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roars

Scuola e lavoro: l’uomo filosofo e il gorilla ammaestrato

di Anna Angelucci

Gorilla ammaestratoMi convince molto l’affermazione con cui Roberto Ciccarelli, autore di Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, apre le sue riflessioni: “Siamo tutti in alternanza scuola lavoro. Non solo il milio­ne e mezzo di studenti delle scuole superiori obbligati a partecipare a un nuovo esperimento sociale, il più grande nella storia della scuo­la italiana”[1].

Siamo tutti in alternanza scuola lavoro: perché è altissima la percentuale di giovani e meno giovani, in Italia – diplomati, laureati, specializzati – che vivono in una condizione di precarietà professionale, che svolgono attività sottodimensionate rispetto alle proprie qualifiche e titoli di studio; lavori spesso occasionali o su richiesta, quasi sempre sottopagati e non di rado non remunerati, soprattutto quando si tratta di lavoro intellettuale, con rapporti a brevissimo termine (3 mesi la media), privi di tutele contrattuali nel presente e di prospettive di prosieguo nel futuro. E che nell’alternanza tra un lavoretto e un altro (un Mc Job e un Bullish Job, come efficacemente vengono definiti oggi lavori dequalificati o del tutto inconsistenti) continuano a collezionare esperienze formative potenzialmente spendibili nel mercato del lavoro: nella neolingua contemporanea si chiama ‘lifelong learning’, società dell’apprendimento costante, ma è una specie di giostra impazzita dell’accreditamento costante da cui non si può mai scendere.

Un milione e mezzo di studenti coinvolti in un massiccio esperimento sociale, davvero il più grande nella scuola italiana, di cui si possono mettere a fuoco i contorni e le implicazioni – in termini di cause e effetti – soltanto ampliando il contesto storico, economico, antropologico in cui si colloca questa gigantesca operazione biopolitica (per dirla con Foucault) o psicopolitica (per usare le parole del filosofo coreano Byung-Chul Han) di formazione dell’homo oeconomicus fin dai banchi di scuola, del soggetto auto-imprenditore, del battitore senza reti di protezione in competizione anche con se stesso, dell’essere umano come unità produttiva, dell’individuo, bambino e adolescente, configurato, psichicamente prima che professionalmente, come un’autopoietica start up.

In un regime di pseudo libertà in cui sembra non ci sia data altra possibilità che agire come prodotto di mercato, nel mercato, sul mercato, per il mercato.

Viviamo in un’era che il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, osservando i cambiamenti climatici in atto, ha definito ‘Antropocene’, e, meglio ancora, lo storico dell’ambiente e docente di economia politica Jason Moore ‘Capitalocene’[2]: un’epoca in cui secoli di dominio della razionalità capitalistica legata allo sfruttamento delle risorse umane  e naturali e finalizzata al profitto hanno prodotto effetti devastanti. Un’era biologica caratterizzata da fenomeni di antropizzazione di tale portata da rendere l’attività umana il principale fattore di trasformazione della biosfera, più di qualunque evento esterno. Il cambiamento climatico, il riscaldamento delle temperature, lo scioglimento dei ghiacciai, la deforestazione, la desertificazione, l’aumento demografico della popolazione, l’uso sempre più spinto dei combustibili fossili e delle tecniche sempre più distruttive per la loro estrazione, l’urbanizzazione incontrollata e la cementificazione del territorio, la produzione sterminata di rifiuti plastici: sono tutti processi in corso, politicamente determinati da scelte precise con responsabilità precise, testimoniabili nella storia attraverso macrofenomeni come l’organizzazione delle società e delle istituzioni politiche e i cambiamenti nel mondo del lavoro e nei modi di produzione, in cui sfruttamento, produzione e estrazione di valore emergono diacronicamente dall’articolazione variabile tra capitale, potere e ambiente.

Basterebbero solo questi pochi cenni per affermare il carattere predatorio del sistema capitalistico, che esercita da secoli il suo dominio attraverso processi di mercificazione, reificazione, disciplinamento, controllo, e che oggi, con la finanziarizzazione dell’economia su scala globale[3], oltre ad accumulare denaro attraverso una produzione illimitata di merci che sta distruggendo il pianeta e chi lo abita, usa il denaro per produrre altro denaro con profitti ancor più elevati e conseguenze altrettanto devastanti in termini di disuguaglianza economica: secondo Oxfam International (gennaio 2014), solo 85 persone in tutto il mondo possiedono una ricchezza aggregata pari a quella posseduta dalla metà delle persone più povere nel mondo[4]; Thomas Piketty, autore del celebre Il Capitale nel XXI secolo, mostra che la disuguaglianza in molti Paesi sviluppati ed emergenti sta ormai raggiungendo i livelli registrati negli anni precedenti la prima guerra mondiale[5].

In questo contesto distruttivo e autodistruttivo, che Luciano Gallino non ha esitato a definire ’patologico’, in questo irresponsabile saccheggio del pianeta in nome del feticcio della crescita e dello sviluppo che testimonia che “il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità”[6], la quarta rivoluzione industriale esige il suo nuovo ciclo di espansione economica in cui alla spinta propulsiva al consumo inarrestabile di prodotti tecnologici si accompagna l’intensificazione dei servizi digitalizzati e personalizzati alle aziende e al cliente.

Nei fertili pascoli della new economy, il capitalismo, che per secoli si è esercitato sui corpi, scopre ora la psiche, scopre la possibilità di produrre, commercializzare e sfruttare oggetti immateriali e incorporei, come informazioni, conoscenze, linguaggi, comportamenti, stati emotivi, trasformabili in dati e metadati: “E’ finito il tempo di qualsiasi teoria sul comportamento umano, dalla linguistica alla sociologia. Dimenticatevi la tassonomia, l’ontologia, la psicologia. Chi sa per quale motivo la gente fa quello che fa? Il punto è che è così, e noi possiamo registrarlo e misurarlo con una precisione senza precedenti. Con una quantità sufficiente di dati, i numeri parlano da soli”, scrive Chris Anderson in un articolo significativamente intitolato “La fine della teoria”[7]. Trasformare la conoscenza in dati e metadati produttivi: è il cuore del cosiddetto ‘capitalismo cognitivo’, in cui il plusvalore non è più collegato alla merce e al lavoro che l’ha prodotta ma è molecolarmente individuato ed estratto da tutto il ciclo di vita degli esseri umani; è l’intera vita stessa dei singoli che costituisce la nuova forza lavoro, che viene messa economicamente ‘a valore’ senza più distinzioni tra tempo del lavoro e tempo altro, determinando una quota di capitale intangibile che sembra aver superato la quota di capitale materiale ed è divenuta il fattore principale della crescita economica, dunque cruciale.

Nell’economia della conoscenza, l’umano è capitale umano perché, attraverso algoritmi e piattaforme che costantemente ci profilano e ci controllano, garantisce un’accumulazione di profitto a un manipolo di imprese private multinazionali, il cui indiscusso oligopolio è saldamente presidiato dalle istituzioni politiche statuali e sovranazionali, come testimonia l’efficientissimo gioco delle revolving doors, le porte girevoli[8].

Allora, in una fase in cui il lavoro produttivo immateriale e intangibile diviene centrale, in cui non solo la conoscenza è divenuta merce ma l’individuo stesso è sussunto, nella logica estrattivista del capitale, come prosumer (produttore-consumatore), potevano scuola, università e ricerca pubblica – nella loro duplice dimensione di luoghi di produzione e trasmissione della conoscenza ma anche di formazione di modi di essere nel mondo, di esperienza di modi di vita – restare immuni da questo ulteriore processo di espropriazione? L’individuo contemporaneo, capitale umano e capitalista umano, soggetto proattivo, imprenditore di sé, elemento fisso della produzione (al pari di impianti, macchinari, capannoni, uffici) ma dotato di capacità produttive costantemente autoindotte e spontaneamente elargite in una condizione di servitù volontaria al mercato, si deve formare sui banchi di scuola.

Scuola e lavoro si sovrappongono non perché sommano due diritti costituzionali (il diritto allo studio e il diritto al lavoro) potenziandosi l’un l’altro nel rispetto dei tempi e dei percorsi, ma perché riducono gli spazi della formazione critica e la cancellano in nome delle esigenze attuali del capitale, che esercita la sua pedagogia direttamente in classe. Come altro si può leggere la contrazione delle materie umanistiche fino alla scomparsa della storia dai programmi e dagli esami dei nostri studenti se non in un’ottica di azzeramento della possibilità soggettiva, storica e simbolica, di comprendere passato, presente e futuro, e dunque di creare se stessi in uno spazio realmente libero? Come altro si può leggere la coazione al digitale – divenuto, da semplice strumento, il principale obiettivo dell’apprendimento, il suo contenuto esclusivo – se non come coazione a un cambiamento mentale[9] funzionale ai nuovi modelli organizzativi e produttivi dell’impresa, in un mercato globale totalmente focalizzato sulle nuove tecnologie?

La scuola, organizzata come un’impresa dalla legge 107 e prima ancora dall’autonomia di Berlinguer, deve funzionare come un’impresa e deve produrre cultura d’impresa assumendone e trasmettendone i valori (competizione, utilitarismo, individualismo, sfruttamento), ma soprattutto creandone la forma mentis. Alla scuola come dispositivo selettivo di riproduzione sociale conforme ai valori della classe dominante, contro cui si è combattuto in nome di un’istruzione democratica, si contrappone oggi la scuola come dispositivo capillare di produzione dei principi della razionalità d’impresa nel regime concorrenziale del libero mercato.

Il paradigma su cui si saldano le esigenze capitalistiche di una scuola che non forma al lavoro ma che è conforme alle modalità del lavoro nella società contemporanea è quello delle competenze, veicolate attraverso l’alternanza scuola lavoro e l’intera attività didattica. I pedagogisti e gli economisti che, insieme, hanno egemonizzato oggi il discorso su scuola e università ci ripetono che le competenze sono strettamente collegate alle conoscenze: niente di più falso, la didattica per competenze non è pluridisciplinare bensì antidisciplinare. E’ un significante vuoto, epistemologicamente infondato, privo di qualunque riferimento scientifico, profondamente anticulturale. I contenuti disciplinari diventano superflui perché le competenze sono esecutive, si muovono su un pragmatico piano di realtà che struttura modi di essere, veicolano abilità modellate sulle richieste del mercato. Flessibilità, multitasking, integrazione organizzativa, spirito d’imprenditorialità, problem solving: queste le parole d’ordine  della nuova pedagogia che educa allo ‘spirito d’iniziativa’, al successo, all’occupabilità, fin da piccolissimi[10]. La Fondazione Agnelli nel suo libro intitolato “Le competenze”, è ancora più esplicita: “Se nel lavoro la competenza è un job requirement, nel campo educativo è un life requirement”[11], un requisito per la vita, un modo di essere: è questo il vero obiettivo del processo di colonizzazione capitalistica dei sistemi educativi in atto. Le competenze dell’individuo-studente sono le soft skills trasversali richieste da un mercato del lavoro destrutturato, decostituzionalizzato, decontrattualizzato, che nulla hanno a che fare con “la dura fatica del concetto”, con lo studio, con la formazione del pensiero in quanto capacità di mettere in relazione, universalizzare e comprendere e né costituiscono padronanza di una professionalità reale, di un ‘saper fare’ bene un mestiere, imparato nel tempo, con lo studio e con l’esperienza. Non è un caso se nella ricerca svolta da ManpowerGroup in collaborazione con l’Università di Firenze nel 2014[12], la capacità denominata sense-making sta esattamente all’ultimo posto.

Le competenze sono la nuova unità di misura della produttività dello studente-lavoratore-autoimprenditore, ovvero del suo plusvalore, fin dai banchi di scuola. L’alternanza scuola lavoro trasforma la scuola in un apprendistato al capitalismo umano attraverso esperienze lavorative o pseudo-lavorative occasionali, impersonali, contingenti, dequalificanti, destrutturanti, funzionali alla percezione dello studente come individuo senza qualità, come soggetto al dovere di produzione della “terna ottundente impresa-internet-inglese”[13] e all’introiezione di un ruolo sempre più organico al processo di produzione-accumulazione nelle nuove condizioni di sfruttamento di una forza lavoro meccanizzata e digitalizzata che si manifesta attraverso queste nuove forme di addomesticamento, il cui obiettivo è governare un uomo la cui soggettività sia sussunta nell’attività pulviscolare che occasionalmente, e precariamente, svolge.

Siamo oltre il gorilla ammaestrato immaginato in epoca fordista, su cui Gramsci riflette in carcere nei suoi Quaderni[14]. Siamo al gorilla tout court: siamo al soggetto evolutivamente regredito che produce autonomamente i comportamenti conformi alle esigenze del sistema, avendo assunto la razionalità neoliberale come tratto fenotipico della personalità. La scuola-lavoro, con i suoi correlati di competenze e tecnologie digitali, non è altro che questo: nessuna reale formazione professionale, solo un grande esperimento sociale di educazione al lavoro e ad una nuova, naturalizzata, ‘condizione umana’.

Per Gramsci ogni uomo è un filosofo semplicemente perché pensa, e la scuola che lui aveva in mente 100 anni fa era una scuola libera e disinteressata: “una scuola umanistica, come la intendevano gli antichi e i più recenti uomini del Rinascimento. Una scuola che non ipotechi l’avvenire del fanciullo e costringa la sua volontà, la sua intelligenza, la sua coscienza in formazione a muoversi entro un binario a stazione prefissata. Una scuola di libertà e di libera iniziativa e non una scuola di schiavitù e di meccanicità. Non una incubatrice di piccoli mostri aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla mano ferma.”[15] Una scuola che garantisca, soprattutto alle classi sociali più basse, attraverso la possibilità di accedere alla cultura nel suo divenire storico, la possibilità dell’emancipazione dal folclore, dal senso comune, oggi diremmo dal pregiudizio, dalla falsa informazione, dagli stereotipi di cui è intrisa un’opinione pubblica prigioniera della propria ignoranza; una scuola che garantisca la formazione di persone capaci di pensare, di studiare, di dirigere, o di controllare chi dirige” poiché “ogni ‘cittadino’ può diventare ‘governante”.[16]

Ma la riflessione di Gramsci, un cervello cui con 20 anni di carcere i fascisti tentarono inutilmente di impedire di pensare, presupponeva paradossalmente una possibilità di libertà che oggi a noi (docenti e studenti) sembra impedita da una condizione di paralisi psicologica, direi pre-politica, che inibisce a priori l’indignazione, la reazione, l’azione, l’impegno o che vanifica la nostra comprensione dello stato di cose presenti, se non diventa opposizione allo stato di cose presenti.

Ripoliticizzare la nostra condizione umana è più urgente che mai. Riassumere l’impegno della comprensione dell’esperienza personale e sociale, attraverso lo studio, l’analisi, la riflessione ma anche il “sentire” gli accadimenti, come suggerisce Gramsci, è più urgente che mai. Non è appunto questa la parte più originale, e scandalosa, del pensiero di Gramsci? Non ragiona forse Gramsci esattamente intorno a questo problema, cioè a come costruire l’egemonia mentre ancora perdura il potere dell’avversario?”[17]

Criticare allora, insieme, il grande racconto del potere. Ricondividere con gli studenti un’idea ‘umana’ dell’educazione che ci sottragga alle ipoteche disumane del pensiero economicista e utilitarista e al suo mortifero orizzonte normativo. Rimettere al centro del discorso una soggettività ribelle alla narrazione dominante, disobbediente, diffidente verso gli stilemi della neolingua che spaccia per ‘buona’ la scuola peggiore di sempre o che chiama ‘sfide’ le forme attuali di sopravvivenza; una soggettività che parli le parole della socialità, del rispetto della natura e dell’uomo, della cultura, del riconoscimento dell’altro, della giustizia, della dignità dello studio e del lavoro, dell’uguaglianza, della condivisione, dell’inclusione, dell’empatia.           Ripraticare il dialogo critico senza aver paura del conflitto, esercitare un pensiero divergente, dire ‘no’ insieme ai nostri studenti: perché, come scrive Christian Marazzi, “la mancanza di lotte opacizza anche la possibilità di sviluppare dei sentieri di crescita che siano capaci di creare società”.[18]Non è con la scuola, ma è nella scuola che ci si oppone a un potere che ci annichilisce; che ci si oppone a ciò che il potere ci costringe ad essere. Perché se è vero che la scuola è “l’istituzione più vicina al compito essenziale di formare esseri all’altezza della propria umanità[19] allora è solo nella scuola che può e deve nascere la reazione che ci conduca oltre questa condizione di subalternità. Non è impossibile: occorre solo il recupero di una conoscenza critica che si faccia – gramscianamente – prassi.


Note
[1]  R. Ciccarelli, Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, Manifestolibri, 2018
[2]  J.W. Moore, Antropocene o capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Ombre Corte, 2017
[3]   L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, 2011
[4]  Oxfam Italia, Il boom delle disuguaglianze, 29/10/2014
(https://www.oxfamitalia.org/il-boom-delle-disuguaglianze)
[5] D. Ruggiero (a cura di), Disuguaglianza economica: numeri, cause e conseguenze, LtEconomy, maggio 2015
(http://www.lteconomy.it/it/articoli-it/articoli/disuguaglianza-economica-numeri-cause-e-conseguenze)
[6]  M. Fisher, Realismo capitalista, NERO, 2018, pag. 54
[7]  C. Anderson, The end of theory. The data deluge makes the scientific method obsolete, Wired, 23 giugno 2008
[8]  Limitandoci a pochissimi esempi solo nel campo dell’istruzione che qui ci interessa, se in Gran Bretagna non ci sono stati problemi per sir Michael Baber, già consigliere capo del segretario di Stato per l’istruzione con Tony Blair poi CEO di Pearson, leader mondiale nell’editoria scolastica e nei servizi per l’educazione, in Italia le porte girevoli hanno funzionato almeno per due presidenti Invalsi, Piero Cipollone e Paolo Sestito, prima e dopo dirigenti della Banca Mondiale l’uno, della Banca d’Italia e dell’Ocse l’altro, coautori di un volume intitolato, neanche a dirlo, Il capitale umano; per la ministra Stefania Giannini, da Scelta Civica al Partito Democratico, ieri al MIUR oggi all’ONU come vice direttrice dell’istruzione nell’Unesco; per Valeria Fedeli, già dirigente della CGIL, poi senatrice del PD, poi ministra dell’istruzione, oggi membro del consiglio di amministrazione nella Fondazione Agnelli, think tank privato sulle politiche dell’educazione, di stampo marcatamente neoliberista.
[9] S. Greenfield, Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli, Fioriti Editore, 2016
[10]  R. Latempa,  Sperimentazione INVALSI-VIPS sui bambini dell’asilo, ROARS, agosto 2018 (https://www.roars.it/online/sperimentazione-invalsi-vips-sui-bambini-dellasilo-radio-popolare-intervista-r-latempa)
[11]  L. Benadusi, S. Molina (a c.di), Le competenze, Fondazione Agnelli, Il Mulino, 2018, pag. 37
[12]   Soft skills for Talent, in LinC, Lavori in corso, n.2, anno VII, giugno 2014, pp.4-5
[13]   L. Gallino, op. cit., pag. 321
[14]  A. Gramsci, Quaderni dal carcere, 22, §12, Einaudi, 1975, vol. III, pag. 2171
[15]  A. Gramsci, Uomini o macchine?, Avanti, 24/12/1916
[16]  A. Gramsci, Quaderni dal carcere, op. cit., pag. 1547
[17] R. Mordenti, Homo faber. Per un’antropologia filosofica gramsciana, in Centro Gramsci (a cura di), L’educazione gramsciana, Edizioni Nuova Cultura, Teramo 2008, pag. 2 (http://www.gramscitalia.it/html/mordenti.pdf)
[18] C. Marazzi, La nemesi storica del capitale, Inchiesta, 16 settembre 2014
(http://www.inchiestaonline.it/economia/christian-marazzi-la-nemesi-storica-del-capitale-2)
[19] M. Revelli, Prefazione, in G. Benedetti, D. Coccoli, Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, L’asino d’oro Edizioni, 2018, pag. XI

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Mario Galati
Sunday, 02 December 2018 18:32
Errata corrige: come noto rileggendo, humanitas con l'acca, naturalmente.
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Mario Galati
Thursday, 29 November 2018 11:44
D’accordo sull’azione soggettiva di contrasto alla logicaca pitalistica nella scuola da parte di insegnanti e studenti all’interno della comunità scolastica. Ma l’impostazione da”Attimo fuggente” all’interno della scuola alla fine si riduce a romanticheria impotente.
Concordo con Eros Barone.
Rilevo che in Gramsci il concetto di egemonia include il consenso e la coercizione. Questo aspetto è spesso eluso e si traduce Gramsci in un semplice critico culturalista.
Inoltre, la pedagogia e la visione della scuola di Gramsci non si limitano all’affermazione dei principi progressisti di sapere critico e di formazione critica del cittadino. Su questo piano non saremmo oltre una semplice visione liberale avanzata e, tutto sommato, priva di contenuto.
Non semplicemente ad una scuola libera e disinteressata in sé (sicuramente, questo si, non funzionale al sistema capitalistico, storicamente da superare) pensava Gramsci. E quando pensava alla scuola che forma dirigenti e non diretti, pensava al socialismo. Certamente, Gramsci, in un quadro sociale borghese, era per una scuola progressista nella formazione di cittadini liberi, ma il suo pensiero andava oltre, rivolto al socialismo.
La scuola prefigurata da Gramsci è fondata sul lavoro, inteso come prassi umana attraverso la quale si attua la produzione e riproduzione sociale, e sulla coscienza storica del processo sociale. Cioè, una scuola portatrice di una nuova visione e concezione del mondo, di un nuovo umanesimo integrale. Questo nuovo umanesimo non si risolve semplicemente nella formazione del cittadino critico, ma nella coscienza storica del produttore. Si tratterebbe di superare la cultura idealistica verso una cultura storico-materialistica fondata sulla prassi-lavoro.
Questo cambiamento, il passaggio al nuovo umanesimo, potrà avvenire solo se introdotto e favorito da forze sociali portatrici di questa nuova visione. Perciò presuppone un mutamento nei rapporti di forza tra le classi e un mutamento sociale complessivo.
Ma se nell’articolo viene svalutata la concezione del lavoro come fondamento dell’umanitas stessa e si ricorre al concetto di estrazione, o di creazione, del valore dai semplici dati e informazioni lasciati su internet (dietro c’è il presupposto che navigare liberamente su internet lasciando informazioni sia un “lavoro”, gratuito, in senso proprio. Si utilizza questa finzione perché si è abbandonata la distinzione marxiana tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo e così non si riesce a spiegare l’enorme massa di profitti dei giganti del web); se si esce così dall’ottica marxiana entro cui si muoveva Gramsci e si abbraccia l’ottica cognitaria, l’ottica biopolitica, del capitalismo che prima si occupava dei corpi ed ora si occupa della psiche, ecc., l’ottica eclettica segnalata da Eros Barone, possiamo davvero fare controegemonia in linea col pensiero gramsciano?
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Eros Barone
Tuesday, 27 November 2018 23:56
“Non è appunto questa la parte più originale, e scandalosa, del pensiero di Gramsci? Non ragiona forse Gramsci esattamente intorno a questo problema, cioè a come costruire l’egemonia mentre ancora perdura il potere dell’avversario?” Ma questa è proprio la parte più caduca del pensiero di Gramsci, quella su cui poggia e frana la linea riformista proposta dall'autore di questo articolo e presuntivamente avvalorata da una simile citazione. Una linea goffamente dissimulata da formulazioni equivoche, oscillanti tra il velleitarismo anarcoide e la "critica critica", due componenti caratteristiche di un'ideologia
piccolo-borghese che contraddistingue una certa frazione del ceto medio radicalizzato a sinistra. In altri termini, non è possibile far leva sul concetto, per se stesso estremamente flessibile e gassoso, di "egemonia", prescindendo dai rapporti di produzione capitalistici e dal potere politico dello Stato borghese. La linea di scissione, anche all'interno della scuola, non è la battaglia per l'egemonia (se fosse questa, la battaglia sarebbe già persa in partenza, è già persa in partenza). E' invece necessaria un’analisi delle condizioni concrete in cui si trovano oggi gli insegnanti del nostro paese (analisi di cui nell'articolo non vi è la benché minima traccia, mentre vi abbondano riferimenti ideologico-culturali tanto eclettici quanto incongrui rispetto ad una battaglia per l'egemonia). Da questo punto di vista, occorre sottolineare che i processi di proletarizzazione che hanno investito la categoria degli insegnanti sono oggettivi e, all’interno del sistema economico-sociale capitalistico, irreversibili (un sintomo inequivocabile di tali processi è, ad esempio, la crescita della sindacalizzazione). Ciò significa che l’idea di un’emancipazione della categoria ‘ut talis’, che si realizzi indipendentemente dall’insieme delle classi lavoratrici, è altrettanto illusoria quanto fu, nel corso dei dibattiti dell’800, l’idea di un’emancipazione degli ebrei ‘ut tales’, come dimostrò a suo tempo Marx nella “Questione ebraica”. Infatti, a causa dell’impoverimento economico che ha investito la categoria, le attività aggiuntive, ad esempio, svincolatesi dalla dimensione del volontariato che una minoranza del corpo insegnante aveva sempre espresso, sono diventate uno strumento improprio ma generalizzato di recupero retributivo, ed è all’insegna di tale recupero che la categoria si è resa disponibile alle più svariate attività parascolastiche ed extrascolastiche. Le forze dominanti hanno così giocato due carte allo scopo di privatizzare il rapporto di lavoro nella scuola, modellandolo su quello proprio dell’industria privata: la crescente insicurezza di tale rapporto, conseguenza sia della diminuzione della popolazione scolastica che delle politiche di riduzione della spesa pubblica nel settore dell’istruzione, e la disponibilità degli insegnanti a prestazioni aggiuntive di lavoro per un recupero retributivo. L'introduzione dell'alternanza scuola-lavoro è poi servita a rafforzare, sul versante studentesco, questa sorta di "ristrutturazione mimetica", replicando in termini prettamente banausici il modello industriale di riferimento. In realtà, l’intreccio sempre più stretto fra la crisi sociale della scuola, le politiche neoliberiste nel campo dell’istruzione, i processi di privatizzazione e di mercatizzazione, nonché la proletarizzazione e la deprofessionalizzazione degli insegnanti richiede uno sforzo di analisi, di proposta e di organizzazione inedito. Oggi, infatti, è più che mai vero che la funzione progressiva della scuola è legata non solo all’elevamento dei livelli culturali delle nuove generazioni, non solo al riscatto degli insegnanti dalle condizioni di avvilimento e di degrado imposte dalle politiche neoliberiste nel campo dell’istruzione pubblica, ma anche alla necessità storica, per dirla ancora una volta con Marx, di “strappare l’educazione all’influenza della classe dominante”. Dunque, impostare un discorso sulla scuola, sulla sua funzione e sul suo ruolo prescindendo dalla questione degli insegnanti è altrettanto astratto ed evasivo quanto evocare il superamento "di una condizione di subalternità" e "il recupero di una conoscenza critica che si faccia - gramscianamente - prassi", senza fare i conti con la classe (o l'alleanza di classi) che dirige tale apparato di Stato e con il controllo ideologico e politico che essa esercita sul mondo della scuola, della ricerca e della formazione.
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Paolo Selmi
Monday, 26 November 2018 15:46
Cara Anna,

“Школа должна учить мыслить!” (Источник: http://caute.ru/ilyenkov/texts/sch/schola.html, traduzione integrale in inglese (42 pagine) qui http://lchc.ucsd.edu/MCA/Mail/xmcamail.2013_06.dir/pdfv2JVUFpCrp.pdf)”
“La scuola deve insegnare a pensare!”, scriveva in questo corposo lavoro Eval’d Il’enkov. “La scuola deve insegnare a pensare”, perché quando questi ragazzi arrivano al loro primo impiego sono una “tabula rasa” su cui il padronato scrive TUTTO ciò che vuole. Ripeto, TUTTO ciò che vuole. Alternanza scuola lavoro, ovvero la scuola insegna ai futuri lavoratori come comportarsi al lavoro. Senza farsi troppe domande, anzi, senza farsi domande che non siano legate alla sopravvivenza del proprio posto di lavoro. Perché è giusto stare “come d’autunno sugli alberi le foglie”. Loro (i padroni, anzi, pardon, i “datori di lavoro”) è giusto che facciano così coi dipendenti (anzi, pardon, i “collaboratori”). “E se io fossi al suo posto farei lo stesso” … (quindi, se mi lamento, lo faccio per invidia)
La scuola deve insegnare a pensare: perché, spiace dirlo, ma non può pretendere che a farlo sia una famiglia, che a volte c’è, a volte no, a volte insegna esattamente l’opposto (ovvero che nella vita occorre “pararsi il didietro”).

La scuola deve insegnare a pensare: ma, se lo fa, chi mai manderà i propri figli in una scuola che deve formare sudditi: “onesti”, mansueti, sottomessi, conformisti, preparati sudditi? E non “comunisti” che a 19 anni non troveranno uno straccio di lavoro per le idee sbagliate che gli inculcano? (e questa è solo una delle varianti possibili del ragionamento che può fare oggi un genitore preoccupato per l’avvenire dei suoi “pargoli”… mi vergogno persino a riportarla, ma quante volte mi tocca sentirla… e contare fino a 10). E un preside, in piena “autonomia scolastica”, oggi è sensibile più di ieri a certi “ragionamenti”… e a cavalcare quell’anticonformismo di maniera che lo porterà a imbarcare inizialmente più ragazzi possibili, dando loro spago… per poi ricondurli sulla “retta via” verso la “terra promessa” di un lavoro visto come “premio” per pochi, come in un reality, dando spago ai loro genitori. Per loro, la scuola deve insegnare a pensare ma a non dire, quindi, meglio non pensarci, meglio non pensare.

La scuola deve insegnare a pensare: lo fa, come oltre mezzo secolo fa, solo per un’élite. Quella dei futuri padroni, che dovranno avere il cervello di salvare la “fabbrichetta” dei loro genitori, prendere il loro posto di “capitano d’impresa”… e quindi non possono, sempre in linea di principio, bruciarsi il cervello come il resto della carne da macello parcheggiata dopo la terza media. E quelle scuole, infatti, selezionano, “scremano”, hanno il “numero chiuso”, trasmettono quell’esclusivismo che diventerà segno distintivo per questi giovani, accompagnandoli per il resto della loro esistenza.

Non sono però pessimista, Anna. Ho una grande fiducia nei giovani. Un fiore di campo non basta calpestarlo per ucciderlo. A volte, basta anche solo il germe di un dubbio, un tarlo che comincia a rodere in menti che, per la loro stessa natura, per la loro età, non sono del tutto addomesticate, o rassegnate, o fataliste, o disponibili a rinunciare ai propri ideali per un piatto di lenticchie (“Did you exchange, a walk on part in the war, for a lead role in a cage…”). I padroni questo lo sanno, hanno paura di questo. Per questo li fanno sfogare dando via libera ai loro istinti peggiori, fomentando il loro narcisismo “social”, che poi altro non è che una naturale, ormonale, voglia di protagonismo e di competizione, veicolata però entro canali, in ultima analisi, autodistruttivi. E la bomba, forse, è disinnescata. L’anomalia di sistema, il pericolo di una devianza potenziale rientra nell’alveo del disordine costituito, della disuguaglianza sociale eretta a sistema autoportante e autolegittimante. Forse. A volte basta poco per far saltare il banco in modo imprevisto e imprevedibile…

Un caro saluto.
Paolo
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