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A che punto è la notte

di Alessandro Leogrande

pdf CORSO DI STORIA DITALIAÈ un dato di fatto acquisito. Ormai, e da tempo, parliamo di Berlusconi non solo come presidente del consiglio, ma utilizziamo i termini “berlusconiano” e “berlusconismo” come aggettivo e come sostantivo per definire l’Italia di oggi, o almeno una sua parte consistente. Quanti presidenti del consiglio nella storia italiana sono diventati un aggettivo (o un “-ismo”) per definire un preciso periodo storico? A partire dall’Unità non sono stati molti. Anzi sono decisamente pochi: Crispi, Giolitti, Mussolini, Andreotti, Craxi… e poi c’è Berlusconi. De Gasperi è stato un grande personaggio politico, ma pochissimi utilizzano l’espressione Italia degasperiana, e decisamente nessuno l’espressione Italia togliattiana, Italia nenniana, Italia berlingueriana – a parte il fatto che questi ultimi tre non sono mai stati presidenti del consiglio.

Insomma, qui abbiamo un dato linguistico molto forte. Berlusconi è quindi un fenomeno politico che diventa categoria a sé, e definisce un’epoca storica. Questo non è successo molte volte nella storia del paese, ma, quando è successo, il paese si è ritrovato sistematicamente peggio di quando ciò non è accaduto. Come ha detto intelligentemente Cafagna, questo è un paese che non è andato avanti nei momenti di grandi tragedie o in presenza di grandi figure titaniche, bensì quando ci sono stati dei compromessi, i più avanzati possibili. È un’idea non nuova. Anche Giuseppe De Rita una volta, intervistato su questa rivista, ha sostenuto che gli unici momenti nella breve storia unitaria in cui si è cercato di governare questo paese sfasciato, come nel caso del primo centrosinistra, si è trattato di periodi in cui era evidente il maturare di un rapporto dialettico tra correnti, tra partiti diversi o tra figure diverse all’interno dello stesso partito. Nessuno può definire quei governi come la piena realizzazione della democrazia o come il paradiso in terra, ma erano sicuramente degli esperimenti politici che non si potevano identificare con l’uomo forte tout court.

Questa è la prima riflessione da fare. Oggi siamo sull’orlo di un crinale. Da una parte siamo ancora pienamente berlusconiani, e viviamo un’epoca che può essere definita pienamente berlusconiana. Ma dall’altra siamo già all’inizio di qualcosa di nuovo, un’era ancora confusamente post-berlusconiana. Non è una questione meramente linguistica. E non è neanche una questione solamente politica, che riguarda la caduta del governo, cosa fanno Fini o Casini, come si esprime la Consulta sul legittimo impedimento… Dal punto di vista politico (e il voto di fiducia del 14 dicembre lo ha confermato) è evidente che Berlusconi, pur avendo espulso prima Casini e poi Fini, pur essendo rimasto il leader di un’alleanza ristretta che annovera unicamente gli ex di Forza Italia, alcuni fedelissimi come Gasparri e La Russa, e la Lega, se si andasse al voto oggi, con tutti gli altri dall’altra parte, probabilmente vincerebbe ancora una volta. Nonostante l’indebolimento del suo governo, nonostante la sua debolezza politica, nonostante il fatto che si sia ridotto alla compravendita dei deputati, vincerebbe ancora. Qualcosa che coagula un consenso c’è ancora, quindi, è ancora forte, e bisogna rifletterci.

È anche vero però che siamo già entrati in una fase di frammentazione, che probabilmente preannuncia un nuovo corso forse ancora peggiore di Berlusconi, perché in fondo Berlusconi e lo stesso berlusconismo in questi anni sono stati una forma, sicuramente di destra, di rappresentazione di un’idea di interesse generale. Una forma non necessariamente e non solamente reazionaria, che ha incarnato allo stesso tempo una sorta di rivoluzione reaganiana all’italiana, la guerra alle procure, la difesa degli interessi confindustriali, le ansie dei piccoli imprenditori, il perdurante anti-antifascismo… ma tutto questo però è stato fatto coagulando intorno a sé una forma di interesse generale. Certo, non è l’idea d’interesse generale che abbiamo noi, ma a suo modo lo è stata. Ed è stata vincente.

Se dovessimo immaginare un’Italia dopo Berlusconi, lo scenario è inquietante. Da una parte la sinistra è debolissima, dimostra una grande difficoltà nel creare un’opposizione o anche solo nel porre le basi della ricostituzione minima di una Repubblica, nel definire che cosa sia un assetto repubblicano e come lo si difende, lo si irrobustisce (per certi versi, il paradosso di questa riflessione – nel 150esimo dell’Unità d’Italia – è che è molto simile a quella svolta dai cospiratori mazziniani ricordati da Mario Martone). Dall’altra parte dello schieramento le figure preminenti sono due: Bossi e Marchionne. Entrambi rappresentano qualcosa di specifico. Da una parte, Bossi incarna la prosecuzione del berlusconismo in chiave esclusivamente nordista e particulare: anche Berlusconi è di Milano, e la sua parabola umana, imprenditoriale e politica non sarebbe immaginabile al di fuori della capitale lombarda, però in seguito è stato capace di creare un partito che ha coagulato al suo interno anche forze politiche meridionali, in alcuni casi avverse a specifici interessi del Nord. Per certi versi, il principale successo berlusconiano è stato proprio quello di aver sdoganato il leghismo su scala nazionale, interpretando il bossismo al di là dei confini della Padania. Oggi, però, il vento gira dall’altra parte. Bossi e i suoi, che nel frattempo sono rimasti al loro posto, e si sono radicati nelle istituzioni, incarnano il riflusso di tutto questo: la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi, nordisti e particulari, appunto, che fuggono da un’idea, seppur di destra, e sicuramente populista, di interesse generale. Inoltre, fatto non secondario, la proposta leghista è davvero più dura, al di là della retorica sul partito del fare, radicato in un territorio. Se facciamo un’analisi in chiave strettamente politica delle realtà comunali di Veneto e Lombardia amministrate dal Pdl e dalla Lega, una differenza c’è, anche all’interno della destra. Le ronde contro gli immigrati, i simboli di Adro… insomma, certe cose succedono nelle zone amministrate dalla Lega: una differenza tra Zaia e Galan esiste.

L’altra figura chiave è Marchionne. Al di là dell’enorme miopia di chi ha intravisto nel manager “illuminato” col golfino una possibile icona della sinistra italiana, e di chi tuttora, dopo aver a lungo sostenuto che Marchionne rappresentava un simbolo liberal, pensa di poter candidare Draghi o Montezemolo come premier della sinistra, quello che intimorisce è che, a trent’anni dalla marcia dei quarantamila, oggi è in atto una svolta radicale. Prima a Pomigliano, poi a Mirafiori, e domani forse anche a Melfi, il principale gruppo industriale del paese decide di far da sé e di stravolgere da cima a fondo le relazioni di lavoro. Col silenzio-assenso del governo, Fiat sostiene che di voler uscire da Confindustria, licenziare tutti gli operai per riassumerli in una nuova azienda con un nuovo contratto, escludere dalla rappresentanza i sindacati che non accettano il proprio diktat, paventando poi la minaccia di chiudere Mirafiori perché tanto in Serbia gli operai vengono pagati quattrocento euro al mese e sono più produttivi… Questo tipo di discorsi, che fino a tre o quattro anni fa erano impensabili, li abbiamo letti sulle prime pagine dei giornali come ipotesi concrete, avvalorate da economisti e da giuslavoristi. E in parte sono già diventate realtà.

Le avvisaglie di questo post-berlusconismo francamente fanno paura. Ma tornando alla genesi del berlusconismo, credo anch’io, come ha detto Nicola Lagioia, che il 1992 sia un anno chiave. È l’anno dell’uccisione di Falcone e Borsellino e dell’inizio di Tangentopoli, ma quel che accade è solo la lenta elaborazione di un processo iniziato molto prima, forse anche prima dell’omicidio di Moro. Prima di arrivare a dire quel che intendo dire, vorrei aprire però una breve parentesi. Mi capita spesso di fare degli incontri nelle scuole per presentare i miei libri, di andare a parlare con gli studenti dei licei e delle scuole superiori. Qualche anno fa mi è capitato di parlare di mafia in una classe, e a un certo punto ho parlato dell’importanza del 1992, degli attentati a Falcone e Borsellino, del fatto che sono stati un evento fortissimo nella costruzione politica della mia generazione: personalmente, il primo striscione con la bomboletta lo preparai per una manifestazione dopo l’attentato in cui venne ammazzato Falcone. Bene, quel giorno mi sono reso conto, dai volti di quei ragazzi, che parlare di Falcone e Borselino o di Cesare e Pompeo era per loro la stessa cosa. Non provavano nessuna emozione. Perché? Dopo quindici secondi di silenzio mi sono reso conto che tutti quei ragazzi erano nati dopo il 1992. E che quel legame emotivo, per me fondamentale, non potevano averlo per un semplice, lampante, dato anagrafico. Erano nati dopo, e nel mezzo non avevano incontrato alcuna memoria.

I ragazzi che vanno a votare oggi, che hanno diciotto anni, sono nati esattamente in quell’anno. Noi facciamo poco questo discorso. Sono nati e cresciuti in un’epoca che noi riusciamo in qualche modo a percepire e a confrontare con un prima, ma una larga parte d’Italia (esattamente quegli studenti che oggi sono in rivolta contro l’assenza di futuro) per questioni puramente anagrafiche non può farlo. E allora, per tornare alla periodizzazione iniziale, e a come questa riguarda la vita dei singoli individui, dobbiamo chiederci: quando parliamo di berlusconismo, che cosa intendiamo? Ci riferiamo a qualcosa che è cominciato nel 1984 col decreto Craxi sulle televisioni, o a qualcosa che è cominciato nel 1994 con la discesa in campo, alle elezioni di marzo, del Cavaliere? Qualcuno, poi, identifica l’inizio dell’era berlusconiana con l’acquisto del Milan…

Credo che, stando alla politica, il 1994 sia la data giusta, ma se analizziamo nel dettaglio gli ultimi dieci anni, dal 2001, poco prima dei fatti di Genova e dell’11 settembre, al 2011, cioè oggi, ci troviamo davanti dieci anni quasi ininterrotti di governo Berlusconi, appena intervallati da un anno e mezzo di governo Prodi piuttosto malandato. Bene, questi dieci anni di governo berlusconiano (non semplicemente di cultura berlusconiana, ma di governo vero e proprio) sono passati senza lasciare conseguenze? Io credo di no. E in particolare penso a quei ragazzi che sono cresciuti in un’Italia in cui sembra impossibile dissociare la figura di Berlusconi dalla carica di presidente del consiglio.

Quello che succede nel 1992 comincia molto prima. Mi è capitato di rileggere di recente gli articoli di Pasolini pubblicati sul “Corriere della sera” nel 1975, quelli poi raccolti in Lettere luterane, i famosi articoli sul Processo. Pasolini non parlava del Processo in maniera giustizialista, come farebbero in molti oggi. Nel suo ragionamento, al di là della trovata retorico-giornalistica del Processo, della Norimberga per i gerarchi democristiani, c’era un’analisi politica molto lucida. Per PPP quello democristiano era un sistema politico molto più arcaico della società del consumismo, già profondamente mutata, che avrebbe dovuto rappresentare. Quella società del genocidio culturale (diversa, ma non migliore) chiedeva altro. Tuttavia quel sistema politico bloccato non poteva rigenerarsi da sé, e la sinistra variamente intesa – il Pci, il Psi pre-Craxi e la nuova sinistra – non riusciva minimamente a sbloccarlo. Da qui l’intuizione secondo cui, se qualcosa fosse successo, sarebbe stato unicamente in seguito a una soluzione extra-politica, giudiziaria. Questa cosa è avvenuta diciassette-diciotto anni dopo la stesura di quegli articoli, perché Mani Pulite in qualche modo altro non è che la soluzione giudiziaria ed extra-politica del blocco asfissiante della Prima Repubblica. Ma c’è un altro passaggio interessante in quegli articoli di Pasolini, che in genere non viene ricordato. A un certo punto Pasolini si chiede apertamente: che cosa avverrà una volta eliminata la Dc? Tolto il tappo, il sistema politico si riallineerà a quella società già profondamente mutata, un’Italia ormai lontana dalle maschere levantine di Aldo Moro o Emilio Colombo. Ma nel momento in cui avremo una politica “moderna” al passo con un paese “moderno”, e “moderno” è sinonimo della mattanza del Circeo e dell’omologazione delle tante Torpignattara, i cui ragazzi di borgata sono ormai in tutto e per tutto simili ai giovani fascisti e pariolini del Circeo, che cosa succederà? Ecco: “Lo spezzarsi naturale della continuità democristiana – travolta dal ripercuotersi di una nuova realtà del paese nel Palazzo – si risolverà probabilmente con la formazione di un piccolo partito cattolico socialista (di carattere non più contadino, ma urbano), e di un grande partito teologico: un Tecnofascismo (…) in grado di trovare, nelle enormi masse ‘imponderabili’ di giovani che vivono un mondo senza valori, una potente truppa psicologicamente neonazista.”

Non vorrei dire che è la profezia dell’avvento di Forza Italia, però l’idea di partito di plastica che si è realizzata non è molto diversa. Così come l’intuizione che a questo nuovo partito maggioritario si sarebbero opposti i resti della Dc e della sinistra, condannati insieme alla minoranza, non è molto distante dal vero. Il problema è come scardinare questo meccanismo, come creare dei segmenti di politica diversa.

Le fratture storiche non sono mai dei reset del computer, in ogni fase nuova accanto alle novità resistono degli elementi di continuità. E questa continuità a volte ci aiuta a comprendere i fenomeni del presente.

Una volta intervistai per Radio Tre Fabrizia Ramondino su L’orologio di Carlo Levi, grande libro del Novecento italiano che lei aveva molto amato. Nel romanzo, Levi racconta la Roma di subito dopo la Liberazione, in pieno governo Parri, e l’emozionante vita redazionale del giornale del Partito d’azione che dirigeva. Siamo negli ultimi mesi del 1945, e inizia a serpeggiare la disillusione nei confronti di un reale cambiamento dell’Italia. A un certo punto, Levi deve dirigersi a Napoli, perché sta morendo lo zio. Il viaggio verso Sud, con le strade dissestate, l’assenza di collegamenti efficienti, il pericolo dei briganti, è un’avventura picaresca… Mi ricordo che Fabrizia era molto colpita da quelle pagine in cui Levi racconta una Napoli ancora distrutta dai bombardamenti, ma già ossessionata da Giannini, dall’Uomo qualunque.

Mi disse che durante la campagna elettorale del 1994 aveva chiesto ai ragazzini della Sanità perché attaccassero i manifesti di Berlusconi, perché gli facessero propaganda, pur essendo da loro (tra i più poveri di Napoli) così alieno. “Perché ride sempre”, le risposero. Ecco, diceva la Ramondino, c’è un filo sottile che lega la Napoli del ’45 a quella del ’94. E c’è un filo sottile che lega il tipo di rapporto non-politico con Giannini al tipo di rapporto – altrettanto non-politico – con Berlusconi. Pur nelle debite distinzioni (il berlusconismo è sicuramente un fenomeno più duraturo e complesso) la domanda per noi rimane sempre la stessa: cosa passa nella testa di quei ragazzi? Che cosa sognano?

L’orologio è un libro abbastanza disperante, è un libro sul fallimento della Resistenza azionista nell’Italia nuova, schiacciata tra la realpolitik di De Gasperi e quella di Togliatti. Ma il vero problema è che di fronte a questa piccola altra Italia che Levi racconta ci sono l’Italia della burocrazia immutabile, dei funzionari, della piccola borghesia astiosa e quella che vota l’Uomo qualunque. Il ventre molle del paese, le sue pulsioni. Ecco, io non credo che il berlusconismo sia solo la riproduzione fedele di fatti del passato, ma non credo neanche – come già diceva Lagioia – che sia un meteorite scagliato da un altro pianeta. È un elemento di continuità e trasformazione con cui fare i conti. E tanti piccoli segnali ce lo dimostrano quotidianamente.

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