politiche mondiali [7]....
Tra l’altro – come è ormai divenuto sfacciatamente evidente pressoché in tutto il mondo – il senso di precarietà e di insicurezza si moltiplica a dismisura nelle fasce più deboli (lavoratori sottoccupati, pensionati a basso reddito, persone disabili, disoccupati, bambini e adolescenti che crescono in famiglie povere, ecc.), le quali appunto vedono estremamente ridotta la protezione loro fornita dalle iniziative pubbliche che il neoliberismo tende a negare (o comunque cerca di limitare il più possibile) e finiscono col sentirsi socialmente ancor più svalutate, emarginate ed escluse proprio per la continua esaltazione mediatica e commerciale di aspetti del vivere per loro molto scarsamente raggiungibili, come appunto i consumi e il possesso materiale. E, tipicamente, si tratta di fasce sociali di grande ampiezza al di fuori del “mondo sviluppato” e sempre più consistenti anche in quest’ultimo, proprio sulla spinta delle dominanti impostazioni politiche neoliberiste.
Parallelamente, gran parte dei lavoratori è presa – con grande sofferenza psicofisica ed esistenziale – tra l’incudine della precarietà e della disoccupazione e il martello di forme di superlavoro impostate con modalità (ritmi, orari, mansioni, ecc.) spesso estreme e sovraffaticanti, oltre che di solito pesantemente stressanti. E, a dispetto delle tantissime e documentatissime voci che durante l’epoca della manifattura e poi l’era industriale hanno denunciato gli impatti fortemente deleteri che – nelle società moderne – le più tipiche forme di organizzazione del lavoro organizzate dall’alto hanno sull’evoluzione della personalità umana, in buona parte del mondo del lavoro le forme predominanti continuano a rimanere orientate in quel modo. Nel XX secolo, la catena di montaggio – diffusissima sia nelle regioni industrializzate apertamente capitalistiche che nei regimi del cosiddetto “socialismo reale”, caratterizzati da un’economia per lo più nazionalizzata e gestita attraverso lo Stato – è diventata in pratica il maggior emblema dei distruttivi effetti psicofisici che il lavoro può avere sugli esseri umani [8].
Oltre tutto, specialmente durante l’ultimo mezzo secolo, a livello tecnico si è compiuto un pieno e ormai assodato superamento della catena di montaggio, mediante tutt’altre procedure industriali – come le isole di montaggio e vari loro ulteriori sviluppi, la produzione a celle, o un’automazione molto spinta – che salvaguardano molto di più la qualità del lavoro riuscendo sostanzialmente anche a salvaguardare la capacità produttiva. Nel contempo, vi sono anche ampi spazi per delle forme produttive non ipertrofiche né ipertecnologiche [9].
Ciononostante, negli ultimi decenni una grandissima parte degli psicologi, dei sociologi, degli economisti e dei politici – oltre che degli intellettuali in genere – sembra non solo ignorare tutte queste alternative, ma anche essersi dimenticata dell’impatto che un’organizzazione del lavoro poco umana tende ad avere sulle “virtù intellettuali e sociali” dei lavoratori (nella terminologia settecentesca di Adam Smith), o in altre parole sullo sviluppo delle loro capacità comunicative, intellettive, relazionali: sviluppo che, in base a quanto la natura umana stessa mette in evidenza quando osservata empaticamente e studiata scientificamente, potrebbe e dovrebbe essere coltivato (e proseguire) per tutta la vita, non venire ostacolato, frenato o addirittura combattuto dall’esperienza quasi quotidiana di un’attività lavorativa che tende a trasformare il lavoratore in una sorta di ingranaggio e a fargli ripetere banalmente e meccanicamente più o meno sempre le stesse operazioni. Ma, anche se pubblicamente non si parla di tale impatto e di tali alternative o se ne parla pochissimo, permane il fatto che pressoché inevitabilmente lo sviluppo personale di coloro che lavorano nell’ambito di forme di organizzazione del lavoro disumanizzanti, alienanti e/o fisicamente usuranti (forme che sono quelle dominanti in moltissime parti del mondo in questo periodo) è messo grandemente in pericolo e fortemente ferito da tali modi imposti di lavorare e, più in generale, dallo stress cronico che finisce con l’esserne tipicamente indotto. I tanti disoccupati o sottoccupati, a loro volta, soffrono intensamente per l’eccessiva povertà, per i pesantissimi limiti che questa impone alla loro vita, per le preoccupazioni che ne conseguono (e tanto più se hanno bambini), e oltre tutto quando trovano lavoro si tratta facilmente di occupazioni anch’esse faticose, ripetitive, poco creative, ecc.: anche questi fattori dunque finiscono con l’essere facilmente portatori di una cronicizzazione dello stress. E a ciò si aggiunga che pure molti occupati temono di perdere il loro posto di lavoro, a causa della generale precarietà e dei tanti disoccupati che cercano un lavoro.... In altre parole, già gli aspetti primari della vita economica neoliberista sono sufficienti a diffondere molto ampiamente tra le classi popolari il senso di alienazione, una pressoché continua serie di preoccupazioni, forme di stress cronico, la tendenza al sovraffaticamento, e via dicendo....
Non si dovrebbe dimenticare che lo stress cronico, a sua volta, ha l’effetto tendenziale di limitare ed erodere aspetti vitali della personalità umana come specialmente la creatività, la spinta affettiva e sessuale, la libertà interiore, la positività, la capacità di rilassamento, lo spirito ludico e più in generale la comunicatività stessa, oltre a vari aspetti della salute fisica (tra i quali in primo luogo la risposta immunitaria) [10]. Ne vengono fortemente favoriti anche il formarsi di dipendenze emotive nei rapporti interpersonali e il ricorso a sostanze o situazioni che possono produrre dipendenza fisica e/o psicologica (psicofarmaci, droghe, alcool, gioco d’azzardo, shopping, videogiochi, social network, ecc.).
Il caratteristico silenzio neoliberista su tutto ciò (in accordo con la sistematica sacralizzazione neoliberista di un “mercato” rivolto il più possibile alla deregolamentazione – per lo meno finché da questa impostazione derivano nel breve periodo vantaggi economici alle élite dell’economia stessa [11] – e con la parallela cultura individualista associata al neoliberismo) accresce ulteriormente la sofferenza delle classi lavoratrici col suo tentare di far passare l’idea che si tratti di problematiche non collettive e sociali, ma soltanto personali, individuali, da addebitare quindi al singolo particolare lavoratore che si trova a viverle, anziché a una situazione generale. Quest’ultima ovviamente – se a livello mediatico fosse riconosciuta con una certa ampiezza così che se ne potesse parlare liberamente in maniere trasparenti e intellettualmente oneste – finirebbe con l’essere facilmente oggetto di intense rivendicazioni sindacali, filosofiche e socio-politiche miranti a correggerla e a reimpostarla in tutt’altri modi, più umani e più in sintonia con l’etica, con le attuali conoscenze scientifiche e con le possibilità tecniche oggi esistenti....
Dall’altro lato, una fortissima e ubiquitaria spinta dei mass-media fa sì che, al di fuori delle fasce sociali più deboli, l’attenzione delle persone venga concentrata il più possibile, in generale, sulla sfera materiale del consumo e del possesso (un orientamento che comunque ha consistenti ricadute anche su quelle fasce, in quanto spinge pure loro verso il sognare almeno un po’ di partecipazione – su base individuale o tutt’al più famigliare – al luccicante mondo dei consumi).
La punta di questo colossale iceberg mediatico è costituita dall’invadente e sempre più onnipresente pubblicità, ma vi sono anche mille altri modi in cui vengono diffusi modelli culturali focalizzati su tale sfera (film, programmi televisivi di intrattenimento, fotoservizi e articoli di riviste, ecc.).
In un contesto come questo, le preoccupazioni, le altre forme di stress e la sofferenza di fondo che colpiscono comunemente le classi lavoratrici diventano anche uno dei principali meccanismi attraverso cui l’atteggiamento consumista riesce a penetrare ed imporsi nella vita di molte persone, come forma (ovviamente insufficiente e per molti versi illusoria e fuorviante) di compensazione psicologica [12].
Vi è pure una pressione mediatica più specifica, inerente al soddisfacimento di esigenze materiali e tecniche che nello “Stato sociale” di tipo keynesiano ricevevano solitamente una soluzione semplice e generale da parte della pubblica amministrazione (P.A.) e che nelle società neoliberiste – contrassegnate dalle privatizzazioni – trovano invece molteplici possibilità di risposta da parte di una varietà di aziende, ciascuna delle quali offre ovviamente condizioni di servizio diversificate e miranti almeno apparentemente a una rimarchevole concorrenzialità. Molti così impiegano ore e ore del loro tempo a scegliere – e in seguito spesso ri-scegliere passando da un’azienda all’altra a seconda dell’evoluzione delle offerte sul mercato – con chi fare un contratto per l’energia elettrica, uno per il gas, qualcuno per i telefoni, uno per Internet ed eventualmente anche altri: un’assicurazione previdenziale, una sanitaria, una o più reti televisive a pagamento (con la possibilità di vedere molte più cose che con le reti televisive gratuite), ecc. [13].
In questa situazione, tra l’altro, per tutte le proprie esigenze collegate a queste forniture ci si abitua anche a soluzioni complicate e in una certa misura personalizzate, mentre quando le forniture erano erogate dalla P.A. le varie complicazioni si riducevano pressoché a zero e si tendeva anche a pensare in termini più collettivi e sociali, vedendo le proprie esigenze in rapporto a un orizzonte e a una prospettiva maggiormente ampi, che erano quelli della società intera (su una scala generalmente nazionale o locale a seconda dei casi) [14]. Naturalmente, col passaggio dal pubblico al privato accade anche che il profitto diviene il principale obiettivo delle aziende coinvolte e che le possibilità potenziali dei cittadini – e utenti – di incidere sui metodi di gestione delle forniture in questione si riducono comunemente in modo drastico.
Oltre tutto – analogamente al fatto che per esempio tra le carte di credito ci sono quelle di bassa qualità e quelle definite come “carte oro” e simili (le quali offrono servizi e comodità enormemente maggiori anche se poi li fanno comunque pagare agli utenti, ma chi di soldi ne ha a bizzeffe paga di solito molto volentieri alla fine) – anche molti di questi servizi sono forniti con modalità aventi qualità molto diverse, ovviamente collegate soprattutto agli importi a carico dell’utente: basti pensare alle assicurazioni sanitarie negli Usa, dove a seconda del contratto assicurativo che una persona ha si può essere curati o no dal sistema medico e ospedaliero per questa o quella malattia [15].... Questo fatto accresce la tendenza a una marcata stratificazione sociale e spinge molte persone a dedicare molte delle loro energie alla conquista di servizi sempre migliori per sé e per i propri famigliari.
Anche questo aiuta a comprendere come fa l’economia neoliberista a spingere concretamente le persone verso atteggiamenti individualistici (o tutt’al più incentrati sul senso del benessere famigliare), dominati nella vita sociale da un senso di competizione, legati sempre più alla sfera materiale, tendenzialmente egoisti, ecc..
Dal “vecchio” liberismo all’attuale neoliberismo: spiccate differenze anche politico-sociali
La diversità del neoliberismo, quando lo si mette a confronto col liberismo di 100 o 150 anni fa, appare inscindibile dal vortice culturale consumistico che vediamo nelle società degli ultimi decenni.
Tra gli addentellati concreti di tale vortice ci sono anche molte attività economiche costruite su di esso e soggette – in molti casi – a una notevole volatilità a seguito dei cambiamenti nelle mode, nei prodotti che di volta in volta assurgono a veri e propri status symbol per certi periodi nelle varie parti del mondo, e via dicendo. In tal modo, questa volatilità accentua ulteriormente pure il generale senso di precarietà occupazionale che colpisce i lavoratori.
In ciò, tra l’altro, si esplicita un ulteriore modo – oltre a quelli già messi in evidenza da numerosi autori nel corso dell’ultimo paio di secoli – in cui l’attività produttiva e l’economia influenzano profondamente la cultura e ne sono anche fortemente influenzate....
Le varie dinamiche qui messe in evidenza e i loro influssi sulla vita quotidiana rendono anche più comprensibile il fatto che – mentre nell’Ottocento e nei primi del Novecento il diffondersi e lo svilupparsi del capitalismo liberista nel Nord del mondo aveva rapidamente generato nelle classi lavoratrici movimenti popolari che criticavano e contestavano con forza molti aspetti di fondo della società dell’epoca e che in molti casi acquisirono anche una prospettiva socialista e internazionalista – l’espansione relativamente recente del neoliberismo su una scala pressoché mondiale ha dato luogo sinora a tutt’altro. Non si può certo dire infatti che da parte delle classi lavoratrici vi sia stata una grande risposta alla marea montante del neoliberismo iniziata negli anni ’80 segnati dalla Thatcher, da Reagan e dall’ideazione dei “piani di aggiustamento strutturale” da parte del Fondo monetario internazionale (Fmi).
Da un lato, si vedono solo movimenti popolari fortemente locali, espansisi in questo o quel paese sulla base di problematiche specifiche del luogo (ad esempio, il Venezuela con le sue elevate entrate petrolifere da gestire, il Myanmar con il pluridecennale e drammaticamente pesante autoritarismo delle élite militari del paese, la Bolivia con le sue tensioni tra popolazioni indie e cultura urbana, l’Argentina prima e la Grecia e la Spagna poi con le loro rispettive crisi finanziarie nazionali, e così via). Le uniche eccezioni sono state il “movimento di Seattle”, che negli anni intorno al 2000 ha acquisito un carattere fortemente internazionale ma si è poi “sgonfiato” con grande rapidità, e la molto più recente ondata giovanile dei Fridays for Future, che però si è incentrata quasi solo sulla pur importantissima questione dell’effetto serra e, quindi, lascia sostanzialmente “scoperti” vari altri temi fondamentali coinvolti nella crisi sociale e ambientale che sta devastando sempre più sia la vita della comunità umana sia la Terra come “casa” dell’umanità e di tantissime altre specie viventi [16].
Dall’altro lato, nonostante il becero modo di essere che caratterizza con grande evidenza il neoliberismo, a livello popolare le critiche radicali al neoliberismo stesso sono piuttosto rare oppure tendenzialmente poco solide: quando in un paese tali critiche diventano diffuse ciò avviene di solito sotto la profonda influenza di figure che in quel momento riescono ad avere un alone carismatico (come per esempio Chávez in Venezuela, Tsipras in Grecia e Mujica in Uruguay), ma se poi quelle figure si ritirano dalla politica (solitamente per vecchiaia oppure per stanchezza da accumulo di stress), o perdono le elezioni (magari per motivazioni più legate alle strategie dei partiti che alle scelte effettive degli elettori) [17], o perdono per un motivo o per l’altro l’alone in questione, o addirittura lasciano questo mondo, allora anche la diffusione popolare di un’efficace e combattiva convinzione anti-neoliberista inizia più o meno rapidamente a tentennare e a ridursi in maniera marcata. E questo vale ancor più per le critiche prospettiche al capitalismo in generale, in una luce orientata verso il socialismo quindi. Diversamente, le lamentazioni popolari sono diffusissime, ma non riescono praticamente ad uscire dalla modalità di fondo dello “sfogo emotivo”, caratterizzato intrinsecamente da un senso di impotenza e di sostanziale sconfitta....
L’aspetto centrale della questione appare stare proprio nell’attuale compresenza di liberismo e consumismo, a differenza dell’Ottocento e del primo Novecento quando – dal punto di vista dei lavoratori – al liberismo si affiancava quasi solo una generale povertà. Questa compresenza spinge le classi lavoratrici a cercare soluzioni soprattutto private, non politiche, ai loro pesanti disagi.
In breve, anche tra i lavoratori tende ad essere molto presente una serie di speranze di “potercela fare” (cioè di raggiungere stabilmente un tenore di vita capace di accedere non solo al necessario ma anche almeno a una significativa quantità di superfluo) – o addirittura di “sfondare” – mantenendosi all’interno di modalità operative eminentemente individuali o famigliari: mediante il proprio impegno lavorativo e/o qualche colpo di fortuna, oppure attraverso magari un figlio che diventi una stella dello sport o dello spettacolo [18]....
A parte il fatto che per tantissime persone di tali classi una parte molto grande di quelle speranze resta comunque illusoria e fuori portata, rimane la questione che è una mentalità che può sopravvivere alle prese col neoliberismo solamente al prezzo di una pesante insensibilità umana (di fronte soprattutto ai molti che soffrono per l’esclusione, la miseria, la fame, ecc.) e/o di un’ingenua superficialità e di un’estrema scarsità di comprensione della sfera sociale, collegate al non rendersi conto che il neoliberismo prevede volutamente e strutturalmente l’esistenza di una massa di esclusi, disoccupati, emarginati, precari, ecc.. È proprio questa massa che consente infatti alle élite economiche sia di avere a disposizione un gran numero di persone disposte quasi a tutto pur di guadagnare un po’ di più del loro attuale poco o addirittura del loro attuale nulla, sia di ricattare in molti modi i lavoratori occupati minacciando di sostituirli con qualcuno dei tanti disoccupati [19]....
Al contrario, la “cultura di massa” instancabilmente diffusa dai maggiori mass-media in base agli interessi politico-economici delle principali élite ha tipicamente tra le sue caratteristiche il suggerire l’idea – ipocrita e fasulla in grandissima parte – che chi riesce a godersi almeno un po’ la vita se l’è in sostanza meritato, mentre chi non ci riesce o addirittura si trova più o meno in miseria si è sostanzialmente meritato questo suo “destino” [20].... In questo modo, tra l’altro, chi dal punto di vista economico sta almeno discretamente può gloriarsi con se stesso per questo e può pensare che se qualcuno invece sta economicamente male è proprio perché se l’è in sostanza meritato, mentre chi sta economicamente male tenderà o a incolparsi pesantemente ed abbattersi o a tentare di inventare qualche ulteriore strada rigorosamente privata – e non certo impegnata in senso socio-politico – per conquistare un po’ di successo.... Ma anche chi non si fa gabellare da questi sottili e ipocriti suggerimenti mediatici riguardanti il “meritare il proprio destino” ha comunque una fortissima tendenza a rimanere per lo più estraneo alla vita di quasi tutti gli altri e al senso della comunità umana, sull’onda dell’individualismo che è in sostanza il principale “credo” propagandato con grande continuità dalla “cultura di massa” in quest’epoca neoliberista.
Nel complesso, si tratta di una situazione che indirettamente finisce anche col favorire ed incoraggiare l’illegalità e la criminalità (come possibili “vie d’uscita personali” alla disoccupazione e alla miseria che tipicamente, in base all’impostazione economica neoliberista, colpiscono una consistente percentuale della popolazione umana...).
Se si guarda a tutto questo da un punto di vista specificamente rivolto ai modi di vedere la società e la politica e alla diffusione di tali modi nella società stessa, e specialmente nelle sue classi popolari, non si può fare a meno di notare che le tendenze qui messe in luce sono una sorta di trionfo della mentalità piccolo-borghese (e della “cultura di massa”, che veicola tale mentalità con grande costanza...). E, parallelamente, sono un segnale di un catastrofico crollo di quella “coscienza di classe” e di quello spirito umanistico e libertario che da circa due secoli fa a circa un secolo fa costituivano un aspetto fondamentale dei movimenti socialisti e del pensiero che li contraddistingueva. È una sorta di ritorno – in una forma leggermente diversa – al “pensiero unico” che nella sostanza era stato già messo drammaticamente in rilievo da Herbert Marcuse nel succitato L’uomo a una dimensione (originariamente pubblicato in inglese nel 1964). Ed è un’ulteriore constatazione delle prolungate e potenti capacità di manipolazione psicologica e di condizionamento culturale mostrate dai vari “sistemi” economico-politici impostisi – dall’alto, non certo dal basso... – nella società umana durante l’ultimo secolo [21].
Dal basso – va sottolineato – non si sono formati dei “sistemi”: sono semplicemente nati degli orientamenti, delle spinte, come in occasione delle rivoluzioni russa, cinese, cubana, ecc., o in Occidente negli anni intorno al ’68. Poi, qualcuno riuscito a salire in alto – o a restarvici – ha cominciato ad ingabbiare, rinchiudere, schiacciare e “cementificare” quegli orientamenti costruendovi attorno tutt’altro o tornando a poco a poco a precedenti situazioni oppressive: nell’uno e nell’altro caso così, a seconda dei luoghi e delle circostanze, hanno preso piede dinamiche socialmente involutive come regimi autoritari, distorsioni delle pubbliche istituzioni, controlli repressivi dall’alto, sistemi politico-economici irrigiditi, forme di persuasione occulta e di “culto della personalità”, ecc. [22]....
Neoliberismo ed iniziativa economica a breve termine
Ci si potrebbe anche chiedere perché – come hanno notato numerose voci – il neoliberismo metta così tanto l’accento sul breve termine nel proprio modo di agire (in modo simile a quanto era stato sovente notato a proposito dell’originario liberismo, 100-150 anni fa). La principale risposta sta probabilmente nel fatto che i neoliberisti non hanno fiducia nella democrazia e nell’umanità, o meglio: i neoliberisti nel loro estremo egocentrismo ed egoismo temono sia l’umanità nel suo insieme che la democrazia, perché in realtà gli obiettivi di fondo dell’una e dell’altra risultano in pratica profondamente in contrasto col neoliberismo, anche se in molti paesi la gente viene talmente subissata – dalle ben pagate voci mediatiche che lo sostengono – da faticare a rendersi conto di essere presa in giro ed enormemente fregata da tali voci e ovviamente dal neoliberismo stesso [23]....
In tal modo, le iniziative a medio-lungo termine sono “rischiose” per i neoliberisti, specialmente nelle parti del mondo in cui ci sono istituzioni tendenzialmente democratiche. E questo anche dove i vertici politici della società stiano seguendo in quel momento i dettami dei neoliberisti stessi: non si sa mai che la gente riesca ad uscire dal suo sonno intellettivo e dal sostanziale condizionamento culturale e istupidimento che riceve dai maggiori mass-media e da quei vertici politici e utilizzi la democrazia per difendere effettivamente le proprie esigenze e i propri interessi.... Dove dunque il neoliberismo è “in funzione” però non c’è una sorta di garanzia temporale a favore di una sua prolungata stabilità (quella garanzia che invece tende ad esserci nei regimi antidemocratici in cui c’è una profonda commistione tra élite economico-industriali e potere politico, regimi i cui esempi più palesi appaiono essere attualmente la Cina e gli sceiccati arabi), per chi cerca i vantaggi che il neoliberismo offre tipicamente ai detentori di grandi ricchezze, agli avventurieri dell’imprenditorialità e alla finanza speculativa sarà pertanto meglio concentrarsi su ciò che consente guadagni rapidi e che, in pratica, risulta facilmente abbandonabile senza sostanziose perdite nel caso in cui appunto la gente si svegli: in altre parole, concentrarsi sul breve termine....
Nell’epoca del liberismo pre-keynesiano, vi erano in gioco fattori un po’ diversi: allora i meccanismi istituzionali democratici erano molto meno diffusi di oggi e le cicliche crisi economiche erano vissute in modo molto più devastante di oggi. Ora infatti, dal momento che l’esperienza dell’economia keynesiana ha mostrato come sia possibile ridurre di molto l’impatto di tali crisi, sulla scorta di tale esperienza anche i neoliberisti accettano tipicamente di richiedere un certo intervento pubblico di fronte a crisi che si annunciano alquanto pesanti. A quell’epoca, in altre parole, di fronte all’onnipresente tendenza a forti rischi di rovesci economici già nel medio termine, per gli imprenditori uno dei mezzi più semplici per cercare di proteggersi da tale rischio era il pensare soprattutto a prospettive di breve termine.
Intermezzo 1: Appunti su creatività umana, scambio di beni e servizi, mercato, senso democratico, comunità locali e prospettive socialiste
Tra le altre cose, va sottolineato che anche nelle forme non esasperate – non insensibili umanamente, né miopemente stupide... – di cultura borghese (basti vedere ad esempio figure innovative e socialmente attente come John Maynard Keynes, Adriano Olivetti, Muhammad Yunus e Joseph E. Stiglitz) rimane comunque l’idea che sia legittimo che in un modo o nell’altro la società “premi” economicamente le persone che in essa ottengono molto successo, che si tratti di inventori, di industriali, di professionisti (ingegneri, scienziati, medici, economisti, architetti, insegnanti, avvocati, amministratori, ecc.), di artisti (scrittori, musicisti, pittori, attori, registi, danzatori, ecc.), di atleti, o che altro: anche a questo servono particolari forme di tutela delle capacità intellettuali delle persone come i brevetti, i diritti d’autore, e così via. Si tratta di uno dei meccanismi che nelle società borghesi spingono le persone a concentrare una fetta particolarmente ampia della propria energia verso le varie forme di creatività e di espressività che possono portare ad un successo personale, del quale però – in una maniera o nell’altra – usufruiscono spessissimo anche molti altri: basti pensare a come una canzone può diventare una sorta di “bene collettivo” per tanti che la cantano e la suonano (o anche semplicemente che la ascoltano e si lasciano andare sulla sua onda), o come una medicina può salvare milioni di persone da una certa malattia, o come un libro o un film possono interpretare lo spirito intimo di un’intera generazione, o come un edificio creativo può diventare uno stimolo oppure un simbolo per innumerevoli persone, o come una tecnologia può entrare nella vita quotidiana di gran parte dell’umanità, o come certe prestazioni sportive diventano d’incoraggiamento per intere popolazioni.... In effetti, non appare essere un meccanismo necessariamente sbagliato, anche perché con una ben impostata tassazione progressiva si possono redistribuire più ampiamente nell’intera società i redditi personali eventualmente “gonfiatisi” in modo particolarmente marcato.
Uno degli aspetti più complessi dell’eventuale passaggio da una società borghese ad una “di transizione al socialismo” sta proprio in questo: nelle società di tipo borghese il mercato aiuta molte persone ad esprimere delle loro particolari caratteristiche e capacità creative “premiandole” dal punto di vista economico; se si cancella questa possibilità offerta dal mercato, si rischia di disincentivare l’espressione di tali caratteristiche e capacità personali o addirittura di tarpare loro le ali, rendendo alla fin fine la società più grigia, statica, inespressiva, conservatrice, conformista e triste, con un risultato finale molto più negativo che positivo.... In modo simile, come si è già messo in evidenza nel 2018 in Quale economia oggi per il bene comune? [24], in pratica nel mondo attuale il mercato mette in contatto produttori e consumatori, facilitando nel complesso sia il progresso tecnologico, sia il concreto evolversi di un’economia aperta a continue innovazioni come è quella sviluppatasi su scala mondiale negli ultimi 2-3 secoli.
A questo proposito appare particolarmente stimolante e fecondo focalizzarsi sulle considerazioni di Karl Marx riguardanti alcuni temi di fondo: il valore d’uso e il valore di scambio; le trasformazioni M-D-M (merce-denaro-merce) e D-M-D1 (denaro-merce-denaro accresciuto), trasformazioni che in pratica nelle società commercialmente evolute rappresentano l’essenza rispettivamente dello scambio di prodotti intesi come “naturali” valori d’uso e, all’opposto, dello scambio capitalistico mirante semplicemente ad ottenere un guadagno; la fondamentale esigenza di andare oltre il pensiero comunista «rozzo e materiale», che «nega ovunque la personalità» umana, come Marx scrisse nei Manoscritti economico-filosofici del 1844; il complesso rapporto esistente tra innovazioni produttive, investimenti, capacità tecnico-scientifiche, coraggio imprenditoriale e disponibilità di capitali [25]. Dall’intreccio di tali considerazioni si può comprendere meglio perché Marx ed Engels – come si è messo in luce già in precedenza, soprattutto nella parte II dell’intervento del maggio 2023 Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali – siano arrivati alla chiara conclusione che entità economiche come le piccole aziende contadine e le cooperative dovrebbero essere ampiamente accettate nella transizione al socialismo e che le modalità di quest’ultima e di un’eventuale evoluzione ulteriore della società dovrebbero essere comunque deliberate dalla gente stessa attraverso l’esercizio della democrazia [26]. E più in generale – proprio in vista del non rendere l’indirizzo socialista della società più grigio, conformista e triste dell’indirizzo borghese... – ci si può chiedere se tutta la piccola produzione mercantile che segua strettamente la logica M-D-M può essere considerata intimamente compatibile con tale transizione nella lucida, intelligente, creativa, critica, libertaria, democratica e umanamente sensibile concezione di questa che Marx ed Engels hanno giustamente e saggiamente sviluppato e incoraggiato durante tutta la loro vita e che evidentemente dovremmo riprendere a sviluppare nella società odierna, che ha ovviamente un panorama occupazionale alquanto più complesso, ampio e variegato di quello ottocentesco. Oggi infatti la piccola produzione mercantile in questione includerebbe tendenzialmente, oltre a quelle aziende contadine e alle autentiche cooperative, le varie forme di lavoro autonomo (che si è sviluppato in numerose direzioni negli ultimi decenni), le botteghe artigiane, le attività artistiche ed eventualmente le espressioni concrete di queste ultime come la produzione di libri, dischi e film, produzione che peraltro potrebbe aver luogo – in un intreccio di dimensioni economiche e culturali – proprio attraverso aziende cooperative costituite da artisti e artigiani. In effetti, è una compatibilità che parrebbe sensata e, in linea di massima, benefica per la qualità della vita popolare, e ciò anche proprio in considerazione delle modalità profondamente democratiche attribuite in tale concezione alla transizione in questione, modalità capaci dunque di modificare “dal basso” la cornice normativa delle attività economico-produttive se qualche aspetto corrente di queste ultime risultasse non più funzionale a tale qualità della vita secondo la collettività stessa.
Per un inquadramento della questione nella storia della civiltà, si dovrebbe tener particolarmente conto sia del fatto che lo scambio di prodotti, servizi, ecc. – consentendo la concretizzazione dei loro valori d’uso e quindi delle possibilità pratiche che attraverso la collaborazione e l’aiuto reciproco tra le persone si possono realizzare nella società umana – è un aspetto ovviamente fondamentale della vita sociale, sia del ruolo estremamente significativo che il mercato (nelle sue varie forme, in quanto vi sono state storicamente diverse sfumature nelle sue impostazioni di fondo) ha avuto anche in molte società precapitalistiche, facilitando pure in esse tale scambio sulla base di modalità locali tendenzialmente durature, stabili e soddisfacenti per le persone coinvolte. Da ciò si trae che, da un lato, l’attenzione per uno svolgimento efficace, semplice e fluido dello scambio in questione risulta essere un fattore praticamente irrinunciabile per qualsiasi società che voglia essere attenta al benessere della popolazione umana e, dall’altro lato, che specialmente nei periodi di forti cambiamenti economico-sociali (e tanto più nei passaggi storici da un tipo di “formazione sociale” ad un altro, come ad esempio con l’avvento del feudalesimo e poi del capitalismo) il fatto che una società conquisti – e poi mantenga – una certa stabilità e una diffusa approvazione della gente appare molto facilitato dalla presenza di una particolare attenzione per le possibilità offerte a tale svolgimento dai vari tipi di mercato storicamente fattibili. Poiché inoltre, per lo meno in teoria, nell’evoluzione di una società verso il socialismo il mercato dovrebbe arrivare prima o poi ad essere indirizzato in modi molto diversi da quelli caratteristici del tipo di mercato collegato alla società borghese (o andrebbe addirittura sostituito con qualche altra modalità di scambio di beni e servizi), ne emerge che si tratta di una tematica cruciale per una prospettiva socialista capace di essere vissuta come piacevole e profondamente condivisibile dalla gente: e cruciale non solo nella sua impostazione generale, ma anche e soprattutto nel suo svolgersi ed evolvere nel corso del tempo, attraverso percorsi che dovrebbero evidentemente essere il più possibile in sintonia col “sentire” della gente stessa. E ciò tanto più dal momento che – per l’appunto – per organizzare lo scambio in questione ci possono essere varie modalità alternative al tipico mercato capitalistico.
Nel complesso campo d’interesse costituito dalle prospettive di progressivo superamento del capitalismo (non si dimentichi che in queste dinamiche storiche una transizione è soprattutto un ponte di passaggio tra una “formazione sociale” ed un’altra, nel quale possono essere compresenti per un periodo anche consistente caratteristiche specifiche dell’una e caratteristiche specifiche dell’altra), vi è anche un altro aspetto basilare che nell’ultimo centinaio d’anni è stato molto spesso trascurato dal mondo politico ma nel centinaio d’anni precedente era tenuto molto più in considerazione, come mostrano ad esempio gli allora vasti dibattiti politici riguardanti il possibile ruolo futuro dell’obšcina (la “comunità di villaggio” localmente tradizionale) in Russia e più specificamente l’affetto, l’apprezzamento e l’interessamento che Marx ed Engels – come tanti altri socialisti di quel periodo – espressero più volte per le forme sopravvissute di “socialismo primitivo” e più in generale per le forme comunitarie tradizionali eventualmente presenti in questa o quella parte del mondo. Possono bastare a questo proposito testi di Engels come La marca (del 1882) e L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (del 1884) e l’ampia serie di lettere ed altri scritti che lui e Marx realizzarono toccando la questione dell’obšcina: si vedano in particolare Sulla situazione sociale in Russia, di Engels (un lungo articolo pubblicato nel 1875 e riedito nel 1894 con l’aggiunta di una postfazione), e la prefazione dei due autori all’edizione russa del 1882 del Manifesto del partito comunista. Indubbiamente per i due fondatori del “socialismo scientifico” la transizione al socialismo sarebbe stata un’occasione per dare spazio e respiro alle forme comunitarie tradizionali eventualmente sopravvissute nei diversi paesi e per consentire un’eventuale evoluzione di queste forme – sostanzialmente spontanea, sviluppata “dal basso” dalla gente stessa – verso ulteriori modalità di espressione della socialità umana e del senso comunitario delle varie popolazioni. Le attuali rivendicazioni di autogoverno locale di numerosi popoli di assetto tribale che, specialmente nelle foreste pluviali e in regioni montane o aride o relativamente prossime ai circoli polari, ancora resistono alla colonizzazione forzata in cui hanno cercato di trascinarli sia l’indiscriminato e spesso distruttivo sfruttamento capitalistico delle risorse naturali e degli esseri umani sia l’atteggiamento autoritario, statalista, dogmaticamente industrialista e anch’esso spesso distruttivo che è tipico dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” novecentesco e post-novecentesco – popoli uniti concordemente in una forte proposta dialettica di intensa autonomia regionale e, nel contempo, di solidale cooperazione planetaria tanto sul piano umano quanto su quello del rapporto con le altre specie viventi – possono trovare certamente ampio sostegno, condivisione e appoggio nella visione marx-engelsiana dell’evoluzione della società umana [27].
Anche per tutto questo l’idea che la transizione al socialismo e il socialismo stesso debbano essere profondamente democratici – idea che era ben presente appunto nel “socialismo scientifico” marx-engelsiano e in altre correnti del movimento socialista ottocentesco – appare estremamente giustificata e centrata: l’evoluzione verso il socialismo va impostata, gestita ed eventualmente rimodulata dalla popolazione stessa, non da una autoproclamatasi élite politica.... A questo proposito, per quanto riguarda in particolare Marx ed Engels, bastino alcuni loro scritti ampiamente noti: del primo La guerra civile in Francia (redatto nel 1871 per la prima “Internazionale” e ripubblicato nel 1891 con una nuova ed efficacissima Introduzione engelsiana) e la Critica al programma di Gotha (del 1875, apparsa postuma nel 1891); del secondo anche Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891 (pubblicato postumo nel 1901) e l’Introduzione del 1895 al marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.
Particolarmente interessante può essere anche un articolo poco conosciuto di Friedrich Engels, pubblicato nel periodico italiano Critica Sociale del 16 febbraio 1892 col titolo Federico Engels a Giovanni Bovio e scritto in replica ad una recensione dello stesso Bovio uscita sul quotidiano romano La Tribuna del 2 febbraio precedente e relativa alla prima parte di un articolo di Engels programmato in più puntate appunto su Critica Sociale (alla fine le puntate furono tre, apparse tra il 16 gennaio e il 1° aprile). Si legge in quella replica (nella traduzione dal francese effettuata a quanto pare da Filippo Turati e approvata da Engels): «Marx ed io, da quarant’anni, ripetemmo a sazietà che, per noi, la repubblica democratica è la sola forma politica in cui la lotta fra la classe operaia e la classe capitalista possa dapprima universalizzarsi, indi toccare la sua meta colla vittoria decisiva del proletariato». Si tenga presente che Engels scriveva appositamente per rispondere a degli interrogativi posti da Bovio (un politico repubblicano che era stato anche eletto al Parlamento italiano), il quale temeva che, nell’eventualità che i socialisti conquistassero il potere, lo usassero poi per impiantare una società non democratica, ma autoritaria. Con l’espressione “vittoria decisiva”, Engels pertanto non intendeva una semplice “presa del potere”, ma la vera e propria costruzione di una società di transizione al socialismo, società che secondo Marx ed Engels doveva avere dunque la forma politica di “repubblica democratica”, forma che – nel linguaggio di allora – prevedeva tutte le libertà universali di pensiero, parola, espressione, associazione, partecipazione politica, ecc. e dal punto di vista istituzionale la realizzazione di cicliche elezioni a suffragio universale liberamente impostate. In effetti, questa posizione ben precisa rivendicata da Engels corrisponde a quanto lui e Marx hanno espresso in quei loro scritti ampiamente noti ed era già accennata con una certa evidenza sin dal 1850, come mostrano le considerazioni sul suffragio universale sviluppate da Marx nel terzo capitolo di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. E si trovano riferimenti a questo orientamento già nel 1848, nel celebre Manifesto del partito comunista (dove, con l’approvazione dell’intera “Lega dei comunisti”, si indica come primo passo di una futura rivoluzione proletaria «la conquista della democrazia»), e anche nell’anno precedente, visto che nei Princìpi del comunismo (bozza di testo preparata da Engels che verrà poi sostituita appunto dal Manifesto) tale primo passo viene definito come l’istituzione di «una costituzione democratica». Per comprendere con più completezza il quadro generale di questo discorso, si ricordi anche che per Marx ed Engels la transizione al socialismo per poter davvero “funzionare” avrebbe dovuto aver luogo su una scala ampiamente internazionale ed incentrata su paesi di avanzata industrializzazione: una valutazione che nasceva da una serie di considerazioni socio-politico-economiche già brevemente rammentate in questo sito nella parte II di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali e che la storia dell’ultimo secolo e mezzo appare decisamente confermare.
Forse nel 1892 i timori di Bovio erano eccessivi, viste anche la chiarezza e l’ampiezza della risposta di Engels e dato il ruolo estremamente autorevole che egli rivestiva in quegli anni nel movimento socialista internazionale, ma, a partire da una trentina d’anni dopo, quei timori si sono rivelati quanto mai giustificati, visto che le idee di fondo, la sensibilità umana, l’intelligenza e la lungimiranza politica che caratterizzarono Marx ed Engels sono state dimenticate, ignorate e calpestate in modo particolarmente sistematico proprio dai principali leader di coloro che si chiamavano “marxisti”....
La caduta novecentesca della “politica di sinistra”
È anche da sottolineare che la concezione marx-engelsiana della transizione al socialismo è stata messa più o meno silenziosamente in disparte anche dalle altre principali tendenze della sinistra novecentesca, non solo dalla cosiddetta “sinistra rivoluzionaria”.
Gli esponenti di questa corrente, quando sono giunti a conquistare localmente il potere politico-militare in maniera stabile, nel giro di pochi anni hanno finito sistematicamente col dare a tale transizione un’impostazione fortemente autoritaria, dogmatica e iper-accentratrice che non aveva alcuna relazione con la concezione marx-engelsiana, benché solitamente i rivoluzionari in questione si dicessero appunto – ridicolmente e ipocritamente – “marxisti”. Hanno fatto eccezione a tutto questo solamente i rivoluzionari del Chiapas, in Messico, i quali hanno onestamente e autenticamente mantenuto un’impostazione politica pienamente e stabilmente democratica dove la loro lotta – a partire dalla seconda metà degli anni ’90 – ha avuto successo, ma va tenuto conto che per una serie di fattori ambientali e culturali si è trattato di una lotta molto particolare, mirante a una società orientata non in senso “moderno”, industrializzato e coinvolto nell’economia internazionale ma in senso “tradizionale” e contadino-artigiano, con una base strettamente regionale e con uno stile di vita per molti aspetti tribalistico, connesso a quello che è stato spesso definito come “socialismo primitivo” e che comunque Marx ed Engels apprezzavano appunto profondamente, anche se lo ritenevano destinato a venire sostituito in molte parti del mondo (e forse in tutte, ma ovviamente con tempi differenziati e con la possibilità di modalità estremamente diverse) da altre forme di società con l’avanzare del progresso tecnologico.
Da parte sua, la cosiddetta “sinistra moderata” ha finito col considerare nei propri discorsi la prospettiva socialista come talmente lontana nel tempo e inattuale – o addirittura come utopica e magari anche strutturalmente sbagliata – da non parlarne neanche più, e questo generalmente anche per l’enorme peso che hanno assunto in questa corrente le ambizioni personali di politici pronti a sfruttare a proprio vantaggio le possibilità loro offerte dalla moderna società borghese (attraverso il clientelismo, il malgoverno impostato a favore della “casta politica”, la corruzione, gli abusi di potere, ecc.) e divenuti quindi attaccatissimi intimamente a tale società in qualche sua versione formalmente democratica ma in realtà profondamente partitocratica....
A sua volta, la “sinistra spontaneista” ha assunto tipicamente posizioni politiche improntate ad una notevole superficialità e soprattutto basate su sensazioni momentanee e improvvisate (dove non c’era praticamente posto per l’accurato studio della società umana e della storia che era stato uno dei perni fondamentali ed essenziali del “socialismo scientifico” marx-engelsiano, anche se alcuni limitati aspetti di quest’ultimo – come ad esempio il concetto di “alienazione” – sono stati spesso ripresi e utilizzati positivamente nella lotta politica), con risultati solitamente interessanti dal punto di vista esperienziale ed umano ma caotici e instabili dal punto di vista concreto.
E la “sinistra riformista-keynesiana” – presente in modo stabile solo in certi paesi caratterizzati da un consistente “spirito civico” capace di esprimersi anche a livello elettorale e nell’insieme della sfera politico-amministrativa – si è concentrata strutturalmente sul presente e sull’odierna “economia di mercato” (vista per lo più su scala nazionale), senza porsi in pratica la questione di approfondire la complessa tematica costituita da un eventuale passaggio ad un’altra “formazione sociale” come il socialismo [28].
In altre parole, mentre nell’Ottocento il movimento socialista proponeva alle classi popolari prospettive trasformatrici a medio-lungo termine stimolanti e complessivamente attraenti, anche perché intensamente democratiche (basti vedere ad esempio le proposte politico-istituzionali espresse dalla “Comune di Parigi”, alla quale parteciparono in ampia concordia molteplici correnti del socialismo ottocentesco), in seguito la cosiddetta sinistra o ha sostanzialmente smesso di parlare di prospettive a medio-lungo termine, o le ha trasformate assurdamente in qualcosa di pesantemente gerarchico, repressivo e paternalista, o se ne è occupata in modi che – specialmente dal punto di vista sociale – stanno alla fin fine tra il molto vago, il confusionario e l’indefinito. Come risultato, al contrario di quanto avveniva nell’Ottocento, col tempo durante il Novecento le classi popolari hanno iniziato a temere sempre più le prospettive a medio-lungo termine presentate dai “rivoluzionari” (in quanto rivelatesi autoritarie, ideologiche, antidemocratiche e complessivamente spiacevoli) e in una certa misura anche quelle della “sinistra spontaneista” (in quanto incerte e complessivamente inaffidabili), mentre le correnti che in pratica hanno smesso di parlare di prospettive a medio-lungo termine hanno suggerito in tal modo, come proprio orizzonte, una prolungata prosecuzione del presente, tipicamente capitalistico: in pratica, per i “moderati”, un presente subalterno agli interessi delle élite economiche del momento (oggi si tratta comunemente di un orientamento neoliberista con qualche limitatissima correzione a favore dei lavoratori, necessaria sul piano elettorale per cercare di giustificare in politica l’esistenza dei partiti della “sinistra moderata”, i quali funzionano in modo molto evidente come una “cinghia di trasmissione” che veicola e diffonde nelle classi popolari forme di pensiero piccolo-borghese alquanto banali – incluso un senso generale di dipendenza socio-economica e culturale da quelle élite – risultando spesso notevolmente efficaci in questo e quindi notevolmente utili alle medesime élite); per i pochi paesi in cui è presente con forza quella specifica corrente “riformista”, un presente localmente keynesiano (localmente giacché è una corrente che comunque non ha mai “osato” mettere fortemente in discussione a livello internazionale l’odierna globalizzazione neoliberista...).
Si tenga anche conto che, col suo frequente ingresso in Parlamenti e Consigli (locali, regionali, ecc.), quella che può essere definita come “sinistra spontaneista” ha acquisito anche altre e più ampie sfaccettature oltre a quelle che si possono rintracciare storicamente nelle sue modalità d’azione originarie (di solito fortemente protestatarie, contestatrici e aggressive, oltre che spesso alla ricerca di una alterità culturale rispetto alla mentalità dominante). Ciò al punto che da tempo, per lo meno nelle regioni del mondo considerevolmente industrializzate e/o urbanizzate, le varie formazioni politiche – o aree interne ad esse – che nei diversi paesi si dicono di sinistra, che partecipano alle elezioni e che non possono essere “classificate” con chiarezza né tra i “rivoluzionari”, né tra i “moderati”, né tra i “riformisti-keynesiani” possono essere inserite alla fin fine tra gli “spontaneisti”, proprio sulla base del fatto che nella loro storia e struttura non hanno alle spalle un approccio alla politica preciso e ben approfondito, ma uno piuttosto generico, superficiale, eclettico, multiforme, che può avere appunto qualche aspetto positivo soprattutto sul piano umano ed esperienziale ma ha anche diversi aspetti negativi proprio sul piano delle prospettive a medio-lungo termine, della qualità politica e della “visione d’insieme” complessiva (in modo simile a quanto notò Engels già negli anni ’70 dell’Ottocento, nel primo capitolo sia dell’Antidühring sia di L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza) [29].
Come del resto può apparire ovvio, alle suaccennate tendenze prospettiche (imbelli, spiacevoli, incerte o comunque poco coraggiose) si è spesso accompagnata da parte dei politici della cosiddetta sinistra – per un motivo o per l’altro – una capacità piuttosto scarsa di incidere anche nel presente a favore della qualità generale della vita dei lavoratori (pur riuscendo magari ad ottenere qualche risultato positivo su qualche limitato aspetto specifico). Col tempo, tutto questo ha ridotto sempre più il sostegno dato alla cosiddetta sinistra dall’elettorato in moltissimi paesi [30].
Uno dei segnali più dirompenti della profonda inadeguatezza di tutt’e quattro queste correnti politiche – e un segnale praticamente conclusivo, essendo non solo relativamente recente ma anche per molti versi esaustivo ed esauriente – è l’estrema e palese incapacità di affrontare efficacemente la globalizzazione neoliberista (dopo ormai più di 30 anni dal suo avvio...): e questo per di più benché già alla fine degli scorsi anni ’90 l’amplissimo “movimento di Seattle” stesse indicando la strada culturale e rivendicativa per affrontarla appunto con efficacia [31].... Ma nessuna di quelle correnti ha fatto propria tale strada, il che ha in tal modo rimarcato due gravi caratteristiche dei loro attuali approcci alla politica: una grande distanza dalla “società civile” e dalla creatività frequentemente sviluppata dai movimenti sociali di base delle classi lavoratrici; più in particolare, una miope, sterile e spesso presuntuosa mancanza di ascolto nei confronti di tale creatività (che ha avuto momenti di grande fertilità ma è anche risultata sinora alquanto fragile, nell’attuale società globalizzata in cui le più potenti élite economiche hanno scavato una fortissima e brutale frattura economica e culturale tra esse stesse e i “cittadini comuni” e hanno – nel contempo – evidentemente comprato il sostegno di una grandissima parte dei “politici di professione” in quasi tutto il mondo...). Come si è già accennato, pure le interessanti e molto significative esperienze politiche alternative affermatesi in Sudafrica (con l’amatissimo presidente Nelson Mandela), in Venezuela (col presidente bolivariano Hugo Chávez, anch’egli estremamente popolare), in Brasile (col presidente Lula da Silva, appoggiato da un grande numero di movimenti popolari di base), in Bolivia (con anche, nel 2009, una nuova Costituzione estremamente avanzata dal punto di vista della democrazia), in Uruguay (col presidente José Mujica, anticonformista e filosofo), in Grecia (con Syriza), in Spagna (con Podemos) e in qualche altra parte del mondo sono state esperienze sostanzialmente nazionali e transitorie, che hanno rivitalizzato e arricchito la vita e la cultura di milioni di persone ma – oltre a risultare scarsamente stabili – hanno inciso poco nel tessuto globale del pianeta.
Anche la corrente “riformista-keynesiana”, che in particolar modo nell’area scandinava è riuscita effettivamente a controbattere al livello delle singole nazioni numerosi degli impatti della globalizzazione neoliberista (specialmente sul piano economico e culturale), si trova sempre più in difficoltà di fronte ad altri degli impatti di quest’ultima: specialmente sul piano della finanza pubblica (che in un mondo dominato appunto dal liberismo si ritrova tendenzialmente di fronte ad ingenti spese da coprire, a causa del fatto che nelle dinamiche internazionali resta del tutto irrisolto un gran numero di problematiche della vita sociale, che quindi rimangono così da affrontare localmente...) e sul piano costituito dalla disponibilità alle migrazioni e dalle complessità sociali che ne possono conseguire, come la tendenza a contrasti culturali e a forme di emarginazione e la possibilità di secchi aumenti della criminalità. Recentemente queste difficoltà hanno portato persino la Svezia e la Finlandia ad essere governate da coalizioni di centro-destra dopo le ultime elezioni (svoltesi rispettivamente nel 2022 e nel 2023), mentre in Danimarca e in Norvegia oggi vi sono praticamente delle coalizioni centriste (in Norvegia tra l’altro dopo ben otto anni di governi destrorsi). In Svezia l’ultima campagna elettorale è stata segnata soprattutto dal tema delle bande criminali e della loro “violenza di strada”, che negli ultimi anni è giunta a colpire gran parte del paese – raggiungendo livelli molto più gravi che mediamente nell’UE – e ha portato a varie vittime innocenti del tutto casuali, uccise o ferite perché capitate appunto nelle vicinanze di qualche improvviso “scontro a fuoco” tra bande (composte per lo più da immigrati pochissimo integrati nel tessuto sociale del paese e coinvolte soprattutto nel mercato illegale delle droghe). In Finlandia l’argomento principale dell’ultima campagna elettorale è stato – come capita sovente anche negli altri paesi dell’eurozona – il crescente indebitamento della finanza pubblica provocato dai governi di centro-sinistra e l’opportunità di proseguire o meno in quella direzione [32].
Tra l’altro, anche le complessità sociali collegate all’immigrazione sarebbero in buona parte risolvibili attraverso un intelligente e sensibile impiego di investimenti – ed eventualmente sussidi – pubblici (che aiutino non solo la popolazione residente da generazioni nel paese, ma anche gli immigrati, ad evitare fenomeni come la disoccupazione, la miseria e l’emarginazione, ad inserirsi nel tessuto locale e a conoscere la lingua e la cultura del paese stesso e le tematiche della “società globale”). Questo però tende a cozzare o contro i limiti intrinseci dell’economia di un paese, dalla quale ovviamente non si possono estrarre fondi pubblici all’infinito (e ciò tanto più in un’economia ampiamente aperta alle relazioni internazionali, giacché una parte consistente del potenziale “effetto moltiplicatore” della “spesa pubblica in deficit” viene facilmente “persa” oltre frontiera tra importazioni, turismo internazionale, rimesse all’estero inviate dagli immigrati nei propri paesi di origine, ecc.) [33], o contro un’eventuale mentalità egoista delle élite economiche che operano localmente e che in caso di alte tasse locali sui redditi elevati – motivate appunto da intenti pubblici di tipo sociale – potrebbero smettere di investire (e persino di risiedere) nel paese stesso e rivolgersi altrove, magari prospettando anche qualche delocalizzazione di impianti, stabilimenti o addirittura aziende intere.... In altre parole, finché il mondo funziona globalmente così malamente come oggi (tra guerre, laceranti diseguaglianze socio-economiche e drammatici squilibri climatico-ambientali), sarà estremamente difficile pretendere di risolvere a livello nazionale un problema mondiale come quello delle migrazioni, e qualsiasi paese che cerchi di applicare a livello soltanto nazionale una logica accogliente e profondamente umanitaria nei confronti dei milioni di migranti odierni – spessissimo disperati – finirà pressoché inevitabilmente col trovarsi prima o poi in crescenti difficoltà. Una singola nazione non può risolvere le problematiche del mondo intero.... È questo il maggiore errore – oggi travolgente – dei “riformisti-keynesiani”: pensare – dimenticando il profondo internazionalismo sviluppato dal movimento socialista ottocentesco (e i motivi intrinseci di quell’internazionalismo) – che in un mondo così malamente globalizzato si possa ragionare in maniera feconda, costruttiva e accogliente sulla scala praticamente solo della propria nazione, senza indirizzarsi politicamente verso una trasformazione positiva della società su una scala pressoché mondiale. Prendendo spunto da una frase spesso attribuita a John Fitzgerald Kennedy (il presidente degli Usa assassinato nel 1963), secondo la quale “le persone dovrebbero occuparsi di politica, giacché questa un giorno o l’altro verrà comunque a bussare alla loro porta” (e potrà farlo anche in maniere molto spiacevoli, specialmente se gran parte delle persone avrà lasciato la politica “a se stessa”...), si potrebbe dire che “ci si dovrebbe occupare umanamente ed intelligentemente della politica internazionale se si vive in un mondo strutturalmente e inevitabilmente globalizzato come è quello attuale, giacché essa viene comunque a bussare alla porta di ciascuno” (e oggi – come tutti stiamo vedendo – in maniere spesso molto spiacevoli...).
Non si dimentichi che, nell’UE la cui dirigenza ha tartassato sistematicamente in maniera estrema la popolazione greca durante i governi di Tsipras, non ci fu un solo altro governo (neanche quelli di centro-sinistra...) che diede un corposo sostegno a quei governi greci, che nel pieno di una crisi finanziaria nazionale cercavano semplicemente e sacrosantamente di dare attenzione non solo alle élite economiche europee ma anche e soprattutto ai “cittadini comuni” del paese. Un tale ignobile comportamento di tutti i partiti della cosiddetta sinistra che si trovavano al governo in altri paesi dell’UE (inclusi quelli dell’area scandinava) ha inevitabilmente prodotto dei laceranti effetti culturali nella mentalità dei dirigenti di quei partiti e nell’elettorato stesso di questi ultimi, elettorato che – per un motivo concreto o per l’altro – ha finito generalmente col perdere considerevolmente affezione per la sinistra negli anni successivi. Oltre tutto, un comportamento altrettanto ignobile è stato tenuto da tutti i governi dei paesi dell’UE anche nei confronti di altre popolazioni europee che si sono trovate alle prese con dei collassi bancari nazionali dopo la “crisi dei mutui”, come specialmente la popolazione irlandese e quella cipriota, ma l’episodio greco è stato molto più eclatante perché l’elettorato greco ha saputo trasformarlo pienamente in un “caso politico” e i governi Tsipras hanno contestato e discusso profondamente negli organismi dell’UE e sui media internazionali l’atteggiamento della dirigenza dell’UE, mentre i governi irlandesi e ciprioti implicati hanno sì protestato un po’ in quegli organismi, ma si sono piegati molto più rapidamente e supinamente alla volontà di tale dirigenza. Nel contempo, la sostanziale sconfitta vissuta dai governi Tsipras nel loro scontro con l’Eurogruppo e con la Commissione Europea e gli amari effetti sociali di tale sconfitta hanno progressivamente indebolito anche l’apprezzamento dei greci per l’esperienza politica costituita da Syriza (passata dal 36% dei voti nelle due elezioni legislative del 2015, al 32% del 2019 dopo quattro anni di governo e al 20% e 18% delle due elezioni del 2023 dopo quattro anni in cui il governo è stato della “destra moderata”).
Insomma, quando in un paese – o nei rapporti tra i governi di vari paesi – le varie contraddizioni interne vissute dalla cosiddetta sinistra superano certi livelli, alle successive elezioni riguardanti quel paese o quei paesi finisce facilmente col vincere il centro-destra, anche se qualunque “addetto ai lavori” sa benissimo che il centro-destra cura strutturalmente molto più gli interessi delle classi privilegiate che quelli delle classi lavoratrici e anche se queste ultime costituiscono inevitabilmente la grande maggioranza della popolazione (ma un’idea non del tutto sbagliata che in questi casi supporta il centro-destra è che è possibile che, dal punto di vista delle classi popolari, un noto avversario politico relativamente capace governi meglio che un presunto amico relativamente incapace o un falso amico...) [34].
In breve, il Novecento ha visto una pesante caduta qualitativa complessiva della “politica di sinistra”, rispetto a quanto il movimento socialista aveva progressivamente – e faticosamente – elaborato durante il corso dell’Ottocento, con la punta qualitativa più spiccata costituita dal “socialismo scientifico” marx-engelsiano (come ha raccontato con particolare efficacia Engels in quello che fu in pratica il suo “testamento politico”: la sua Introduzione scritta nel 1895 per una riedizione del testo di Marx Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850). Nel campo della visione complessiva della vita sociale, le opere più significative pubblicate nel ’900, nelle quali si può ritrovare una qualità intrinseca paragonabile a quella del “socialismo scientifico” ottocentesco, sono state molto probabilmente L’umanesimo socialista, a cura di Erich Fromm (Dedalo, 1971), Sopravvivere allo sviluppo, di Vandana Shiva (Isedi, 1990; Utet, 2002, col nuovo titolo Terra madre), e Il piacere è sacro, di Riane Eisler (Frassinelli, 1996; Forum, 2012; titolo originale Sacred Pleasure, cioè semplicemente “Piacere sacro”), ma sino ad ora tutt’e tre queste opere sono purtroppo rimaste sostanzialmente dei “lavori di nicchia”, poco conosciuti al “grande pubblico” mondiale – o, come direbbe qualcuno, alle masse – e pressoché ignorati dai leader politici non solo della destra e del centro (come ci si può comprensibilmente aspettare), ma anche di quasi tutta la cosiddetta sinistra.
Questa digressione tra il politico e il sociologico ha molti significati per un’indagine approfondita sugli effetti culturali del neoliberismo, dal momento che la capacità critica che le persone riescono ad avere nei confronti della cultura in cui si trovano a vivere dipende anche dalle prospettive alternative che le persone stesse hanno – con una certa convinzione – nella loro visione del presente e del futuro della società e dalle potenzialità che esse vedono in tali prospettive. E se le prospettive alternative che una persona ha sono simili qualitativamente all’attuale società o addirittura peggiori, o se non ne ha proprio, ne conseguirà che in quella persona risulteranno molto indebolite la possibilità di una spinta critica nei confronti della società circostante e la capacità ispiratrice nascente da tale spinta, mentre si rafforzerà la tendenza a interiorizzare gli atteggiamenti e i comportamenti proposti correntemente dalla locale cultura predominante senza metterli ampiamente in discussione né sul piano interiore né con altri.
Postilla: lo sviluppo post-novecentesco di una “nuova” corrente di fondo nella sinistra
In regioni poco industrializzate, solitamente marginali rispetto alle aree di maggiore sviluppo economico e tecnologico (regioni soprattutto forestali, montane, aride o fredde, come si è già accennato), sono sopravvissute culture tribali e/o contadino-artigiane in cui la grande maggioranza della popolazione rivendica oggi il diritto di indirizzare democraticamente la propria vita economico-produttiva in direzioni diverse da quelle dell’industrializzazione tipica della società borghese, sottolineando ovviamente in ciò l’importanza fondamentale di una profonda autonomia del piano regionale rispetto a quello nazionale e a quello globale, per lo meno per quanto riguarda la sfera strettamente economica, mentre nella sfera dei diritti civili di fondo e della tutela dell’ambiente – tutela che per molti versi potrebbe essere considerata parte di quei diritti, dato il significato fondamentale e ineludibile che ha l’ambiente per la qualità della vita e la salute della popolazione umana – si sottolinea all’opposto l’importanza che vi sia a livello planetario una profonda capacità di sintonia, di collaborazione e di coordinamento [35].
Le formazioni politiche che danno voce a queste rivendicazioni nelle regioni in questione, o che le sostengono esplicitamente e vivamente da altre regioni (ma purtroppo si tratta di un sostegno politico decisamente raro, specialmente sul piano internazionale...), appaiono essere indubbiamente tra le più interessanti e significative nell’attuale panorama politico mondiale. Il loro approccio potrebbe essere considerato l’espressione di una quinta ampia corrente di fondo formatasi nell’ambito politico che attualmente si autodefinisce “di sinistra”, corrente definibile forse come “sinistra bioregionalista e tribale” (e il movimento zapatista del Chiapas potrebbe essere visto in effetti come un movimento connesso intimamente più a questa corrente che a quella “rivoluzionaria”).
A cavallo tra 20° e 21° secolo, vari fattori appaiono aver partecipato al coagularsi di questa corrente in un senso sempre più politico, una dinamica quanto mai opportuna (o meglio, praticamente necessaria) che ha dato luogo a positive esperienze che hanno preso progressivamente forma attraverso la confluenza di numerosi movimenti locali che da decenni, e per certi versi da secoli, lottavano ciascuno – su piani più che altro sociali, culturali e/o bellici – per la sopravvivenza della propria popolazione (nella maggior parte dei casi organizzata in modo tribale). In precedenza, a partire specialmente dalla metà del ’900, vi erano già stati crescenti scambi culturali tra queste popolazioni “native”, una serie di antropologi, medici, botanici, missionari, scrittori e registi umanamente sensibili e varie O.n.g. interregionali o internazionali che hanno percepito i profondi significati umani espressi dai “nativi”, scambi da cui sono nate opere ed iniziative che hanno contribuito a far conoscere molto più diffusamente la ricchezza culturale ed esistenziale di tali popolazioni, così che esse hanno cominciato a sentirsi anche meno isolate e meno ignorate nella loro lotta per la sopravvivenza propria e del proprio ambiente naturale [36]; parallelamente, idee che si possono considerare collegate spiritualmente alle tematiche caratteristiche di quei movimenti venivano elaborate anche nelle regioni “sviluppate”, specialmente ad opera di Aldo Capitini con la “omnicrazia”, di Allen Van Newkirk, Peter Berg e Kirkpatrick Sale col “bioregionalismo”, di Arne Naess con l’“ecologia profonda”, di James Lovelock e Lynn Margulis con la moderna “ipotesi di Gaia”, di Murray Bookchin col “municipalismo libertario” e di Elinor Ostrom con la difesa dei “beni comuni”. Tra quei fattori relativamente recenti, ne spicca un paio in modo particolare: la crescente consapevolezza scientifica del ruolo essenziale delle foreste – e specialmente di quelle che si trovano nelle regioni tropico-equatoriali o in climi freddi – nel mantenimento degli equilibri ambientali e climatici dell’intero pianeta (e quindi, in pratica, del ruolo fondamentale dei popoli che sanno vivere in tali foreste in maniera culturalmente creativa e pressoché autosufficiente senza disturbarle, cioè senza danneggiare la loro esistenza e le loro dinamiche naturali) [37]; l’incontrarsi e il reciproco dialogare di una miriade di movimenti sociali e culturali (internazionali e locali) nel quasi planetario “movimento di Seattle” – con la partecipazione anche di scienziati, economisti e giuristi “impegnati” – e poi l’effettivo crollo di questo movimento soprattutto per la sua sostanziale incapacità di “fare politica” [38], il che ha avuto come effetto il fatto che molte comunità locali che avevano trovato una sponda vitale in tale movimento hanno compreso di dover cominciare loro stesse ad occuparsi di politica, se volevano che quella lotta per la sopravvivenza avesse dei positivi risultati concreti.
L’approccio di questa corrente – “nuova” politicamente e “antica” culturalmente, ma di un’antichità che sa essere fresca, viva e riflessiva – pone alcuni punti programmatici di base che dovrebbero essere fondamentali, irrinunciabili e sostanzialmente identitari per la sinistra in qualsiasi parte del mondo, se essa vuole mantenere il proprio significato storico originario, consistente nel dar voce alle esigenze e agli obiettivi di fondo delle classi popolari: punti quali soprattutto un’effettiva democrazia, una lucida e partecipe salvaguardia dell’ambiente, della biodiversità e degli equilibri climatici planetari, una forte autonomia regionale e un’impostazione culturale ed economica non subordinata agli interessi dei “grandi ricchi”, all’industrialismo indiscriminato e al consumismo ad essi funzionale, ma attenta in particolar modo alla qualità della vita delle persone (e non soltanto della vita materiale, ma anche di quella relazionale, intellettiva, spirituale).
A dispetto di questo e in contrasto con questo, le altre principali correnti della cosiddetta “sinistra” stanno mostrando solitamente o uno scarso interesse per diversi di tali punti (evidenziando di nuovo una notevole superficialità di fondo) o addirittura un’aperta contrapposizione con essi (suggerendo così, anche in questo modo, di non essere più degne di esser considerate come parte effettiva della sinistra...).
Dal punto di vista economico, anche nella corrente qui definita come “bioregionalista e tribale” si trovano generalmente dei consistenti limiti prospettici, pressoché inevitabili per certi versi data la sua origine specifica in regioni poco industrializzate (e in linea di massima poco industrializzabili in base a uno sguardo lungimirante, perché maggiormente vocate ad altri usi del territorio, per fondamentali ragioni ambientali, climatiche e/o geografiche), però da un onesto e rispettoso incontro con i movimenti socio-ambientali e politici di altre regioni, più industrializzate, e soprattutto dal dialogo e dal confronto con essi, dovrebbe continuare a svilupparsi un reciproco arricchimento culturale che dovrebbe facilitare per questi movimenti la “riconquista” di un approccio politico più consapevole, profondo e critico, e nel contempo per le popolazioni connesse a quella corrente una maggior capacità di incidere nell’insieme della società e una maggior possibilità di godere di vari “frutti positivi” dello sviluppo scientifico e tecnologico senza rinunciare ai propri orientamenti esistenziali di fondo.
Benché dal punto di vista della cultura globale quei limiti prospettici rendano necessario una sorta di loro integrazione e completamento dinamico attraverso appunto un tale incontro (non solo politico, ma anche spirituale ed esistenziale), va sottolineato che le elaborazioni e rivendicazioni sviluppate nella corrente “bioregionalista e tribale” sono ampiamente in grado – grazie ai suoi intrinseci valori profondamente e sanamente alternativi – di contribuire con forza ad aiutare le persone proprio a resistere alle pressioni della “cultura di massa” che in gran parte del mondo sostiene e diffonde i modi di vedere collegati al neoliberismo (dal consumismo all’individualismo, dall’esasperazione del senso competitivo all’accettazione del classismo inteso come tendenza del tutto naturale e “normale”, e via dicendo) e che spinge implicitamente per l’affermarsi della logica neoliberista nella società. In tali elaborazioni, tra l’altro, (ri)compaiono finalmente con chiarezza molti dei valori culturali decisamente alternativi che vennero proposti nel Settecento dai filosofi illuministi [39] e da femministe come Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft e nell’Ottocento da gran parte del movimento socialista (con un cenno particolare a Fourier, Owen, Feuerbach, Marx ed Engels).