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Comunisti e sinistra di classe. Che fine hanno fatto in tempi di pandemia?

di Redazione

Loccupazione delle terre incolte in SiciliaLa redazione di ‘Ragioni e Conflitti’ ha posto quattro interrogativi all’attenzione di Alessio Arena (Fronte Popolare), Franco Bartolomei (Risorgimento Socialista), Adriana Bernardeschi (La Città Futura), Mauro Casadio (Rete dei Comunisti), Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo), Marco Pondrelli (Marx21), Marco Rizzo (Partito Comunista), Mauro Alboresi (Partito Comunista Italiano). Segnaliamo che il segretario del Partito della Rifondazione Comunista, benché da noi sollecitato a partecipare al presente forum, ha ritenuto di non fornire alcun concreto riscontro alla nostra richiesta: un vero peccato, un’occasione di confronto mancata. Ecco di seguito gli interrogativi con le relative risposte, la cui lunghezza varia entro lo spazio di una pagina word ciascuna, come raccomandato dalla redazione.

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1. Pur in un dramma per molti versi imprevedibile, l’emergenza pandemica dovrebbe aver dato a molti la possibilità di vedere che il re è nudo. Da una parte, un Paese come la Cina che addirittura offre materialmente aiuto al più potente Paese capitalistico; dall’altra parte, milioni di disoccupati privi di assistenza sanitaria e una società impegnata a tagliare o privatizzare servizi pubblici essenziali, quindi sciaguratamente inadeguata per rispondere a impellenti esigenze di sicurezza collettiva. Non pensi che ciò offra importanti spunti per una battaglia ideologica, essendo l’occasione per far riflettere sulle caratteristiche e le storture di una determinata organizzazione sociale?

 

ALESSIO ARENA. L’emergenza sanitaria ha reso evidenti diversi punti di collasso del modello di sviluppo attualmente prevalente nel mondo. Negli Stati Uniti, da sempre in prima linea nell’applicazione ortodossa del modello capitalista, il dramma umano è incalcolabile, così come lo è il contraccolpo economico.

Nell’Unione Europea assistiamo ai risultati dello smantellamento sistematico delle conquiste sociali strappate dalle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori, tra le quali lo sviluppo di sistemi sanitari spesso all’avanguardia e riccamente finanziati aveva occupato una posizione di particolare importanza. Il caso dell’Italia è emblematico: sebbene il trentennio del regime di Maastricht non sia riuscito a espellere del tutto i principi della gratuità e dell’universalità dal nostro ordinamento, solo negli ultimi dieci anni la sanità pubblica ha perso 37 miliardi di finanziamento, nel contesto della sua regionalizzazione. Il servizio sanitario italiano e con esso l’intero paese, costretti a mobilitare all’ultimo momento energie straordinarie per recuperare il terreno perduto in decenni di ordoliberismo ispirato da Bruxelles, diventano così l’emblema del carattere fallimentare e pericoloso per l’umanità di un modello sociale e di un sistema di dogmi ideologici. Occorre aggiungere un elemento: la scelta più o meno dichiarata, da parte di diversi governi delle potenze imperialiste, di perseguire la politica della “immunità di gregge” per salvare la competitività dei rispettivi sistemi economici, dice molto del carattere omicida e antiumano delle logiche della concorrenza e del libero mercato. In questo ordinamento sociale, l’economia è concepita come un campo di battaglia e, come tale, essa reclama la sua quota di caduti: una lezione che la strage quotidiana che si consuma sui luoghi di lavoro insegnava ben prima che il coronavirus facesse la sua comparsa. Vi sono però alcuni elementi che trascendono anche questo livello di critica e investono nel suo complesso il problema dello sviluppo umano. Da marxisti sappiamo che il capitalismo tende da un lato alla massima organizzazione delle forze produttive, dall’altro alla massima concentrazione dei profitti, e siamo ben consapevoli che il suo punto di collasso risiede proprio in questo: nella contraddizione tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell’appropriazione. In questo momento storico, per via della rincorsa al massimo profitto e della necessità di smembrare la classe operaia in modo che non sia in grado di recuperare attraverso il conflitto sociale il peso perduto a livello politico, il capitalismo ha scelto di disseminare i diversi processi che compongono le filiere produttive e di coordinarli su scala planetaria, inventando allo scopo complessi sistemi di standardizzazione per garantirsi la massima efficienza. Vi sono poi i movimenti di capitali, che alimentano bolle speculative attraversando le piazze finanziarie del mondo intero.

Questi elementi strutturali, insieme al progresso tecnologico, alla tendenziale unificazione dei mercati del lavoro in un unico mercato globale e alla maggiore accessibilità dei trasporti per le lunghe distanze, hanno generato una mobilità umana senza precedenti nella storia. Non è un caso se questo contagio si è diffuso prima nei principali centri economici dei vari paesi e si è radicato di più laddove maggiore è la produttività e anche la mobilità umana e la concentrazione di popolazione. La crisi del coronavirus ci parla dunque indirettamente dei limiti che attualmente si trova ad affrontare il progresso umano, determinati tra l’altro dall’espansione della popolazione e dal rapporto sempre più invasivo che la nostra specie ha con l’ambiente, il quale favorisce la mutazione degli agenti patogeni e rende concreto il rischio del moltiplicarsi delle pandemie. Tutti problemi, questi, ai quali al momento non viene offerta nessuna risposta seppur lontanamente adeguata. A tal proposito, va sottolineata la coincidenza che ha fatto esplodere la pandemia proprio all’indomani del dilagare del movimento globale per il clima: un movimento dai caratteri in parte non condivisibili e dalle posizioni spesso arretrate, ma alle cui istanze noi comunisti non abbiamo saputo offrire un riscontro politico adeguato, e non solo in Italia. Qui la lotta per il socialismo assume il suo significato più complessivo. Un significato che trascende il mero superamento della contraddizione capitale-lavoro, che pure è l’imprescindibile punto di partenza, per abbracciare quello più alto della lotta per far uscire l’umanità dalla preistoria classista e metterla in condizione di pianificare razionalmente, in modo complessivo, le priorità e le necessità del proprio sviluppo. Va riconosciuto che al nostro movimento resta molto lavoro da fare per porsi all’altezza del suo ruolo d’avanguardia su questo terreno. Se non ne saremo capaci, le redini resteranno in mano al capitale e il coronavirus non potrà che essere soltanto un anello della catena di disastri a venire.

 

FRANCO BARTOLOMEI. La gravissima emergenza epidemica che ha colpito tutti i paesi economicamente sviluppati li ha, contestualmente, gettati in una recessione pesantissima, che ha messo in chiaro, in modo ultimativo, tutti i limiti strutturali del modello economico liberista dominante e delle società di mercato da esso generate: a partire dalla sua strutturale difficoltà di garantire processi di crescita continua ed equilibrata ad alti livelli e dagli enormi costi sociali del suo modello di sviluppo, fondato su un trasferimento costante di reddito e di potere sociale dal mondo del lavoro e dei ceti subalterni verso le classi dominanti e su una progressiva precarizzazione della vita civile e dei rapporti lavorativi. La Crisi attuale mostra il volto finale del suo fallimento, costituito dalla assoluta incapacità del sistema di attuare interventi organici di riattivazione dei cicli economici in fase di crisi e di costruire politiche di ripresa economica attraverso l’azione delle forze spontanee del mercato o il ricorso alle risorse di un sistema finanziario privato, il cui equilibrio è definitivamente saltato. I limiti del sistema erano già precedentemente emersi nella crisi finanziaria del periodo 2008/2009 che, in conseguenza della crisi della bolla speculativa finanziaria nel 2007, aveva portato alla crisi del debito pubblico degli Stati: un debito gravato dagli interventi massicci effettuati a copertura di un possibile crollo del sistema bancario privato e con esso dell’intero circuito finanziario su cui si fondano i processi di globalizzazione, consolidati dopo la riunificazione del mercato mondiale post 1989/91. Quella crisi aveva in realtà segnato l’inizio della fine del sistema neoliberista, in quanto aveva messo in crisi la leva speculativa finanziaria concepita nelle economie avanzate come nuovo fattore propulsivo dello sviluppo, come amplificatore della creazione della ricchezza, e come forza di sostegno dei consumi. Un meccanismo che era aggiuntivo e in buona parte sostitutivo della stessa produzione reale di beni e servizi, posta in tendenziale contrazione, fondato sull’indebitamento diffuso e sulla creazione di strumenti finanziari di amplificazione dei ritorni sugli investimenti, fondato sulla estensione globale e diffusa dei mercati finanziari come punto di focalizzazione principale dei processi economici e degli investimenti . Da allora l’economia globale aveva iniziato una fase pressoché ininterrotta di stagnazione strutturale tendenziale, con fenomeni di disgregazione della compattezza del sistema, e conflitti di interessi e di competitività tra le economie interne al sistema sempre meno componibili. In tal modo, il mondo capitalistico globale è ora passato dalla fase di stagnazione tendenziale in corso da ormai un decennio, cominciata con la crisi dell’economia finanziaria come nuovo elemento forte di creazione della ricchezza sociale, all’attuale recessione generalizzata di tutto il sistema produttivo e commerciale. Ciò avviene mentre tutte le economie fondate su processi di espansione dell’economia reale e produttiva, con forti fattori strutturali di crescita, in possesso di una sostanziale sovranità statuale e di consistenti ed autonomi mezzi di scambio che li proteggono da una totale subordinazione al mercato finanziario mi riferisco ai Paesi del gruppo dei BRICS e ad altri Paesi emergenti, autonomi dal punto di vista geopolitico mostrano una forte tenuta economica e mantengono pressoché intatte buone possibilità di riprendere in tempi brevi un processo di crescita dei rispettivi PIL. In particolare, nei Paesi sviluppati, emerge come proprio il continuo indebolimento dei sistemi di garanzia e delle strutture sanitarie e assistenziali pubbliche, causato nel tempo da tutte le politiche di privatizzazione e di riduzione del debito pubblico, abbia costretto tutti gli Stati guida dei processi economici a fermare i rispettivi sistemi produttivi come unico possibile argine difensivo al dilagare della pandemia, aprendo la strada ad una spirale recessiva globale di proporzioni impressionanti. A un tale esito riescono a sottrarsi in buona parte solo gli Stati che hanno conservato una forte sovranità statuale ed una forte direzionalità sociale rispetto ai processi economici, ciò che ha loro permesso, come avvenuto in Cina, di conservare una fortissima capacità di intervento pubblico nella fase dell’emergenza e di limitare in tal modo i costi della crisi . La drammatica crisi di sistema che stiamo attraversando sta determinando quindi un crollo di credibilità delle classi dirigenti economiche e finanziarie, scuotendo in profondità l’egemonia culturale del pensiero liberista. Si riaprequindi, direttamente nel profondo della coscienza sociale, una prospettiva di trasformazione dei rapporti sociali ed economici verso un nuovo modello di sviluppo, caratterizzato da una nuova centralità del lavoro nei rapporti produttivi ed in tutti i processi decisionali collettivi, e da un recupero pieno della capacità degli Stati di governare i processi di creazione della ricchezza sociale, di controllare e indirizzare i movimenti dei capitali privati e di determinare democraticamente le scelte di modello sociale sulla base di opzioni di valore di interesse generale, fuori dal condizionamento delle logiche del mercato finanziario e dalle imposizioni delle tecnocrazie sovranazionali.

 

ADRIANA BERNARDESCHI. Certamente sì. L’emergenza pandemica ha messo a nudo la barbarie di un sistema basato sul profitto e che si appoggia a una cultura individualista e di rassegnazione che ormai ha fatto presa a livello di massa, contaminando anche il pensiero della sinistra. La drammatica situazione in cui siamo precipitati col diffondersi del Covid-19 deve essere utilizzata per fare breccia in quel senso comune appiattito, risvegliando le coscienze di fronte all’evidente inadeguatezza del mondo capitalista a proteggere i diritti fondamentali: la salute ovviamente, ma anche il lavoro e il diritto ad avere i mezzi di sussistenza. Ciascuna crisi ciclica del capitalismo portaconséquestaoccasionedisvelamento, ma l’emergenza attuale lo fa con particolare vividezza, perché coinvolge in modo repentino una parte di società che avrebbe fatto da cuscinetto per molto tempo prima di essere toccata dall’inevitabile acuirsi della crisi. L’esempio che a livello internazionale hanno dato i paesi occidentali e quelli legati al modello socialista, nei loro diversi comportamenti, è un altro elemento di grande utilità nel promuovere una rinnovata spinta rivoluzionaria, nel far superare quell’assunto delle coscienze per cui un certo modello era l’unico possibile e ogni tentativo di superarlo era stato solo un “fallimento”. I paesi del supposto “modello fallito” sono stati i più efficaci contro la pandemia, gli unici a portare avanti senza esitazione la solidarietà internazionale anche nei paesi che hanno attuato da sempre politiche ostili nei loro confronti. Gli italiani hanno visto arrivare i medici cinesi, cubani, venezuelani, e il loro prezioso materiale sanitario, mentre nei nostri ospedali mancava tutto e ci si basava ormai solo sul “sacrificio” degli operatori. Tutti hanno potuto constatare che nei paesi dove al primo posto viene la salute dei cittadini e si ragiona collettivamente, i danni di questo virus sono stati contenuti in modo incomparabilmente più efficace rispetto a quanto successo nei paesi dove a dettare legge è il mercato e la preoccupazione principale, nemmeno tanto sottaciuta, è la perdita di profitti. Anche l’ipocrisia vigliacca del dire che contenere tale perdita è per il bene di tutti non regge più, perché dove si è agito pensando in modo solidale anche i contraccolpi economici sono stati infinitamente minori. La Cina, nella difficoltà di dover affrontare per prima l’epidemia, ha mostrato un livello di maturità e senso civico, frutto di una cultura diffusa non individualista e di un’informazione corretta, che stride se messa a confronto con l’incapacità delle classi dirigenti borghesi nostrane sempre oscillanti tra una narrazione nazionalista, razzista, securitaria e dirigista che punta a creare sempre più un senso comune individualista, favorevole al mantenimento dell’attuale stato di cose, di contro al senso di solidarietà quale più alta aspirazione dell’emancipazione umana.

Dal pessimo spettacolo cui hanno assistito tutti possiamo e dobbiamo trarre nuova visibilità e forza per condurre una battaglia ideologica di ampio respiro che crei consapevolezza diffusa delle contraddizioni di questo modello di società e si faccia portatrice di speranza in un’altra società possibile da costruire dal basso.

 

MAURO CASADIO. Possiamo dire come comunisti che stiamo uscendo da una lunga “apnea” di credibilità. In questi anni, dove ci hanno detto che la storia era finita, parlare di comunismo appariva sempre utopistico se non addirittura antistorico. La crisi attuale, di cui l’aspetto sanitario è solo l’effetto finale, mostra i limiti del modo di produzione capitalistico che promuove la mondializzazione come sviluppo generale ma a spese dell’intera umanità. La dimensione della pandemia sta lì a mostrarlo in modo incontrovertibile.

 

GIORGIO CREMASCHI. Non dobbiamo considerarla battaglia ideologica, ma recuperare il concetto marxiano della critica all’ideologia dominante, il liberalismo capitalista, che è critica economica e sociale al capitalismo come sistema concreto. Sì in questi mesi sono riemersi anche a livello di coscienza diffusa due temi fondamentali del socialismo: il sistema pubblico e la pianificazione economica. Per la prima volta da una trentina di anni anche a livello di coscienza popolare i sistemi sociali organizzati con la prevalenza del pubblico e della pianificazione sono sembrati non solo più giusti, ma più efficienti rispetto a quelli dominati dal mercato e dal privato. Questo apre lo spazio per rivendicare esplicitamente il socialismo in modalità e versioni che però non possono essere scolastiche, ma frutto della realtà attuale. Dobbiamo studiare e proporre il Socialismo del 21° secolo, per dirla con Chavez. Naturalmente conterà molto la crisi economica e come verrà affronta dalle classi dominanti e da quelle sfruttate. Mi pare chiaro che le classi capitaliste oggi non possono fare a meno dell’intervento pubblico, ma lo vogliono accompagnare ad un rilancio del loro sistema di sfruttamento del lavoro e della natura, delle diseguaglianze sociali. Guai a credere che il capitalismo non possa reagire, lo può fare aumentando la sua ferocia e la guerra tra i poveri. Nei prossimi anni vedremo sempre più farsi concreta l’alternativa socialismo o barbarie, con la barbarie per ora in vantaggio.

 

MARCO PONDRELLI. Ringrazio Bruno Steri e la rivista ‘Ragioni e conflitti’ per questa opportunità. Marx21 è, oltre ad un sito, un luogo di confronto aperto il cui intento è dare spazio ad una pluralità di voci. Partecipo dunque con questo spirito, ed ovviamente a titolo personale, al forum che avete promosso. Alla fine della Grande Guerra, Giolitti disse che quei 4 anni avrebbero pesato nella vita politica come 100. I libri di storia descriveranno l’attuale pandemia e tutte le sue conseguenze non come un momento di rottura e di trasformazione ma di grande accelerazione. Oggi assistiamo ad una forte crisi degli Stati Uniti e del sistema neoliberista occidentale. I segnali di una recessione incombente c’erano tutti, gli Stati Uniti non si sono mai ripresi, checché se ne dica, dalla crisi del 2007-08. La povertà così come la diseguaglianza continuano ad aumentare, è vero che aumentano gli occupati ma assieme ad essi aumentano i working poor ovverosia i lavoratori poveri, coloro che nonostante un lavoro, ed a volte anche più d’uno, non riescono ad uscire dalla soglia della povertà. I miliardi di dollari che sono stati creati dal nulla dalla Federal Reserve in questi anni non sono andati, se non in minima parte, all’economia reale ma si sono fermati a Wall Street che infatti ha macinato record su record. L’economia finanziaria ha assunto un potere immenso, oramai è in grado di affossare governi legittimamente eletti minando alla radice la democrazia ed anche la stabilità economica. La massa dei derivati in giro per il mondo, che insidiano anche i bilanci della virtuosa Deutsche Bank, secondo alcune fonti hanno raggiunto 33 volte il PIL mondiale, secondo altre addirittura 54. Una massa di titoli tossici in grado di innescare una crisi che farebbe impallidire quella del 2007. L’impotenza della politica si dimostra quando l’unica risposta di Washington, a cui si aggiungono improvvisati sovranisti italiani, è accusare la Cina, colpevole di tutto e del contrario di tutto. Prima Pechino era impreparata alla pandemia, poi l’ha nascosta, poi è stata messa in ginocchio dal virus, poi ha esagerato la reale portata dello stesso, infine ha nascosto i morti e contagiato il resto del mondo. Queste critiche nascondono i limiti di un sistema che non funziona, a maggior ragione quando si parla di sanità, e che deve trovare un colpevole esterno. Il modello privato da Washington a Milano ha dimostrato tutti i suoi limiti, anche la stampa italiana che fino a poco tempo fa non perdeva occasione di criticare la sanità pubblica si è convertita ed ha scoperto che i tagli sono stati un errore, meglio tardi che mai! Il modello sanitario statunitense è un modello costoso ed inefficiente, anche in Italia occorre riflettere sulle scelte fatte in passato, scelte che, a fronte di ingenti risorse regalate al privato, hanno visto un costante taglio al pubblico a partire dai posti letto. Scelte la cui responsabilità, purtroppo, non sta in capo solo al centro-destra. La Cina mostra che ‘il re è nudo’. Il modello del socialismo con caratteristiche cinesi ha portato, pur con limiti ed errori che i compagni cinesi sono i primi a denunciare, ad una impetuosa crescita che ha permesso di togliere oltre 660 milioni di persone dalla povertà. La nuova via della seta è la proposta che la Cina offre al mondo, un ‘destino condiviso’ capace di modificare l’attuale sistema unipolare che negli ultimi anni ha visto proliferare guerre e crisi economiche.

La pandemia lascerà alle sue spalle le macerie, i morti non saranno solo quelli uccisi dal virus ma anche quelli prodotti dalla crisi. Avremo a breve una situazione drammatica. Pechino offre una risposta e credere di potere risollevarsi senza quella che nei fatti è la prima potenza mondiale è una follia che può essere sostenuta solo dai ciechi seguaci di Washington. Gli aiuti cinesi, e russi, oggi riguardano la sanità domani toccheranno altri campi essenziali per la ripresa. Ovvio che la Cina non si limiterà a pagare, gli equilibri internazionali sono destinati a mutare (come già stava succedendo), stiamo andando verso un mondo multipolare che piaccia o meno. Il peso che Cina e Russia assumeranno a livello internazionale sarà sempre maggiore, l’isteria che si è impadronita della stampa italiana che denuncia a suon di fake ed insulti gli aiuti russi e cinesi è guidata da chi vuole fermare queste trasformazioni. Purtroppo per questi cantori del Washington consensus gli italiani sono sempre meno attenti alle sirene atlantiche e guardano con simpatia a chi, anziché chiederci più soldi per mantenere la Nato, porta investimenti e progresso. In passato parte del movimento comunista italiano ha liquidato la categoria dell’imperialismo. Si sosteneva che il cosiddetto Impero avesse posto fine alle contraddizioni interimperialistiche definendo con disprezzo chi vedeva muoversi qualcosa di nuovo a Mosca e Pechino come un ‘campista’. Per fortuna le contraddizioni hanno la testa più dura di improvvisati dirigenti ‘comunisti’ che magari oggi si ritrovano a condividere le sfortune politiche di Matteo Renzi.

 

MARCO RIZZO. Più che sulle “storture”, che sono sotto gli occhi di tutti, dovremmo riflettere sulle soluzioni. Il nostro partito è impegnato fin dalla sua fondazione e,ancora prima, nelle nostre esperienze politiche precedenti, a criticare alla radice il capitalismo. La nostra lotta è sempre stata insieme ideologica e politica, perché non ci limitiamo a denunciare le ingiustizie di questa società, ma indichiamo anche una prospettiva di cambiamento che per noi è il socialismo. Non basta la critica se non è finalizzata a una proposta alternativa, non utopistica, ma realmente praticabile, come si è assistito nella storia dell’umanità. Il modello al quale ci rifacciamo è stato un modello che ha funzionato – nonostante quello che dice la propaganda borghese, e anche tanti e tanti a sinistra che si stracciano le vesti per rinnegare quella società – il socialismo quello che ha assicurato a centinaia di milioni di persone e di lavoratori la libertà dal bisogno, la sicurezza sociale, l’istruzione e la cultura di alto livello. Diritti sociali senza i quali ogni altra condizione o rivendicazione è semplicemente vana. E infatti abbiamo visto che, quando quel modello è caduto, i diritti sociali, ma anche quelli sbandierati dalla borghesia, si sono squagliati come neve al sole.Oggi il sistema capitalistico mostra tutte le sue contraddizioni e si sentono avanzare varie critiche. Ma la maggior parte, secondo noi, vanno fuori bersaglio, perché sono interne al sistema, tentano di tappare le falle, mentre si tratterebbe di buttare giù la casa e rifarla su basi completamente nuove. Facciamo alcuni esempi. Uno degli idoli della “sinistra radicale”, dalla quale noi ci distanziamo radicalmente (scusate il bisticcio), è l’ex ministro delle finanze del primo governo Tsipras, Iannis Varoufakis, che pur si è distanziato formalmente dal ‘traditore’ Tsipras. Ebbene le sue idee [https://www.linkiesta .it/2015/02/ varoufakisl ’europavasalvata-da-se-stessa/] sono quelle di un capitalismo temperato, “salvato dalla sua anarchia”. Anche nei confronti dell’Unione Europea usa le stesse parole: «L’Europa va salvata da se stessa». Un’altra intellettuale appartenente a questo filone “statalista”, in cui l’intervento dello stato “salva” più che l’economia, noi diciamo il capitalismo, è Mariana Mazzucato, oggi facente parte del team di esperti del governo. Noi abbiamo avanzato fin da subito le nostre posizioni su queste “ricette” [https://www.lariscossa. info/produce-realmente-valore/]. La crisi epidemica si inserisce in questa nostra battaglia che viene da lontano. Oggi è evidente che Paesi che hanno un’organizzazione centralizzata, hanno anche un sistema sanitario superiore. Vogliamo qui citare non solo la Cina, ma ad esempio Cuba socialista, un piccolo paese assediato – anche dall’Italia, vogliamo ricordarlo – che nel momento del bisogno dà un aiuto che non ha eguali in proporzione alla sua entità come nazione. Solo persone cieche o in mala fede possono negare che questi aiuti siano disinteressati, se non per dimostrare al popolo italiano una reale partecipazione al dramma. Speriamo che dopo, quando si dovranno rinnovare gli accordi o il bloqueo che strangola Cuba da sessant’anni, ci si ricordi chi ci aiutato e chi ci ha sottratto i respiratori, come hanno fatto gli USA.Quindi: battaglia ideologica, assolutamente sì, ma per abbattere il capitalismo e non per puntellarlo.

 

MAURO ALBORESI. L’epidemia da coronavirus, che dalla Cina si è propagata in altri paesi, fino a divenire pandemia, è indubbiamente un fatto di enorme portata. L’emergenza sanitaria prodottasi ha inevitabilmente e progressivamente investito la dimensione economica, amplificando una fase recessiva mondiale della quale da tempo erano evidenti le premesse, e quest’ultima, come mai era accaduto nel dopoguerra, si riversa a sua volta sulle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza dell’umanità. Dal punto di vista economico e sociale, come la cronaca evidenzia, si tratta di una crisi ancora più grave, per portata e ripercussioni, di quella generatasi a seguito della crisi finanziaria del 2008. Siamo quindi di fronte ad una situazione a livello globale senza pari nella storia recente, che determina un sentimento di crescente inquietudine e preoccupazione, ad una crisi che pone pesanti interrogativi sull’oggi e soprattutto sul domani, e che può avere diversi sbocchi. Si è riproposta con forza la questione sociale. Sull’onda dello scandalo rappresentato da decenni di tagli e di pesanti arretramenti delle condizioni materiali dei più in nome del liberismo, dell’austerità, del profitto, il senso comune risulta scosso e apre spazi per un intervento ampio, di massa, in senso alternativo. Ciò costituisce oggettivamente il terreno per il rilancio della lotta di classe, per una battaglia ideologica volta ad affermare assetti diversi da quelli dati, per la messa in discussione del sistema capitalista, che una volta di più ha evidenziato la propria natura, i propri limiti strutturali, ed in relazione a ciò l’impossibilità di rispondere ai bisogni delle masse popolari, per affermare una alternativa di potere che assegni alla classe lavoratrice la guida di una società riorganizzata su altre basi, un’alternativa che per noi e per altri è rappresentata dal socialismo. Si, si può affermare che il re è nudo. Per restare alla dimensione sanitaria risulta evidente la connessione tra pandemia e profitto. Lo sfruttamento incontrollato dell’ambiente e quanto ne è derivato, ne ha favorito lo sviluppo, l’aggressività; la subordinazione alle mere logiche di mercato, agli interessi delle grandi case farmaceutiche, ha bloccato la ricerca scientifica inerente la famiglia dei coronavirus, del quale è parte anche quello che qualche anno fa ha provocato la Sars, ed è alla base dell’assenza attuale di un vaccino; i processi di finanziarizzazione e di privatizzazione dei sistemi di welfare, in particolare della sanità, affermatisi all’insegna del liberismo, dell’austerità, volti a sostenere banche ed imprese, hanno prodotto ingenti tagli ai presidi ospedalieri e territoriali, al personale sanitario, determinato l’assenza di elementari strumenti di protezione, moltiplicando a dismisura gli effetti mortali della pandemia. L’approccio ad oggi generalmente assunto ha inevitabilmente caratteri empirici, le esperienze dei Paesi che per primi si sono misurati con essa costituiscono un riferimento per quelli che seguono, la comune speranza è quella di potere disporre a breve di un vaccino, nella consapevolezza che solo allora si potrà tirare un sospiro di sollievo. Tutti riconoscono che la Cina, guidata da un forte e sperimentato Partito comunista, ha affrontato l’epidemia con grande determinazione, adottando misure che hanno finito con il costituire un punto di riferimento per gli altri Paesi, a partire dall’Italia, chiamati a farvi fronte. Emblematica la scelta di contenere al massimo la propagazione del virus, circoscrivendo innanzitutto le aree di contagio, misura che non a caso tutti i Paesi hanno finito con l’adottare. La Cina ha inoltre dato un’importante dimostrazione di solidarietà, offrendo sostegno morale e materiale ai Paesi colpiti dalla pandemia: ed è oltremodo emblematico che tra i Paesi beneficiati figurino gli USA, i quali oggi più che mai evidenziano la scelleratezza di un sistema sanitario non universale, che subordina la salute alle condizioni reddituali, che lascia decine di milioni di persone prive di assistenza, e che quindi non casualmente registra il numero più alto di vittime. Ciò conferma la scelta attuata dalla Cina circa i principi, i valori che debbono presiedereairapportitragli Statietra i popoli; e spiega la crescita tra questi del suo prestigio, come anche i recenti sondaggi hanno evidenziato, sino ad essere considerata da molti italiani come un partner preferibile a quello storico rappresentato dagli USA. Per la Cina, infatti, la solidarietà, la collaborazione tra i diversi Paesi, è la via da seguire per sconfiggere la pandemia da coronavirus e quanto ne è derivato. Contro il parere della comunità scientifica internazionale, ivi compresa la propria, e dei suoi servizi di intelligence, il presidente Trump accusa la Cina di avere prodotto e messo in circolazione il virus, di cercare di “rubare” i risultati della ricerca statunitense inerente il vaccino. Tale atteggiamento esplicita, prima ancora che la preoccupazione per le imminenti elezioni presidenziali, una visione opposta: la tipica aggressività degli USA, espressione massima di un sistema capitalista che evidenzia sempre più la propria crisi strutturale.

 

 

2. Un sondaggio condotto ad aprile da Swg, oltre ad “un notevole avvicinamento degli italiani alla Cina, al punto da preferirla come alleato rispetto allo storico partner americano”(sic!), rileva che “le dinamiche recenti hanno incrinato fortemente il rapporto dei cittadini con le istituzioni europee” e hanno fatto crollare al 27% la fiducia nell’Unione. Auspicando che un tale smottamento non sia consegnato a tutto vantaggio delle destre, non ti sembra che la stessa appartenenza del nostro Paese all’Ue sia giunta ad un bivio storico e che la sinistra di classe debba su ciò prendere posizione?

 

ALESSIO ARENA. L’Unione Europea ha dimostrato, anche in quest’occasione, la sua natura profonda: quella di progetto ultraimperialista delle borghesie europee. Un progetto che può essere messo in crisi dalla difficoltà di farne convivere le ambizioni egemoniche su scala planetaria e le forti contraddizioni interne. Il coronavirus ha fatto la sua comparsa proprio nel momento in cui l’UE stava dispiegando con successo la sua strategia di ridisegno dei mercati mondiali in funzione delle proprie mire espansive. Mi riferisco in particolare ai trattati di libero commercio con Canada, Giappone, Mercosur, Australia, Messico e altri ancora. Essi fissano la modalità dell’arbitrato come strumento di soluzione delle controversie, delineando un sistema privato di produzione della giurisprudenza che nel tempo sottrarrà alle istituzioni parlamentari quote sempre maggiori della potestà legislativa nell’ambito decisivo del commercio estero. Inoltre, a Bruxelles si è stabilito che i parlamenti nazionali non saranno più chiamati, dopo il trattato con il Canada, a ratificare i successivi: gli Stati membri perdono dunque i capisaldi fondamentali del controllo su cosa entra nei mercati nazionali e, con essi, anche una quota non trascurabile del governo della politica estera. Menziono questo aspetto perché è utile a mettere in evidenza un tratto essenziale dell’UE: quello di una costruzione perfettamente oligarchica e tecnocratica, pensata per rendere quanto più possibile irrilevanti gli orientamenti dell’opinione pubblica. Tuttavia il progetto ha dei punti deboli e l’emergenza li ha messi in luce. Innanzitutto, esso persegue l’integrazione dei mercati dei capitali, del lavoro e delle merci, salvaguardando al contempo diversi fattori di squilibrio fiscale, giuridico e territoriale. Questo aspetto comporta un ridisegno degli equilibri della ricchezza e il consolidamento di una divisione del lavoro particolarmente penalizzanti per vaste aree del continente, tra le quali si ricomprende anche la gran parte del nostro paese. In sintesi, verso l’interno l’Unione Europea si configura come un gigantesco disegno istituzionale, monetario, economico e finanziario, volto a favorire e accompagnare il processo di concentrazione del capitale. Lo scontro intorno alla questione dei cosiddetti “coronabond” manifesta l’esplosione delle contraddizioni che tale ridisegno genera nel momento in cui le diverse società nazionali si trovano ad affrontare una crisi. L’edificio dell’UE vacilla perché la disparità di regimi fiscali, livelli salariali, percentuali d’indebitamento, rating dei titoli di debito e altri elementi ancora è la condizione necessaria per rendere l’operazione vantaggiosa per le classi dominanti e consolidare allo scopo la gerarchia tra i diversi imperialismi nazionali che fonda e consolida l’Unione. La pace sociale e il consenso oggi s’indeboliscono in molti degli stati membri le cui classi popolari, come nel caso dell’Italia, vengono maggiormente penalizzate dalla divisione del lavoro e della ricchezza che caratterizza l’UE. Ciò apre una contraddizione di difficile soluzione per le classi dirigenti europeiste: recuperare sostegno delle masse e stabilità in quei paesi può voler dire metterli a repentaglio proprio entro i confini dei soggetti statali che guidano la costruzione europea, a partire dalla Germania. E ciò perché nei paesi “avvantaggiati” il malcontento potenzialmente pericoloso, generato dalla compressione salariale e dalla scarsa propensione agli investimenti infrastrutturali e sociali, viene tamponato proprio grazie all’abile sfruttamento dei vincoli e delle disparità garantite dalle dinamiche europee, oltre che sviato attraverso l’esaltazione ideologica di una presunta, strutturale superiorità. Faremmo molto male, però, a pensare che la conflagrazione sia inevitabile. I motivi fondamentali sono due. Il primo motivo è che i popoli d’Europa, in molti casi, non percepiscono l’esistenza di un’alternativa percorribile rispetto all’Unione Europea. Ciò è vero soprattutto in Italia: una vasta porzione dell’opinione pubblica teme le conseguenze economiche di una rottura con l’UE e, seppure sempre più di malumore, accetta lo status quo per pura rassegnazione. Il secondo motivo è che, come ha insegnato l’esperienza della Brexit, manca un elemento politico in grado di porsi alla guida del processo di rottura con l’UE da sinistra. Questo è vero a livello nazionale, ma è altrettanto vero se si considera l’UE nel suo complesso. Il capitale attacca su scala continentale, ma la risposta delle sinistre contrarie all’UE non agisce sulla stessa scala e questo rende la lotta ancora più impari di quanto già non sia di suo. Dobbiamo convincerci che riconoscere l’esistenza di un livello europeo della lotta politica non significa avallare la presunta “irreversibilità” dell’integrazione europea, ma viceversa, fare i conti con la realtà per poterla trasformare. La sinistra di classe deve dunque dire urgentemente la sua, ma in modo coerente, coordinato, profondo. Deve dare risposta al baratro spalancato sotto i nostri piedi da decenni d’integrazione ultraimperialista europea e sostenere senza ambiguità l’uscita unilaterale di ciascun paese da un’Unione a tutti gli effetti non riformabile. Ma deve fare tutto questo in modo concreto, non generico, offrendo soluzioni per il governo dell’uscita da sinistra dall’UE e indicando in modo chiaro quale debba essere la nuova fisionomia da conferire ai rapporti tra le nazioni e i popoli del continente. Se non si percorrerà questa strada, finanche offrire risposta ai problemi delle nostre comunità locali diventerà sempre più difficile, perché la scomposizione del tessuto economico nazionale e la sua ricomposizione nell’aggregato europeo sottrae una quota rilevante della sua necessaria base materiale alla costruzione di un soggetto politico capace di essere autenticamente nazionale.

 

FRANCO BARTOLOMEI. La Ue si dimostra sempre più una superstruttura finanziaria, monetaria e normativa, costruita dai suoi trattati istitutivi in modo irriformabile, finalizzata ad imporre in modo autocratico a tutti gli stati che la compongono, attraverso la soppressione della loro sovranità costituzionale, un ordinamento sociale rigorosamente liberista, funzionale ai processi di globalizzazione finanziaria. I pilastri di questo processo di omologazione sociale sono l’Euro, come moneta comune agli Stati trainanti dell’unione, e la BCE, come istituzione bancaria e monetaria sovranazionale di guida, di controllo e di gestione finanziaria dell’intero sistema. Essi costituiscono un sistema finanziario fondato sulla imposizione di rigidi limiti alla spesa pubblica degli Stati. Detti limiti sono posti a tutela della sola concorrenzialità del sistema a prescindere totalmente dalla qualità delle sue scelte sociali: un sistema che agisce non come fattore di sviluppo e di crescita dei popoli europei, ma esclusivamente in funzione della stabilità dell’assetto commerciale e finanziario globale e come elemento di rafforzamento continuo della economia tedesca rispetto al resto degli Stati europei. A livello popolare si sta ormai prendendo atto che questo sistema di governo sovranazionale sta portando alla fine della nostra democrazia, alla distruzione del nostro tessuto economico e al collasso della nostra società civile, che esso è il responsabile principale della distruzione di tutto il nostro sistema di garanzie sociali, smantellate da anni di tagli di spesa, da scelte normative imposte da Bruxelles e compressive dei diritti sociali. La pubblica opinione è ormai consapevole che il Paese, privo di sovranità monetaria e costretto a ricorrere alle concessioni finanziarie di Bruxelles per reperire i mezzi necessari a ricostruire il suo tessuto produttivo, viene sottoposto a un ricatto che impone allo Stato una politica forzata di restituzioni e sacrifici a danno delle classi popolari e del mondo del lavoro, di svendita dei suoi assets strategici, di distruzione del risparmio delle famiglie. E’ necessario quindi che tutte le forze della sinistra di classe colgano finalmente il nesso essenziale tra gli equilibri finanziari e fiscali imposti dal sistema Euro/Maastricht , la conseguente distruzione del nostro assetto costituzionale e la situazione di subalternità assoluta in cui è stato posto negli ultimi venti anni il movimento dei lavoratori, insieme a tutte le fasce sociali subalterne, all’interno di un sistema paese via via ridefinito dal sistema politico della Seconda repubblica secondo queste logiche. Una riflessione di questo spessore riporterebbe il movimento dei lavoratori ad assumere nuovamente una funzione centrale di direzione progettuale e sociale in un complessivo progetto di ricostruzione del Paese e del nostro assetto costituzionale, secondo le linee di un nuovo modello di sviluppo lavorista , solidale e costituzionale , su cui aggregare e mobilitare un nuovo blocco sociale alternativo e maggioritario, che parta dalla definizione di un piano di uscita dal sistema euro/Maastricht: un piano articolato di uscita unilaterale, che in prospettiva consenta al nostro assetto istituzionale, attraverso il recupero da parte dello Stato della propria autonomia finanziaria e monetaria, di ricostruire le sue funzioni di intervento pubblico in economia e le sue potestà costituzionali nella definizione normativa ed amministrativa delle scelte di modello sociale, e, nell’immediato, consenta al governo di far fronte con mezzi autonomi, o autonomamente reperiti, e con adeguati interventi esecutivi, ad ogni possibile crisi di liquidità. L’Italia è tuttora fondata su un sistema manifatturiero esteso, completo in tutte le filiere, di spessore tecnologico e qualità progettuale e commerciale, ed in possesso di grande capacità di adattamento al mutamento delle fasi economiche e delle caratteristiche dei mercati mondiali. Esso costituisce un fattore essenziale della nostra tenuta economica e delle nostre possibilità di superare la crisi se sostenuto ed incentivato da politiche industriali pubbliche , fondate sulla ricostruzione del ruolo direzionale pubblico nelle scelte di indirizzo e nella riqualificazione infrastrutturale e tecnologica del nostro sistema Paese. Il nostro sistema finanziario, fondato sul risparmio privato più ampio tra tutte le economie sviluppate , e su tecnostrutture bancarie e finanziarie, pubbliche e private, in possesso di fortissime competenze operative, è quindi nelle condizioni di sostenere lo sviluppo del Paese, una volta liberato dai vincoli di spesa imposti dal sistema UE attraverso il recupero della propria sovranità monetaria, tornando ad attuare politiche di espansione della domanda interna necessarie allo sviluppo del circuito produttivo. In linea meramente teorica non si può escludere la possibilità, allo stato in realtà inesistente, di una riforma radicale della UE, che ne stravolga la natura portandola a divenire una libera Confederazione di stati sovrani autonomi, come soluzione subordinata per rispondere alle esigenze che allo stato attuale costituirebbero le ragioni della nostra uscita dal sistema UE, così come determinato dai trattati vigenti. In questa ipotesi servirebbero però riforme strutturali che realizzinounbendiversorapporto tra l’autonomo ed incondizionato esercizio della nostra Sovranità Costituzionale e l’insieme dell’impianto normativo e finanziario che caratterizza ora il sistema Euro/Maastricht/BCE , il quale impone lo smantellamento del sistema di garanzie e protezioni pubbliche e il divieto allo Stato di qualsiasi politica di indirizzo e di governo del sistema industriale, bancario e finanziario. Questa trasformazione radicale troverebbe la sua chiave solo in una nuova BCE, come nuovo istituto centrale di emissione il quale, assumendo tutti i processi di indebitamento dei singoli Stati, assolverebbe le funzioni di prestatore di ultima istanza, con la eliminazione del sistema dei tassi differenziati generati dai differenziali sugli spread delle emissioni obbligazionarie degli Stati. Si attuerebbe così una modifica del sistema normativo comunitario, che partendo dal fondamentale rovesciamento delle priorità definite dall’attuale art. 3 di Maastricht, con la assunzione delle politiche di piena occupazione a finalità principale della Unione, prioritaria rispetto al controllo dell’inflazione, introdurrebbe in linea generale e cogente il rispetto assoluto degli standard di garanzie sociali e civili previsti da tutte le costituzioni democratiche degli Stati partecipanti.

 

ADRIANA BERNARDESCHI. A nostro avviso combattere l’imperialismo nel proprio paese e contesto è imprescindibile per praticare l’internazionalismo in una prospettiva rivoluzionaria. In Italia ciò si traduce nella necessità di una lotta organizzata contro l’imperialismo italiano, quello dell’Unione Europea a cui il primo è legato, quello della NATO e l’imperialismo transnazionale. Tale battaglia non può fare a meno della collaborazione a livello internazionale con i partiti, i movimenti e le organizzazioni militanti comuniste. La vicenda della Grecia ha dimostrato che di fronte alla crisi di un paese, dovuta soprattutto al fatto che le perdite private sono state socializzate, l’unico “aiuto” che l’Ue è in grado di dare è quello di tenere ben stretto il cappio al collo del paese debitore per salvaguardare l’interesse dei creditori (banche e speculatori) per impedire che la deflagrazione di un paese si estenda a macchia d’olio. Se adottassimo la ricetta raccomandata dall’ex governatore Bce Draghi, consistente nel fare più debito pubblico per azzerare quello privato, ci infileremmo in una situazione paragonabile, se non peggiore, a quella greca e prima o poi sarebbe la Troika a governarci. Lo squallore del tira e molla, in piena emergenza sanitaria, non tanto nel merito di politiche più o meno alternative, ma solo, nella sostanza, su come ripartire l’onere del debito, cioè in maniera più o meno mutualistica, dimostra che si sta sfaldando ogni minimo elemento di coesione. I comunisti, a prescindere da come la pensino riguardo all’alternativa che abbiamo davanti (uscire o meno da questa Unione e dall’Euro) devono essere pronti di fronte all’eventualità di una disgregazione di queste istituzioni, perché se così non fosse un tale processo sarebbe guidato dalla destra più becera e più pericolosa. La quale, tuttavia, tolte le sfumature, i settori del capitalismo e gli imperialismi prediletti, praticherebbe la stessa macelleria sociale nei confronti dei lavoratori.

 

MAURO CASADIO. L’ambiguità e la confusione avuta a sinistra sulla natura dell’Unione Europea ha permesso una mistificazione politica che ha dato fiato alla destra e ha impedito processi larghi di opposizione alle scelte della UE sempre più palesemente antipopolari. Sarebbe ora che su questo, vista anche la perdita di credibilità dei cosiddetti sovranisti, si apra una campagna di massa contro le sue politiche e per la rottura di una struttura sovranazionale imperialistica.

 

GIORGIO CREMASCHI. Certo la sinistra anticapitalista e di classe non può che avere un giudizio comune, completamente negativo, sulla UE e deve sempre più collegare questo giudizio a quello altrettanto negativo sulla NATO. Il giudizio sulla non riformabilità di queste organizzazioni e sulla necessità della rottura con esse e di esse è costituente e separa dalla sinistra liberale che invece è oggi pienamente euroatlantica. Questo giudizio però va maturato e sviluppato in assoluta indipendenza, non solo dalla sinistra liberale, ma anche dalla destra sovranista. Non si possono avere ammiccamenti né verso la prima né verso la seconda, magari per opportunismi elettoralistici di scarso respiro, quindi bisogna elaborare anche qui un punto di vista indipendente. Noi non abbiamo nulla a che fare con il rancore piccolo borghese dei commercialisti che si improvvisano grandi economisti. La nostra rottura con UE e NATO è in nome del socialismo e della pace, non per rendere il paese più liberista e competitivo nel mercato mondiale. Quindi anche qui c’è da studiare ed elaborare un nostro pensiero, estraneo e avverso alle due egemonie che oggi occupano il campo: europeismo e sovranismo.

 

MARCO PONDRELLI. Difendere l’Unione europea è diventato oggi impossibile, gli italiani lo hanno capito nonostante un coro unanime sulle magnifiche sorti e progressive che, a fronte dei bambini greci denutriti ed uccisi dall’austerità, glorificava la generazione Erasmus. Con la crisi pandemica chiunque ha capito da chi arrivavano parole (non sempre positive come nel caso della Lagarde) e da chi concreta solidarietà (Cina, Russia, Cuba e Venezuela). Al momento l’Ue, a cui Giuseppe Conte aveva dato 10 giorni per decidere sui cosiddetti coronabond, offre ai paesi in difficoltà solamente il MES. La posizione del Presidente del Consiglio su questi aiuti è passata dal sì (pronunciato sul Financial Times), al no ed infine al vedremo. A prescindere da quello che deciderà il Parlamento, che il MES possa essere senza condizioni è una balla a cui non crede più nessuno. L’altra soluzione ancora da definire è il recovery fund che secondo alcuni potrebbe arrivare a valere 1500 miliardi. In realtà la cifra non è ancora definita ma è scontato che sarà più bassa, i ‘virtuosi’ stati del nord (Germania e Paesi Bassi su tutti) si sono opposti a che questi fondi vengano elargiti a fondo perduto ed inoltre questi soldi dovranno essere impiegati solo in specifici settori e quindi è scontata una supervisione sull’utilizzo degli stessi. Rimane un problema, se l’Italia vuole investire nella sanità sosterrà delle spese correnti, detto in altri termini se voglio assumere più personale lo devo pagare tutti gli anni, passata l’emergenza cosa succederà? Cosa ci dirà la Ue? Che stiamo spendendo troppo, che il nostro debito è aumentato e che stiamo vivendo sopra le nostre possibilità?

La situazione meriterebbe risposte più convincenti, i governi che si sono succeduti in passato hanno tagliato sanità e ricerca ed oggi il governo promette di donare fra i 110 e i 150 milioni alla fondazione di Bill Gates per cercare un vaccino (notizia apparsa sul ‘Corriere della Sera’ del 3 maggio)! Siamo di fronte ad uno Stato che appalta ai privati le politiche sociali e la ricerca. Quest’anno si prevede un forte calo del PIL (probabilmente a due cifre), milioni di disoccupati e di nuovi poveri (la Caritas ha giàdenunciatounaumentodel 105% dei bisognosi che accedono alle sue sedi). Questo drammatico disastro si produce non certo dopo un periodo di crescita ma anzi dopo una stagnazione prolungata. Dobbiamo allora essere chiari, le politiche deflazioniste europee che hanno sostituito la svalutazione della moneta con quella del lavoro non possono essere corrette, bisogna uscire dalla gabbia dell’euro e della Ue. Brancaccio e Passarella nel loro libro ‘l’austerità è di destra’ parlavano della necessità di ‘una limitazione della libera circolazione dei capitali ed eventualmente delle merci’, l’alternativa alla Ue non è la guerra ma un sistema internazionale fatto di regole. Chi negli anni scorsi ha continuato a tessere le lodi del liberoscambismo tentando di convincerci che un abbassamento delle barriere fosse l’unico strumento di progresso dovrebbe oggi guardare in faccia la realtà. Il 1914 non torna se crolla la Ue, il 1914 è già qui. I lavoratori si combattono, fortunatamente non sui campi di battaglia, a suon di deflazione salariale. Accettare questo sistema, chiedendo una fantomatica Europa dei popoli e non dei capitali, ha portato la sinistra a perdersi ed ora nelle nostre città i quartieri popolari votano a destra (colpa degli elettori?). Per difendere i lavoratori italiani è necessario difendere l’industria italiana. Molti politici si dicono preoccupati dall’ingresso della Cina, si sentiranno più sollevati quando le nostre aziende e le nostre banche saranno acquisite da BlackRock? È il momento di chiedere un rilancio del pubblico, Alitalia, Ilva, banche per non parlare di Telecom sono tutti settori in cui il privato ha fallito, l’unica soluzione è nazionalizzare. Allo stesso tempo dobbiamo lanciare una battaglia per una nuova scala mobile, per un aumento generalizzato dei salari, per la riduzione dell’orario di lavoro, per la lotta alla precarietà e per l’estensione dei diritti. Possono sembrare parole d’ordine utopiche ma solo il movimento operaio può salvare l’Italia. Sappiamo benissimo che questi sono obiettivi irrealizzabili dentro la Ue, unicamente la rottura della gabbia europea può permetterci di raggiungerli.

 

MARCO RIZZO. Mi aspettavo che gli Stati Uniti intervenissero pesantemente su questo loro “appannamento” di simpatie in Italia. In ritardo, ma ora lo stanno facendo con una campagna contro la Cina che ha precedenti solo ai tempi più acuti della “guerra fredda”. La campagna mediatica è davvero poderosa, televisioni e giornali , come ad esempio La Stampa sono a completa disposizione della narrazione statunitense. Se buona parte di questo malessere si indirizza verso la destra “sovranista” (indichiamola così per comodità, anche se nei confronti della UE risulta essere “tutto fumo e niente arrosto”) è colpa della sinistra che ha abbandonato le proprie posizioni, innanzitutto ideologiche, come abbiamo sottolineato precedentemente. E mi riferisco non solo alla sinistra di governo, quella rappresentata dal PD, che chissà perché viene ancora annoverata come sinistra, ma anche alla sinistra che non riesce a rompere con l’equivoco, che ha paura di chiamare il socialismo col suo nome, che deve differenziarsi dai modelli storici perché comunque ha bisogno di sentirsi accreditata entro inutili circoli culturali (?) che quei modelli demonizzano. È proprio vero che ormai siamo a un bivio storico: socialismo o barbarie, si sarebbe detto una volta. Solo che va capito bene cos’è il socialismo. Per noi è esproprio dei mezzi di produzione a cominciare dai più grandi: banche, imprese strategiche. E affidamento ai lavoratori, gli unici che possono davvero assicurare una gestione a favore di tutta la collettività, i consigli di fabbrica o soviet. Ma ciò non si può fermare all’interno delle aziende, è nulla senza il potere politico che solo un partito costituito dai migliori elementi di quei lavoratori può interpretare. E quindi fuori dalle gabbie imperialistiche: NATO, UE, Euro. Completo rinnovo e ripensamento della macchina statale e militare in senso proletario. Tutto il resto sono ricette improvvisate destinate al fallimento. Noi, più che rivolgerci alla “sinistra di classe”, termine che mi rimane difficile da definire, ci rivolgiamo ai lavoratori, a tutti, dipendenti e autonomi, per creare un nuovo blocco sociale contro il capitalismo e quella massa vogliamo convincere e proporci a guidare. I ceti intellettuali facciano quello che credono, non è con fusioni a freddo di classi politiche che si costruiscono i blocchi sociali. Anzi. Sappiamo che quando ci si mette insieme con idee eterogenee i consensi si sottraggono e non si sommano. E quindi, a chi spera di recuperare dai disastri elettorali degli ultimi decenni, diciamo: quella strada non porta a nulla, non sono la sommatoria di tante idee a farne una vincente, ma la competizione affinché emerga la migliore. E noi crediamo di avere in pugno la più convincente, la più efficace, non perché sia la nostra ma perché proviene da un secolo di lotta di classe del movimento comunista e operaio internazionale.

 

MAURO ALBORESI. La pandemia da coronavirus ha pesantemente colpito i Paesi dell’Unione Europeae, inuncontesto segnato dal trend economico di questi ultimi anni, per tanti di essi di sostanziale stagnazione ed in ultimo di conclamata recessione, all’emergenza sanitaria si è inevitabilmente aggiunta quella economica e sociale. Ciò che è accaduto e continua ad accadere ha messo innanzitutto a nudo i limiti dei diversi sistemi sanitari pubblici, fatti oggetto di un progressivo smantellamento, operato dai diversi governi riconducibili al campo largo del centrodestra e del centrosinistra, o se si preferisce ai gruppi parlamentari europei liberali, popolari, socialisti e democratici, succedutisi alla guida degli Stati membri, all’insegna dell’imperante cultura liberista e del dogma dell’austerità. Le richieste di una risposta comune ad un evento inedito di tale gravità sono state essenzialmente disattese, e si sono manifestate pulsioni e scelte di stampo isolazionista (del resto già largamente emerse a fronte dell’altra grande questione rappresentata dall’immigrazione). Del tutto inadeguati gli aiuti che i Paesi dell’Unione Europea si sono scambiati a fronte di un’emergenza che ha colpito tutti. Che ciò abbia inciso fortemente sul senso comune, sul giudizio di tanta parte dei suoi cittadini, è un dato di fatto. Che tale giudizio sia negativo, come evidenziato dal sondaggio richiamato, è un risultato atteso, che conferma un trend da molto tempo in atto, largamente riconducibile al carattere del processo di Unione Europea, essenzialmente finanziario, assai poco economico, e, per l’appunto, per nulla sociale. Non può non colpire quel 27%, che è un minimo storico. Le pesanti ripercussioni della pandemia sul piano finanziario, economico e sociale, sono ad oggirimaste largamente senzarisposta. Siamo approdati alla logica della sospensione di alcuni dei vincoli imposti dai trattati che sorreggono l’Unione Europea, quegli stessi trattati che sono alla base del precipitare della condizione materiale della gran parte della popolazione continentale; e già si sono levate le voci dei Paesi del Nord Europa, Germania e Olanda in primis, per ricordare che una volta usciti dall’emergenza si dovrà ritornare ad un rigoroso rispetto degli stessi. La discussione di questi giorni verte sulla scelta di questo o quello strumento da adottare per affrontare una crisi economica sempre più grave: strumenti che si dimostrano largamente insufficienti, come ben dimostra tra essi il MES, riferito a possibili prestiti volti a contrastare l’emergenza sanitaria ( 36 miliardi per il nostro Paese) da restituire, con un pur piccolo interesse, in 10 anni. In primo piano restano i limiti strutturali del processo di Unione Europea, concepito sulla base di ragionieristici equilibri contabili che aggravano, anziché risolvere, le disparità sociali e quelle tra Paesi. Per questo, lo scontro che si registra tra i diversi Paesi, segnatamente tra Nord e Sud Europa, su come rispondere alla pandemia, alla tendenza recessiva da tempo in atto e da quest’ultima amplificata, non è contingente e attiene a questioni di fondo. In tale contesto, va da sé che si sia fatta strada l’idea che “o l’Unione Europea si dimostra utile in questa fase o tanto vale superarla”. Siamo di fronte ad un processo che oggettivamente rischia di portare altra acqua al mulino di una certa destra europea, quella solitamente indicata come “sovranista”, ma i cui tratti sono marcatamente quelli della chiusura nazionalistica (e quindi lungi dal proporre una legittima questione nazionale gramscianamente intesa), una destra che in questi anni si è presentata con un profilo largamente xenofobo, razzista, che ha ridato fiato a posizioni che si ritenevano consegnate per sempre alle pagine peggiori della storia del vecchio continente. Si, siamo giunti ad un bivio storico. La questione dell’Unione Europea, delle sue prospettive, dell’appartenenza o meno del nostro Paese ad essa, è certamente complessa, carica di incognite, ma è questione ineludibile, dell’oggi, e non può non interrogare l’insieme delle forze comuniste, delle forze ascrivibili al campo della sinistra di classe, chiedere loro un esplicito orientamento. Se sul piano dell’analisi circa il suo carattere, le ripercussioni delle sue politiche sulla condizione dei ceti popolari, questo insieme di soggettività si ritrova largamente, rilevanti differenze emergono quando si tratta di sciogliere il nodo del rapporto con essa. Come noto le posizioni divergono: alcune soggettività puntano alla ridefinizione dei trattati, altre propendono per la denuncia, per la disobbedienza agli stessi, etc. E’ bene che su questo tema le diverse forze comuniste, le diverse forze ascrivibili alla sinistra di classe si confrontino, decidano un chiaro posizionamento. Noi, che da sempre, alla luce dei trattati che la sorreggono, abbiamo denunciato il carattere e la non riformabilità dell’Unione Europea, insistiamo: così non va! Uscire dall’Unione Europea guardando ad una Europa dei popoli, solidale, aperta alla collaborazione con gli altri Paesi, alla pace, è un’alternativa necessaria, possibile.

 

 

3. Nell’attuale drammatico contesto del Paese, molti compagni vivono con irritazione il paradossale contrasto tra la conferma di molte loro convinzioni concernenti le profonde ingiustizie, le contraddizioni della società vigente e, d’altro lato, l’attuale frammentazione, l’irrilevanza politica della sinistra di classe e, in essa, dei comunisti. Qual‘è, a tuo giudizio, la strada per riportare sopra la soglia di visibilità una sinistra degna di questo nome e per ricostruire un forte partito comunista o di orientamento comunista?

 

ALESSIO ARENA. Per quanto riguarda la sinistra di classe nel suo complesso, la risposta sarebbe in teoria semplice e in parte la stiamo dando con il coordinamento per l’unità d’azione delle sinistre d’opposizione. Si tratta d’individuare punti di analisi in comune e priorità condivise per costruire una piattaforma da perseguire unitariamente. Se ciò debba investire anche l’ambito elettorale è questione delicata, ma le ultime europee hanno dimostrato come ormai, al netto di aiuti esterni e contando solo sui generosi sforzi dei propri militanti, nessuna delle formazioni della sinistra di classe sia in grado di presentarsi da sola a una competizione elettorale nazionale con una presenza omogenea su tutto il territorio. Percorriamo una via difficile, che impone di superare illusioni di autosufficienza e candidature alla primogenitura: la riuscita dipenderà dallo spirito costruttivo di tutte le forze della sinistra. Il problema dell’unità d’azione della sinistra di classe si può d’altro canto porre anche a livello internazionale, esattamente negli stessi termini. Come non vedere, ad esempio, i vantaggi che potrebbe offrire una sorta di Foro di San Paolo dell’area atlantica, che metta a confronto le forze della sinistra d’alternativa che operano nel contesto del blocco imperialista per eccellenza? Per quanto riguarda la ricostruzione del partito comunista, invece, la questione è decisamente più complicata e abbraccia necessariamente la dimensione internazionale. A questo proposito, la tesi di Fronte Popolare è che il problema principale sia da individuare nel venir meno del paradigma “centralizzatore” che rendeva chiaramente distinguibile il movimento comunista rispetto al resto della sinistra di classe. Analizzando sinteticamente il percorso storico del movimento comunista (e limitandosi a quello di derivazione “terzinternazionalista”), si può osservare quanto segue. I successi ottenuti dal nostro movimento hanno portato i comunisti a misurarsi con il governo di processirealicomplessi, insenoasocietà che riunivano centinaia di milioni di uomini e donne. La tensione tipica del marxismo a evolvere la teoria tramite l’esperienza, però, messa a confronto quella complessità, ha portato nel tempo alla definizione di principi teorici sempre più adeguati alle realtà particolari, ma al contempo sempre più distanti dal conformarsi a un paradigma generalizzabile. Principi che immancabilmente hanno finito per entrare in conflitto, rendere impossibile il riconoscimento di uno o più partiti come guida del movimento e generare la catena di lacerazioni di cui siamo eredi. Le ricadute hanno alimentato una spirale disgregativa apparentementeinarrestabilealivello internazionale e, di conseguenza, nei singoli ambiti nazionali. A ciò si è tentato per decenni di dare risposta attraverso la mediazione “diplomatica” tra i partiti comunisti storici, operando per tenerli tutti nello stesso contenitore a scapito della chiarezza politica. Il formalismo praticato dal movimento “istituzionalizzato” su scala internazionale impedisce di vedere come attualmente l’etichetta comunista venga rivendicata, internazionalmente e nazionalmente, da soggetti della sinistra di classe che devono assolutamente cooperare, ma che spesso ormai hanno in comune quasi esclusivamente la denominazione e l’origine storica. Parlando dell’Italia, non sembra eccessivo affermare che il pluridecennale processo di frantumazione di Rifondazione Comunista abbia radici proprio in questo. Nel nostro paese, d’altra parte, si è verificata un’ulteriore premessa specifica per l’atomizzazione del movimento comunista: la liquidazione del PCI, che ha fatto venir meno l’elemento centralizzatore oggettivo costituito dalla continuità organizzativa del partito storico. Si pone, dunque, il problema di organizzare quello che Togliatti definiva il necessario “policentrismo” del movimento comunista internazionale, cioè di organizzare il rapporto dialettico e vivificante con la lotta di classe e con la realtà multiforme che caratterizza, sul piano nazionale e internazionale, questa fase del nostro movimento. Occorre stabilire, attraverso la pratica delle relazioni bilaterali e multilaterali, dei parametri per distinguere il movimento comunista come lo intendiamo noi rispetto al resto della sinistra di classe e, su quella base, costruire relazioni di tipo nuovo, dialettiche, operative e non formalistiche, tra i soggetti che riteniamo lo compongano. Solo per quella via è possibile definire su scala internazionale, nei suoi lineamenti attuali, una possibile identità comunista estensibile a soggetti omogenei per impostazione teorica, lettura dell’attuale fase storica e modalità di approccio alla realtà, e parallelamente aggregare sul piano nazionale le forze disponibili a cimentarsi in modo aperto sul terreno della ricerca e della sintesi, sviluppando un rapporto vitale con le masse. In termini generali, possiamo quindi dire che la ricostruzione del partito comunista passa, in Italia come altrove, dalla sua “rifondazione” teorica e pratica. Ciò non può significare una cesura con il passato del movimento, neanche limitatamente ai suoi aspetti più negativi e che pure vanno riconosciuti come tali. È però urgente una piena e non reticente elaborazione della sconfitta del 1989-1991, che superi una volta per tutte la banalizzazione letale insita nelle categorie dell’alterità (l’atteggiamento di chi afferma di essere, da comunista, completamente altro rispetto alle esperienze comuniste del ‘900) e del tradimento (l’atteggiamento di chi spiega la sconfitta del ‘900 individuando momenti specifici di passaggio e singoli dirigenti o gruppi di dirigenti responsabili di aver snaturato le esperienze novecentesche). Dall’Italia può venire certamente il buon esempio e un contributo all’altezza della nostra storia, ma perché ciò sia possibile, occorre cominciare con un deciso atto di volontà e di apertura, da parte tanto delle basi militanti quanto dei gruppi dirigenti.

 

FRANCO BARTOLOMEI. (Risposta alla terza e quarta domanda) La crisi di rappresentatività della sinistra di classe , intesa nel suo complesso, è giunta a maturazione, paradossalmente, nel momento in cui il sistema liberista viene travolto da una crisi gravissima sotto il peso delle sue contraddizioni e dei suoi limiti. Siamo costretti a misurare la sua irrilevanza politica proprio quando una visione critica del sistema capitalistico dovrebbe, e potrebbe, ritrovare uno spazio egemone nella coscienza sociale, sulle macerie di un sistema di rapporti sociali e di strutture economiche e finanziarie che si dimostra incapace di sostenere l’emergenza sanitaria ed è costretto a ricorrere all’intervento pubblico per evitare di precipitare in una spirale recessiva drammatica . Le cause di questa irrilevanza politica affondano le radici in una subalternità di fondo, più o meno consapevole e rassegnata, all’idea che la crisi del Socialismo reale e la conseguente affermazione dei processi di globalizzazione ed integrazione delle economie mondiali avessero segnato la fine di una prospettiva reale di superamento del sistema capitalistico nei Paesi tradizionalmente più avanzati e nei nuovi enormi Paesi emergenti a fortissimo tasso di sviluppo economico. Questa debolezza interpretativa dei processi che si stavano vivendo ha finito per portare a contrastare con sempre maggiore debolezza la visione del pensiero unico dominante che considerava la classe operaia nelle società di mercato dirette dal capitalismo finanziario e proiettate a dominare i processi di globalizzazione dei mercati, attraverso la circolazione dei capitali e la amplificazione della rendita speculativa un soggetto residuale e marginale, privo ormai di un suo autonomo profilo culturale e sociale. Una tale tesi prendeva quota dentro i nuovi processi di creazione della ricchezza che, almeno fino alla crisi del 2007, potevano sembrare non più determinati in modo decisivo dalla produzione reale dei beni, conducendo a ritenere che la stessa questione sociale fosse destinata nei Paesi sviluppati a riguardare le condizioni di vita di fasce sempre più marginali della popolazione. La crisi attuale ha oggi mandato in pezzi questa architettura ideologica e sta dimostrando invece come, al contrario, solamente la produzione reale dei beni e dei servizi, il sostegno della domanda reale ed il ruolo dello Stato come soggetto che controlla, regola e incentiva lo sviluppo in ragione di un interesse sociale generale, possono costituire i pilastri di una ripresa economica equilibrata e di una rinascita sociale complessiva . In Italia, in particolare, la ripresa in corso del lavoro manifatturiero sta rappresentando la strada per salvare il Paese dalla crisi profonda in cui potrebbe sprofondare, e per proteggerlo dai ricatti finanziari della UE, autentica marionetta autoritaria nelle mani della Germania. In questo quadro, di cui in molti tornano ad avere consapevolezza, la classe operaia e il mondo del lavoro nel suo complesso, nel momento della emergenza, tornano ad essere, soprattutto nella coscienza sociale del Paese, i soggetti centrali e decisivi nella produzione del valore sociale e nella tenuta del tessuto produttivo della economia reale. Il mondo del Lavoro, che si e’ di fatto nuovamente caricato sulle spalle il compito di salvare l’economia del Paese, sta sempre di più dimostrando al popolo italiano di essere l’unica vera classe dirigente realmente unitaria ed il soggetto decisivo per la salvezza economica del Paese . Questa riaffermazione della centralità del lavoro nei processi di creazione della ricchezza sociale rappresenta la principale conferma della nostra critica del liberismo e del nuovo capitalismo finanziario, di tutti i suoi schemi culturali di riferimento, dei suoi modelli funzionali, delle sue regole di comportamento relazionale tra gli individui e, più in generale, del suo complessivo modello di rapporti sociali e produttivi. Da questa nuova consapevolezza delle ragioni di una critica radicale di sistema, che trova conferma nello sviluppo reale dei rapporti sociali, parte la strada per la ricostruzione di un grande e articolato fronte di classe alternativo, nuovamente radicato nel vivo del corpo sociale del Paese, un fronte Socialista e Comunista , Antimperialista , Patriottico ed Internazionalista , Democratico e Costituzionale. Come suo primo compito, esso deve mostrarsi in grado di orientare il mondo del lavoro nella riappropriazione della piena coscienza della sua soggettività strutturale e politica, su un progetto di trasformazione degli assetti economici e sociali. All’interno di questo nuovo quadro e in presenza di concrete prospettive di azione e di obiettivi nuovamente possibili di trasformazione strutturale del sistema in senso Socialista, è possibile risolvere le divergenze principali che finora hanno diviso e a volte contrapposto le forze della sinistra alternativa: a cominciare dalla interpretazione della reale natura di classe del sistema euro/Maastricht, che resta anticostituzionale e irriformabile, e dalla corretta valutazione del ruolo storico assolto dalla Seconda repubblica e dal suo sistema politico nella distruzione della Costituzione materiale del Paese. Ciò è in sintonia con la condivisione di un nuovo sistema multipolare delle relazioni internazionali, come quadro al cui interno diviene possibile realizzare un equilibrio di pace e cooperazione tra i Popoli e gli Stati.

 

ADRIANA BERNARDESCHI. La ricostruzione di un forte partito comunista è il compito principale che dobbiamo darci, perché senza un partito che organizzi e dia coscienza di sé ai lavoratori, le lotte non potrebbero andare oltre le rivendicazioni immediate, sul piano essenzialmente economico (ecco perché, come affermiamo nelle nostre tesi per la ricostruzione del partito, si devono contrastare le ideologie antimarxiste che parlano di fine del lavoro e della classe operaria e sostengono la fine del socialismo scientifico), e non potrebbero avere respiro rivoluzionario e prospettiva di reale mutamento dei rapporti sociali. Purtroppo, nessunadelleorganizzazionioggi esistenti è autosufficiente nell’assolvimento di tale funzione. Gran parte della sinistra è ormai piegata a una subalternità ideologica e rimane nell’ambito di un tiepido riformismo, mentre i comunisti sono sparpagliati in frammenti di forze politiche nessuna delle quali ha i numeri per ritrovare credibilità per le masse e operare azioni politiche concrete e visibili. A nostro avviso l’unità dei comunisti non può nascere da intergruppi, perché le più ampie organizzazioni che si definiscono comuniste oggi o sono socialdemocratiche o sono, di fatto, autoreferenziali. Riteniamo che per ricostruire il partito si debba partire dal basso, su due binari paralleli. Il primo binario è rappresentato dalle lotte, dal ritrovare radicamento sociale e farsi portavoce dei bisogni inascoltati delle classi subalterne, di tutti gli sfruttati. Si tratta di mettere in comune le risorse e le energie dei diversi “pezzetti” del mondo politico comunista, portando avanti battaglie coordinate e visibili contro le ingiustizie di questo sistema. Il secondo binario è dato dalla teoria: si deve spendere grande impegno in un’opera di formazione ideologica che dia gli strumenti per comprendere e agire, che porti nuovi quadri e nuovi cervelli a cui i vecchi gruppi dirigenti possano passare il testimone. Per portare avanti il radicamento, è opportuno che la “piccola” forza comunista nascente agisca, sulla base del centralismo democratico, in tutti i contesti utili per ricostruire un partito più grande. Il centralismo democratico è un’arma poderosa ma allo stesso tempo richiede una grande formazione dei quadri e una grande capacità di sintesi dei dirigenti affinché non si trasformi nel suo opposto ossia nel centralismo burocratico tendente a creare caste e ceti dirigenti che operano non per valorizzare le differenze, che necessariamente si sviluppano, ma per annichilirle. Nel fare questo, non devono esserci spazi per il settarismo, che ha già ampiamente dimostrato la sua sterilità e ha fatto grandi danni in tutta la sinistra di classe, bensì spirito di collaborazione in modo che possano fondersi tutte le realtà politiche con prospettive convergenti nella direzione della ricostruzione di un partito comunista di massa.Ciò può avvenire se si coinvolgono tutti gli attori di questo progetto in confronti e discussioni costruttive, che fissino una piattaforma ideale comune sul ruolo del partito e sull’analisi socio-economica. Secondo la nostra visione “il partito rivoluzionario dovrà essere un partito di quadri (un intellettuale collettivo) con radicamento e capacità di direzione di massa. I comunisti e le comuniste debbono condividere una visione del mondo marxista e leninista (in Italia gramsciana) e devono essere avanguardie riconosciute del proletariato”. Sarà in primis nei luoghi di lavoro, di studio e poi di vita in generale che i compagni potranno organizzarsi e organizzare, far radicare l’idea di un cambiamento e collegare le lotte che altrimenti sarebbero estemporanee e senza futuro, promuovendo cultura, socialità e forme di mutualismo che anticipano un modello socialista di società. Sul piano della formazione, essa deve essere costante e universale: ciascun militante del partito deve essere potenzialmente un dirigente, ed è particolarmente importante che la formazione ideologica non manchi a chi è di estrazione proletaria e rappresenta “il principale e più solido anello di collegamento tra il partito e la classe”. Chi non ha avuto occasione di sviluppare collettivamente una visione marxista, rivoluzionaria, del mondo sarà inconsapevolmente egemonizzato dall’ideologia dominate. Il marxismo non è un dogma, ma un pensiero scientifico, e come tale si evolve parallelamente al mutare della realtà, ecco perché non si deve mai smettere di formarsi, per poter incidere sul mondo e cambiarlo, compito intrinseco all’essere comunisti. Leavanguardiecosìformate, tuttavia, non devono mai distaccarsi dalle masse, dai loro bisogni e sentimenti, bensì essere dentro i movimenti da protagoniste, per orientarli e indicare loro sbocchi rivoluzionari possibili. Per questo la costruzione di un fronte anticapitalista più ampio del partito che abbia come punto di riferimento un programma egemonico di classe è un passaggio fondamentale.

 

MAURO CASADIO. Come Rete dei Comunisti sosteniamo da tempo, ed in qualche modo confortati dalle dinamiche reali, che un processo di ricostruzione non avviene semplicemente su un piano principalmente politico, ma su un recupero della funzione militante dell’organizzazione comunista e della costruzione di fronti di massa legati direttamente al blocco sociale, ovvero a tutti quei settori che oggi soffrono sempre più le condizioni imposte dalla società capitalista. L’abbiamo definita l’ipotesi dei tre fronti, quello strategico comunista, quello della rappresentanza politica e della rappresentanza sociale/sindacale, che forse non esprimono una immediata sintesi politica, come è nella cultura dei comunisti, ma presuppongono un processo complesso e reale, soprattutto nelle relazioni di massa, che punti ad una ricomposizione strategica. Va detto che gli eventi attuali stanno ricreando le condizioni politiche e materiali per far avanzare questa possibilità.

 

GIORGIO CREMASCHI. Credo che la nostalgia non serva a nulla se non sul piano personale. La costruzione di una forza rilevante di orientamento comunista e socialista, per me vanno assieme oggi, richiede di guardare al futuro più che al passato. Oggi i tanti piccoli partiti comunisti che ci sono in Italia sono divisi dal passato e contendono più su quello che sul futuro. Quindi parliamo di futuro perché il passato é passato. Questo non significa rinunciare alla memoria, ma deve essere una memoria critica, che si chiede perché il Paese con la sinistra comunista più forte dell’occidente sia diventato quello con la più debole e frantumata. Onestamente credo che si debbano trovare nuove vie, perché quelle sin qui seguite non portano a molto.

 

MARCO PONDRELLI. I fronti di lotta aperti su cui lavorare sono molteplici. Il 2020 verrà ricordato per la pandemia ma l’anno è iniziato con un attacco terroristico e criminale degli Stati Uniti contro l’Iran. L’assassinio del generale Soleimani è stato un atto di guerra, come avrebbero reagito a Washington se l’Iran, la Russia o la Cina avessero ucciso Pompeo e rivendicato l’attentato? Il rischio di una guerra oggi è pari a quello vissuto dal mondo con la crisi dell’ottobre ‘62. I comunisti devono continuare a lottare per la pace e per l’uscita dalla Nato, affiancando queste battaglie a quelle sociali, perché esse hanno un nemico comune. La possibilità di costruire politiche sociali redistributive e progressiste passa dalla rottura della gabbia europea, non si può neanche parlare di aumenti salariali, di riduzione dell’orario di lavoro e di nazionalizzazioni dentro questa Europa, che non è riformabile. Così come non è realistica l’ipotesi di un’Unione europea autonoma politicamente e militarmente dagli Stati Uniti, con una propria forza militare. Gli Usa hanno fatto due guerre (tre considerando quella in Ucraina) per impedire che si saldasse un asse fra Russia e Germania, non è credibile che oggi abbandonino il campo in nome dell’american first.

L’Europa è l’anello della catena da tirare, il punto debole dell’avversario perché qui si salda un sentimento popolare di rigetto dell’austerità con pezzi di mondo produttivo ormai strangolati dalle industrie tedesche e francesi. Inoltre un collasso della Ue avrebbe ripercussioni anche sulla Nato: la Francia potrebbe tornare ad una politica autonoma di ispirazione gollista, la Russia potrebbe esercitare una maggiore influenza sul proprio estero vicino, la Germania potrebbe distendere i rapporti con Mosca e si risolverebbe la vicenda ucraina. Chi farebbe un passo avanti e chi un passo indietro in questo scenario? I comunisti sanno che non basta avere buone idee per trionfare, il programma è una bandiera piantata nella testa delle masse, ma se queste non ci sono non possiamo limitarci a organizzare convegni. I nostri referenti sociali oggi sono dispersi, dobbiamo ripartire non da zero ma quasi. Il mondo del lavoro che ha tenuto in piedi l’Italia durante la quarantena lavorando negli ospedali, nei supermercati, consegnando cibo e merce a casa di noi tutti deve riguadagnare centralità politica. Se ripensiamo agli ultimi 30 anni tante sono state le battaglie (dai 3 milioni al Circo Massimo per la difesa dell’art. 18, alle lotte della FIOM contro Marchionne) ma tutte difensive. L’unico tentativo di strappare nuovi diritti fu lo scontro, perso, per le 35 ore.

Se questo è il nostro obiettivo strategico come raggiungerlo? Dobbiamo operare su due piani. Il primo è quello di un’alleanza ampia che parta dalle proposte che ho fatto in conclusione della domanda precedente che sono pienamente ricomprese dentro il dettato costituzionale. Ci sono pezzi del mondo sociale e politico che possono essere nostri alleati in questa battaglia. Anche fra la borghesia, quella che un tempo avremmo definito illuminata, c’è chi soffre la crisi. Artigiani, commercianti, piccole imprese agricole, giovani precari, solo per fare qualche esempio, pagano l’austerità come i lavoratori dipendenti. Lo stesso dicasi quando si parla degli schieramenti politici, anche qui non siamo soli. La base del M5S è, in parte, una base di sinistra critica verso l’Europa, sensibile ad un rapporto migliore con Russia e Cina, favorevole a che l’Italia sia parte della via della seta e fautore delle nazionalizzazioni. Ci sono altri pezzi sparsi del mondo politico che è nostro compito riunire in un fronte patriottico e costituzionale. In Russia Zyuganov scrisse che una parte della borghesia nazionale doveva, sotto la guida del mondo del lavoro, lottare per la difesa dello Stato, esercitando così un ruolo di ostacolo all’egemonia statunitense; una proposta molto simile è quella dei compagni portoghesi che parlano di una politica patriottica di sinistra. Questo è il primo piano della nostra lotta, il secondo è quello della riorganizzazione dei comunisti. I comunisti torneranno a contare quando i lavoratori e le lavoratrici capiranno che affidarsi a loro non è solo fare testimonianza ma affrontare e risolvere problemi concreti. Il merito della migliore tradizione comunista, da Gramsci, a Togliatti, a Secchia è stato quello di trasformare l’assalto al municipio in lotta e proposta politica.

 

MARCO RIZZO. Le difficoltà per i comunisti sono frutto di decenni di politiche sbagliate, rivolte agli interlocutori sbagliati, avendo in testa solo la conservazione delle posizioni già acquisite, che significavano voti, posti e anche collocazioni personali. Per paura di perdere tutto questo si è fatto proprio il contrario, come fa “il poveretto sul cornicione a cui vengono le vertigini”. La strada è quella di capire gli errori e non farli più. Primo, come abbiamo già detto, non rivolgerci a noi stessi, ma al vasto popolo in cui i comunisti devono nuotare come i pesci nell’acqua. Riconosciamo onestamente che questa sinistra odierna messa a contatto coi luoghi popolari e di lavoro è davvero un pesce fuor d’acqua. Secondo, non credere che l’unità di per sé faccia la forza. Anzi diventa più facilmente debolezza se è confusione e non chiarezza. La forza la puoi solo avere dalla coerenza e questa viene inevitabilmente riconosciuta dai riferimenti ai quali ci rivolgiamo. Terzo, parlare col linguaggio dell’interlocutore, del popolo, e non in politichese, di cose che al lavoratore interessano e non di ciò che interessa a noi. Quarto, non scambiare i mezzi per i fini e viceversa.

Il fine non è l’unità dei comunisti, sviluppare l’unione dei comunisti attorno ad un progetto chiaro è semmai un mezzo per avere maggiore consenso tra le masse e farle avvicinare e aderire al partito comunista. Se l’unità ci allontana da questo obiettivo è meglio lasciar perdere. Questo è tutto il contrario di essere minoritari. Significa avere concrete ambizioni e rivolgersi al numero maggiore possibile di lavoratori. Quinto, non essere schizzinosi col nostro interlocutore. Dobbiamo conquistare tutti, i lavoratori dipendenti, ma anche gli autonomi, che stanno soffrendo ancora di più in questo periodo. Ed anche tutto quel popolo di sinistra che ci ha voltato le spalle e che vota M5S o addirittura Lega. Dobbiamo far loro sentire, prima ancora che capire, che siamo diversi, opposti, rispetto alla sinistra che li ha traditi con i salotti buoni. Questo non vuol dire cedere sulle nostre parole ma saperle veicolare in modo da farsi capire. Notiamo obiettivamente che la nostra attività è sempre più apprezzata. L’unico problema è che abbiamo grossi limiti oggettivi (e, per carità, anche soggettivi, ma li stiamo affrontando e superando con grande sacrificio) anche solo nel fare sentire la nostra voce. L’esperienza che fin qui abbiamo fatto ci dà ragione. Il nostro partito cresce nei consensi, tra la gente e anche l’uso delle campagne elettorali per farci conoscere ci rafforza, seppur ancora solo come tendenza, in questa convinzione. Ora si tratta di cambiare passo, di ragionare sempre più in grande.

Alla domanda rispondo quindi: non “sinistra”, non “orientamento comunista”, ma comunista. Punto. Partito comunista, col suo bagaglio per intero, coerente. Altre proposte non hanno portato a nulla, ed oggi la loro proposizione sarebbe davvero solo una inutile farsa.

 

MAURO ALBORESI. Non vi è dubbio che le forze comuniste, le forze ascrivibili alla sinistra di classe, registrano da tempo il proprio progressivo arretramento, la propria crescente marginalità. E’ una situazione che certo si può definire paradossale, se si pensa a quanto positivamente tali forze hanno inciso relativamente alla parte migliore della storia di questo Paese, al fatto che la loro analisi è stata ed è oggi largamente confermata dai fatti. Dire questo tuttavia non basta a spiegare la suddetta situazione. Siamo di fronte ad un processo che viene da lontano, e che rinvia alla sconfitta storica subita dal movimento comunista internazionale, emblematicamente rappresentata dal crollo dell’URSS, alla scelta di autoscioglimento a suo tempo compiuta dal Partito Comunista Italiano e a quanto ne è disceso, ai limiti delle esperienze volte a rilegittimare gli ideali e la presenza organizzata dei comunisti nel nostro Paese, alle esperienze dei governi di centrosinistra ai quali alcune di esse hanno concorso sino al 2008, al processo di progressiva parcellizzazione che ha investito le forze comuniste, della sinistra di classe, etc. Indubbiamente siamo di fronte ad una situazione di grande difficoltà, di irrilevanza politica delle forze comuniste, delle forze ascrivibili alla sinistra di classe, nonostante le politiche affermatesi nel nostro Paese in questi ultimi anni tutte all’insegna della cultura liberista, dell’austerità: politiche alle quali si sono assoggettati il centrodestra ed il centrosinistra, in nome di un pensiero unico che è il risultato più importante tra quelli conseguiti dal capitalismo. Il cui esito fallimentare è comunque sotto gli occhi di tutti: sempre più poveri, insicuri, soli. Come confermato dalle recenti tornate elettorali (europee, nazionali, amministrative), le speranze di cambiamento dei più, anche nel mondo del lavoro, sono state riposte in altri: ad esempio nella Lega e nel Movimento Cinque Stelle, che hanno portato all’affermazione del primo governo Conte. E nonostante anche tali speranze siano risultate largamente disattese, ad oggi, al netto dell’esperienza del secondo governo Conte, si traducono in un crescente consenso alla destra, gettando una pesante ipoteca sul futuro del nostro Paese. Riportare sopra la soglia di visibilità la sinistra di classe e ricostruire un forte partito comunista non è semplice, ma non vi è dubbio che la fase attuale presenti condizioni che possono aiutare in tale direzione e che vanno colte. A fronte della pandemia da coronavirus in essere, della crisi sanitaria che ne è derivata, delle drammatiche ricadute determinatesi sul piano economico e conseguentemente sulle condizioni materiali dei più, siamo di fronte ad una nuova grande questione sociale. Il punto è chi pagherà la crisi. Ciò che serve, anche e soprattutto in questo cambio profondo di fase, è il massimo sforzo in direzione della più ampia unità d’azione delle forzecomuniste, dellasinistradiclasse, attorno ad un progetto capace di rapportarsi alla nuova situazione, ponendo l’accento su una prospettiva anticapitalista. Un progetto che rifiutando la logica di un qualunquistico “ siamo tutti sulla stessa barca”, rifuggendo da qualsiasi ipotesi di unità nazionale, intervenga su alcune questioni centrali (sanità, lavoro, reddito), attorno alle quali organizzare il consenso più ampio possibile. E’ tempo di unità. Come PCI siamo fermamente convinti della necessità di un soggetto capace di tenere assieme la critica agli assetti fondanti del capitalismo, di proporre un’alternativa di sistema, e contemporaneamente di promuovere un’opposizione di classe la più ampia ed unitaria possibile. L’unità dei comunisti entro un fronte della sinistra di classe, politica e sociale, è e resta l’obiettivo del PCI, che in funzione di ciò ha lanciato a più riprese appelli a tutte le forze che non si rassegnano alle condizioni date, consapevoli che oggi più che mai è ciò di cui c’è bisogno.

 

 

4. Quali sono, dal tuo punto di vista, le principali divergenze tra i comunisti in Italia e quali i potenziali e comuni punti di forza?

 

ALESSIO ARENA. In Italia il movimento comunista ha avuto per molti decenni le più solide radici di massa, influendo sul senso comune e sulla cultura degli italiani più che in qualunque altro Paese dell’occidente. Si deve anche e soprattutto a questo il perdurare di una sacca residua di consenso di sinistra radicale persino in questi anni di arretramento e perdita totale di credibilità delle organizzazioni politiche. Si tratta senza dubbio di un potenziale elemento di forza per noi, ma è anche, in qualche misura, un fattore di distrazione: è stato sulla base di questo fattore che qualche gruppo dirigente si è illuso di poter puntare a marginalizzare le altre organizzazioni della nostra area politica per conquistarsi un primato che gli avrebbe dischiuso l’ascesa al consenso di massa. Questa Illusione ha costituito uno dei principali impedimenti soggettivi tanto alla costruzione di un campo largo e organizzato della sinistra di classe, quanto alla ricostruzione di un partito comunista. I fatti si sono incaricati di far evaporare queste velleità, o almeno c’è da sperare che sia così. Non ci si può nascondere, tuttavia, che esistono elementi di debolezza molto più strutturali che non l’ostinata autoreferenzialità di qualche gruppo dirigente e la conseguente tendenza a un certo settarismo delle basi organizzate. Si diceva prima di come, nel nostro tempo, il problema dell’identità comunista assuma una sua particolare incidenza rispetto a quello della ricostruzione del soggetto politico. Ciò avviene in misura crescente su scala internazionale, anche per effetto dell’influenza dell’egemonia esercitata dalle classi dominanti e della forza pervasiva dei loro progetti e delle loro politiche, a cominciare da quelle di integrazione sovranazionale. Un tipico esempio lo abbiamo in Europa, dove proprio l’atteggiamento da seguire nei confronti dell’Unione Europea apre uno dei più profondi elementi di frammentazione tra le forze che si richiamano al comunismo. Altreuropeismo, lotta per l’uscita immediata e unilaterale dall’UE e per l’indicazione della rivoluzione socialista come premessa o unico passaggio possibile per la rottura con la “costruzione europea”: queste sono tre impostazioni radicalmente incompatibili, perché sottintendono una diversa concezione del marxismo, della lotta politica, della funzione d’avanguardia e della lotta contro l’imperialismo, ma anche perché comportano vie radicalmente diverse per dare risposta alle questioni che investono la società nazionale e il suo modello di sviluppo. È appena il caso di sottolineare come tutte e tre queste opzioni siano rappresentate nell’area che in Italia si richiama al comunismo, come è appena il caso di sottolineare quanto forti siano le influenze che vengono esercitate nel nostro Paese da organizzazioni sovranazionali o anche da singole forze politiche nazionali di altri paesi dell’UE. Siamo dunque in presenzadi un serio problema, che investe la teoria (concettualizzazione dell’imperialismo e dell’antimperialismo), la prospettiva strategica, la collocazione internazionale e la concezione dell’organizzazione politica. Lo stesso problema lo ritroviamo, su scala ancora più ampia e con conseguenze persino più profonde, quando a essere presi in considerazione sono elementi come l’analisi dell’attuale configurazione del blocco atlantico, il ruolo e la natura delle potenze emergenti, la natura di classe e le prospettive del sistema cinese. Problemi, questi, che in questa sede è possibilesoloenumerare, machecostituiscono altrettanti, profondissimi elementi di divergenza tra i soggetti che si richiamano al comunismo in Italia, ma anche internazionalmente. Per questa ragione riteniamo che unità d’azione delle sinistre e ricostruzione del partito comunista costituiscano un’inscindibile unità dialettica: l’unità d’azione apre alla definizione di una prassi comune tra soggetti nell’ambito del perseguimento di una comune piattaforma; tale esercizio comune offre uno spazio per costruire la solidarietà militante tra basi organizzate e produce un terreno concreto di sintesi politica; la sintesi politica permette d’individuare in concreto i soggetti più omogenei tra loro e di superare le contraddizioni superabili, aiutando la definizione di una comune concezione dell’identità comunista e di un comune orizzonte strategico; il progresso dell’unità dei comunisti verso la ricostruzione del loro partito cementa l’unità d’azione delle sinistre, rendendo possibile un salto di qualità della lotta di classe su scala nazionale. Tanto la rimozione delle differenze, quanto il loro annullamento in nome della cultura delle “pratiche”, sono vie che portano alla sconfitta. I risultati di entrambe sono sotto gli occhi di tutti da tempo. Le caratteristiche della nostra epoca reclamano una risposta politica capace di delineare un nuovo ordinamento sociale e d’indicare la via per la sua costruzione. Spetta a noi assumerci la responsabilità di aprire la strada per avanzare in concreto, nelle condizioni date, verso la formulazione di quella risposta.

 

ADRIANA BERNARDESCHI. Alcune divergenze, che giudico abbiano un minimo di decenza, spesso riguardano il passato, le provenienze ideologiche, le divisioni tra stalinisti, trotskisti, luxemburghiani, guevaristi, ma anche fra operaisti, spontaneisti, movimentisti e così via. Se hanno un minimo di decenza, non di meno sono dannose e tutti dovremmo avere la capacità di mettercele dietro le spalle e guardare avanti, Purtroppo esistono altre divisioni, di carattere molto meno ideale e molto meno innocente. Si tratta di arroccamenti a nicchie risibili di prestigio e di potere. Se rimanessimo incatenati a simili appartenenze andremmo poco lontano. Serve veramente che nella fucina delle lotte si formino nuovi quadri liberi da questi condizionamenti. Un punto debole di tutti è dato dalle dimensioni ridotte ai minimi termini, che portano ad atteggiamenti diffusi di autoreferenzialità. Ognuna di queste organizzazioni ha prodotto delle esperienze valide in alcuni settori e da qui discende la necessità di conservare quanto di buono è stato fatto in un processo dialettico di superamento di tutte queste piccole organizzazioni. Tale processo di superamento dialettico non può, com’è stato già detto, che partire dal basso cioè dalla condivisione delle lotte teoriche e pratiche. Per pervenire a un’analisi condivisa dei mutamenti intervenuti nella struttura e nella sovrastruttura sociali, per elaborare una strategia in grado di ricomporre il mondo del lavoro frammentato e devastato sia dalle politiche ordoliberiste sia dall’uso capitalistico delle nuove, poderose, tecnologie, secondo noi bisogna partire principalmente dal basso iniziando a lavorare insieme sui punti e sui terreni comuni e a condividere le esperienze. Una teoria comune non è possibile senza una prassi comune.

 

MAURO CASADIO. La crisi degli anni ’90 ha fatto emergere tendenze e punti di vista che probabilmente erano presenti anche prima in modo implicito, ma che non emergevano in un contesto determinato dalla forza che il movimento comunista e quello di liberazione nazionale avevano espresso fino agli anni ’70 e dalla priorità della lotta antimperialista contro gli USA. Non credo che sia possibile fare un “elenco” delle divergenze e dei punti in comune , piuttosto vanno evidenziate alcune visioni teoriche di fondo che hanno prodotto la situazione attuale. Mi riferisco in particolare alla questione dei caratteri del partito. Quando è nata Rifondazione Comunista, 1991, quello che non ci ha convinto era la riproposizione del partito di massa in modo, a nostro vedere, meccanicistico, che non teneva conto del fatto che una modifica radicale della realtà richiedeva anche una altrettanto radicale modifica della forma del partito e della pratica politica. Certamente i punti di unità sono quelli del conflitto sociale ma anche qui c’è il nodo della questione sindacale che, sempre a nostro modo di vedere, non può essere affrontata con la logica del lavoro politico dentro le organizzazioni di massa e da noi nella CGIL in particolare. Anche qui, per una modifica radicale delle condizioni vigenti, non si può non considerare cambiamenti forti anche nel lavoro di massa.

 

GIORGIO CREMASCHI. Credo di avere già risposto, ma aggiungo due considerazioni. La prima che mi pare significativo che tutti gli interlocutori di queste domande siano maschi. Io penso che il femminismo debba essere costituente di un punto di vista comunista, anche per i maschi intendo. Quindi abbiamo un problema se parliamo solo tra noi. In secondo luogo, per entrare su un terreno prettamente politico, credo si debbano capire le ragioni del fallimento di Rifondazione Comunista. Che nel 1996 aveva quasi il 9% e quasi 4 milioni di voti.

Allora quasi tutti i dirigenti delle attuali formazioni comuniste erano nello stesso partito, RC. Cosa ha portato alla frantumazione attuale e perché? Forse un poco di autocritica da parte di tutti i gruppi dirigenti e la disponibilità a mettersi in discussione servirebbero. I punti di forza sono in realtà uno : la generosità e la passione di militanti che non si sono arresi. Cosa molto importante in un Paese devastato anche moralmente da trent’anni di individualismo e liberal capitalismo. Oggi essere comunisti, al di là delle appartenenze di partito è una scelta politica e morale che trova di nuovo considerazione, anche per le devastazioni della pandemia e le ingiustizie che ha fatto emergere. Ci sono tante e tanti comunisti che non fanno parte di nessuna organizzazione, anzi forse sono la maggioranza rispetto a coloro che stanno in formazioni politiche. Quindi c’è un popolo comunista da ricostruire e questa sfida è in fondo anche il punto di forza da cui partire.

(Comprendiamo e condividiamo la preoccupazione di Giorgio Cremaschi. Gli facciamo comunque presente che tra i partecipanti a questo Forum figura Adriana Bernardeschi, che abbiamo interpellato in quanto coordinatrice de La Città Futura. Quanto agli altri interlocutori, effettivamente tutti maschi, sono anch’essi interpellati in quanto segretari e/o coordinatori e/o responsabili di soggetti politici, associazioni, siti ecc.)

 

MARCO PONDRELLI. Come detto la questione comunista deve essere il secondo piano della nostra azione. Le divergenze fra le forze comuniste in Italia sono figlie sia di limiti e condizioni contingenti che di problemi ereditati dal passato. Per quanto riguarda le prime è doloroso constatare che dal 2008 gli scontri, le scissioni ed il settarismo sono cresciuti in modo inversamente proporzionale ai nostri consensi. Spesso neanche a chi si scontra e litiga è chiaro il perché, figurarsi a chi sta fuori dalle nostre sedi. Questa tendenza allo scontro probabilmente è iniziata prima del disastro elettorale del 2008, è iniziata quando il centralismo democratico è divenuto la ricerca del 51%. Pensiamo a Bertinotti che si teorizzò come segretario non di sintesi (un ossimoro). In realtà il centralismo democratico è prima di tutto ricerca della sintesi fra posizioni diverse, non la sopraffazione di una sulle altre a colpi di maggioranza. La storia migliore del movimento comunista è storia di grandi dibattiti nel tentativo di trovare un punto d’incontro fra le varie posizioni, oggi mi sembra che fra i comunisti al dialogo si siano sostituite le scomuniche. Purtroppo le divergenze non sono legate solo agli ultimi anni ma sono frutto anche della nostra storia. Quando nel ‘91 nacque Rifondazione il dibattito evitò accuratamente di affrontare alcuni nodi, non abbiamo mai riflettuto su cosa è stato l’89, sul perché l’Unione Sovietica è crollata ed ancora su cosa doveva essere per noi il socialismo nel XXI secolo? Sono le stesse domande che si sono posti altri partiti comunisti a partire da quello cinese. In Cina hanno dato delle risposte, che non intendono essere valide per chiunque ma su cui si sarebbe dovuta aprire una riflessione anziché demonizzare quell’esperienza. Purtroppo questo dibattito non è mai stato aperto, questo è il motivo per cui le scissioni e le spaccature non sono mai state frutto di visioni strategiche differenti ma di posizionamento contingente (governo sì governo no, alleanza sì alleanza no). Anche il tema europeo non è mai stato affrontato in modo critico. Le prime analisi che nel ‘91 vennero elaborate riuscirono a mettere bene a fuoco i costi che il movimento operaio avrebbe pagato con l’integrazione europea, purtroppo non si è riusciti ad andare oltre. Il PRC sosteneva il primo Governo Prodi quando l’Italia votò una finanziaria lacrime e sangue per entrare nell’euro, da allora ci si è limitati ad un generico appello all’Europa dei popoli contrapposta a quella dei capitali. Se i comunisti vogliono tornare ad avere un ruolo in questo Paese devono, come ho già detto, mettere al centro della loro azione l’uscita dall’euro e dall’Unione europea costruendo un fronte patriottico costituzionale che oggi è l’acqua in cui nuotare. Al centro dobbiamo mettere un programma con alcune parole chiare e nette: nazionalizzazioni, salari, diritti, pace.

 

MARCO RIZZO. La galassia dei partiti che si definiscono comunisti in Italia è molto variegata. Anche perché si estende anche al di là rispetto alle forze che si definiscono comuniste, se includiamo anche le tante forze e gruppi antiliberisti. Possiamo dire che abbiamo costruito una struttura solida dal punto di vista organizzativo, che si sa mobilitare tutta insieme. Questo per noi è una conquista alla quale non rinunceremo mai. Basta coi caravan serraglio in cui per decidere una cosa ci volevano interminabili riunioni. Noi siamo coesi non per imposizione superiore, ma perché abbiamo affinato una condivisa visione delle cose. Se poi passiamo all’ideologia… sarebbe scortese che io parlassi di cosa succede in casa d’altri. Mi limito a dire che anche qui nel nostro partito l’ideologia è una sola, il riferimento storico al movimento Comunista internazionale e all’esperienza Sovietica dal 1917 al 1953 per esser chiari. E ciò elimina tanti problemi presenti e futuri. Le divergenze su questi temi fondamentali quindi le abbiamo tutte buttate fuori e questo ci fa andare avanti speditamente, non vorremmo mai dovercele ricaricare dentro. Il confronto con le altre forze lo abbiamo anche cercato, ma senza successo. Per esempio in occasione della manifestazione del 5 ottobre abbiamo interloquito con altre forze per una grande manifestazione contro il nuovo governo Conte, proprio perché i comunisti dovevano mettere le mani avanti contro un governo giallo-“rosso”dicendo che di rosso non ha nulla e non restare invischiati in un equivoco che avrebbe indebolito noi e tutta la nostra politica. Le risposte che abbiamo avuto, alla fine dei conti, sono state negative. E ciò non perché avevamo “prenotato” la piazza, avremmo potuto modificare come e quando si voleva. Ma perché il pregiudizio di confrontarsi sui temi reali e non sulle sommatorie forse non l’abbiamo noi. Ora per il 2 Giugno stiamo preparando una mobilitazione nazionale contro il governo e per rimarcare la rabbia dei lavoratori e del popolo abbandonati a sé stessi. Vedremo. Anche per quanto riguarda le campagne elettorali, abbiamo sempre lanciato interlocuzioni, ma con un chiaro paletto: mai né col PD e i suoi alleati, né ora né mai più, né qui né altrove. Poi tutto il resto, simbolo, candidati. Certo, noi alla falce e martello e stella non rinunciamo, sia chiaro. Risposte: sì, no, ma, vedremo … perdite di tempo e alla fine siamo andati da soli. Sarei tentato di dire che il tempo è scaduto, vedremo..

Sarei anche tentato di dire che oggi debbano essere gli altri a giustificare la loro presenza, ma non davanti a noi, noi non chiediamo il certificato di esistenza in vita a nessuno, contrariamente a quello che è stato fatto per anni con noi. Siamo sempre pronti a discutere con qualunque forza voglia confrontarsi con noi, ma con una rotta molto chiara: l’unione dei comunisti la si fa nella casa che porta quel nome, quel simbolo, quel progetto: il Partito Comunista.

 

MAURO ALBORESI. La frammentazione delle forze comuniste presenti in Italia, la loro complessiva debolezza e la sostanziale scarsa rilevanza politica che da ciò deriva rappresentano un dato oggettivo, con il quale queste stesse sono chiamate a misurarsi. Alla base di ciò, come già sottolineato, vi è un processo che viene da lontano. Siamo di fronte ad una situazione che, nel nostro Paese, evidenzia differenze di natura teorico-politica e programmatica, tra le diverse soggettività comuniste. Alcune tra esse discendono dalla storia del movimento comunista internazionale e dalle sue articolazioni: sono quindi espressione dei diversi giudizi che su tale storia vengono dati, aggiornati anche in relazione all’odierna possibile prospettiva. Altre discendono da giudizi concernenti ciò che è oggi presente sullo scenario internazionale: a partire dall’esperienza della Cina e degli altri Paesi che dichiaratamente si misurano con la sfida dell’alternativa al capitalismo, della costruzione del socialismo. Altre derivano da considerazioni che attengono alla storia dei comunisti in Italia, essenzialmente del PCI, a ciò che l’ha caratterizzata prima e soprattutto dopo l’affermazione della Repubblica, alle scelte di carattere strategico che ne sono discese e alla loro proiezione sull’attualità. Altre ancora riguardano, come già ricordato, il giudizio circa il processo di Unione Europea affermatosi, il come misurarvisi, quali conseguenze trarne.

Tali differenze, al di là del possibile giudizio di merito che se ne può dare, sono alla base delle diverse soggettività dichiaratamente comuniste in campo. Si tratta di differenze che non hanno uguale valore e uguale peso; e che, comunque, non possono essere affrontate e superate in un giorno, con piroette tattiche o aggiustamenti organizzativi di corto respiro. Sarebbe in ogni caso auspicabile, per un verso, sottrarre il giudizio sul passato (remoto o recente) alle polemiche della quotidianità politica, consegnandolo a sedi di riflessione storica adeguate; e, per altro verso, mantenere costantemente l’attenzione rivolta al futuro, a maggior ragione all’immediato futuro, in vista del quale nuove soggettività, nuove forze sociali possono palesarsi a modificare in meglio le prospettive della lotta di classe, facendo d’un colpo piazza pulita di vecchie ruggini, vecchie divisioni. I potenziali e comuni punti di forza sono rappresentati innanzitutto da una lettura largamente coincidente della fase critica, oltremodo complessa e aperta a molteplici sbocchi, che ha da tempo investito il nostro Paese e che la pandemia da coronavirus in atto amplifica a dismisura. Tale analisi, per molti essenziali aspetti comune, rende più acuta la percezione della comune debolezza e, per contrasto, della necessità di dover tendere ad un’unità ampia per farvi fronte. In altre parole l’insieme delle forze comuniste in Italia è investito da una situazione emergenziale che ne evidenzia tutta la debolezza ma, d’altra parte, ne costituisce l’occasione di rilancio. Conseguentemente, teniamo ferme le ragioni che hanno condotto il Pci alla propria scelta di carattere organizzativo e lo hanno portato a dare vita al progetto di ricostruzione del partito comunista: un progetto tutt’altro che concluso, una sorta di cantiere aperto che pone al centro la questione dell’unità dei comunisti entro il fronte della sinistra di classe. Come ripetutamente sottolineato, ciò che a nostro parere è oggi alla nostra portata e che al contempo può servire per recuperare sul terreno della frammentazione delle forze comuniste, è la promozione della massima unità d’azione attorno ad un progetto di lotta condiviso. Ai problemi che investono i comunisti in Italia non si risponde con scorciatoie di carattere organizzativo, ma con un paziente lavoro di ricomposizione dei soggetti sociali, a partire anche dalla composizione di una comune cultura politica.

 

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