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God bless America

di Miguel Martinez

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Dolce è il sonno del lavoratore, abbia egli poco o molto da mangiare; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire.

Libro dell’Ecclesiaste

Forse vi è arrivata voce della diffusione senza precedenti, della canzone Rich Men North of Richmond, lanciata senza alcun apparato o scopo commerciale da un giovane che canta sotto il nome di Oliver Anthony: del sud degli Stati Uniti, Oliver Anthony ha i problemi di una nazione intera – obeso, sottoccupato, con problemi di salute mentale forse legati anche a un incidente quando si fece male alla testa in un incidente in fabbrica.

Ho detto diffusione, e non successo.

Oliver Anthony vive in un camper, con moglie e due figli senza corrente elettrica: off the grid.

Dalla parte sua, solo un cane bianco e uno nero e Dio, cui ha promesso di non bere più, se fosse riuscito a comunicare il suo messaggio.

Ne nasce una canzone profondamente rivoluzionaria, come può essere tutto ciò che nasce da dentro, e non per gentile concessione dall’alto.

Chi ama profondamente l’America, odia l’impero americano.

Certo, noto nella canzone una battuta contro quelli che campano di sussidi, che non sorprende in chi li deve comunque mantenere con lavori tremendi, ma va visto nel contesto.

Ho venduto la mia anima lavorando tutto il giorno / facendo gli straordinari per quattro soldi / per potermene stare seduto qui e sprecare la mia vita / trascinarmi a casa e annegare i miei guai.

È una vergogna come va il mondo / per gente come me e gente come te / vorrei solo svegliarmi e sapere che non è vero / ma lo è, lo è davvero.

Vivere nel nuovo mondo / con un’anima antica / Questi ricconi a nord di Richmond / Lo sa Dio vogliono solo avere il controllo totale / vogliono sapere cosa pensi cosa fai / E non pensano che tu sai, mai io lo so che sai / perché il tuo dollaro non vale un c… e viene tassato all’infinito / per via dei ricconi a nord di Richmond.

Vorrei che i politici ci pensassero ai minatori / e non alle minorenni sulle isole da qualche parte / O Signore, abbiamo gente per strada, che non hanno da mangiare / e ci sono gli obesi che ciucciano sussidi statali.

Beh Dio, se sei un metro e sessanta e pesi 130 chili / le tasse non dovrebbero pagare i tuoi sfizi / i giovani si stanno sdraiando nelle tombe / perché questo maledetto paese sa solo schiacciarli a terra.

La cosa affascinante è come dei versi di un lavoratore sfruttato che parlano di lavoratori sfruttati siano stati immediatamente trasformati sia da Destra che a Sinistra.

Il cantante è bianco di pelle, quindi è ovvio che è razzista; se parla male di quelli “north of Richmond” (lui è nato appena a sud, nella Virginia), cioè i politici a Washington, deve essere un nostalgico della Confederazione e della schiavitù; lui fa un gioco di parole tra miners (minatori) e minors (minorenni), dicendo che i potenti invece di pensare ai primi, pensano a molestare le seconde “su un’isola”, che deve essere un riferimento a Jeffrey Epstein. Che aveva un cognome da ebreo, e quindi è un velato messaggio antisemita. E fa anche qualche commento sulla propria ciccia abbondante, per cui deve essere pure un fatphobe.

Qui potete trovare un esempio particolarmente tragico di cosa pensa certa sinistra di un proletario arrabbiato, e della grande trappola in cui ci troviamo.

Ma altrettanto surreale il fatto che la Destra statunitense – che rappresenta sostanzialmente gli stessi imprenditori che sfruttano gente come Oliver Anthony – abbia colto la palla lanciatale dalla Sinistra, e trasformato Anthony nel contrario di ciò che è. La Destra ha sfruttato miserabilmente Oliver Anthony solo perché Biden è a Washington in questo momento, allora vuol dire che chi critica Biden è dei loro!

Oliver Anthony ha respinto ogni legame con i politici di destra, in modo chiaro e fermo, e va detto che lo ha fatto con l’ignorante intelligenza di non scegliere l’opposta schiera del circo. Immaginatevi una persona cresciuta nelle circostanze culturali di Oliver Anthony, che deve rispondere a una manipolazione di questo tipo: io che ho studiato pure l’arabo, non ci sarei riuscito, lui invece sì:

“La cosa che mi ha infastidito è vedere le persone che fanno politica in questo caso. Sono deluso nel vederlo. È irritante vedere persone che nei media conservatori cercano di identificarsi con me, come se fossi uno di loro”.

E ha aggiunto: “Quella canzone non ha nulla a che fare con Joe Biden. È una cosa molto più grande di Joe Biden. Quella canzone è scritta per le persone su quel palco e per molte altre, non solo per loro”.

È stato difficile, ha detto Anthony, “trasmettere un messaggio sulla propria ideologia politica o sulle proprie convinzioni sul mondo in tre minuti e qualche spicciolo. Ma non sopporto che questa canzone venga strumentalizzata, come vedo fare. Vedo la destra che cerca di caratterizzarmi come uno di loro. E vedo la sinistra che cerca di screditarmi, credo per ritorsione. Questo deve finire.

“E non è colpa di quelle persone. Il welfare rappresenta solo una piccola percentuale del nostro bilancio. Sai, possiamo alimentare una guerra per procura in una terra straniera ma non possiamo prenderci cura dei nostri. Questo è tutto ciò che la canzone cerca di dire. Dice solo che il governo prende persone bisognose e dipendenti e le rende bisognose e dipendenti.”

Poi, dopo aver annunciato di aver rifiutato un contratto da otto milioni di dollari (perché l’America delle Opportunità è sempre quella), partecipa a un raduno profondamente americano.

E dimostra di non essere per nulla l’ignorante che pensate voi.

Legge qualche brano del Libro Fondante, e dice qualcosa di molto più profondo di ogni talkshow della società dello spettacolo.

Riascolto dalla voce di Oliver Anthony le parole dell’Ecclesiaste che ho letto quando avevo sedici anni assieme a un mio amico cattolico, e resto sconvolto, perché c’è davvero così poco da aggiungere, in tanti secoli (scusate la citazione lunga, ma merita):

” Che profitto ha l’uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?  Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre.  Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.  Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.”

“Mi sono messo poi a considerare tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole; ed ecco, le lacrime degli oppressi, i quali non hanno chi li consoli; da parte dei loro oppressori c’è la violenza, mentre quelli non hanno chi li consoli.  Perciò ho stimato i morti, che sono già morti, più felici dei vivi, che sono vivi tuttora;  più felice degli uni e degli altri è colui che non è ancora venuto all’esistenza, e non ha ancora visto le azioni malvagie che si commettono sotto il sole.

Non essere precipitoso nel parlare e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio; perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; le tue parole siano dunque poche; poiché con le molte occupazioni vengono i sogni, e con le molte parole, i ragionamenti insensati.

 Chi ama l’argento non è saziato con l’argento; e chi ama le ricchezze non ne trae profitto di sorta. Anche questo è vanità. Quando abbondano i beni, abbondano anche quelli che li mangiano; e quale vantaggio ne viene ai possessori, se non di vedere quei beni con i loro occhi?

Dolce è il sonno del lavoratore, abbia egli poco o molto da mangiare; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire.

Ognuno esce nudo dal grembo della madre. E come viene così se ne va”.

E per un attimo, mi sento profondamente orgoglioso di essere anche statunitense, this damn country, nonostante tutto l’immenso orrore che l’impero maledetto ha imposto al tuo mondo, ma i primi a stendere la mano, a dire che non vogliono saccheggiare il mondo, sono a volte gli americani più americani.

God bless America.

 

II

Nelle righe precedenti, vi ho parlato del cantante folk statunitense, Oliver Anthony.

Da precisare, che ho scoperto l’esistenza di Oliver Anthony grazie a un altro americano, ben diverso, David Rovics, che seguo ormai da anni.

Rovics appartiene al multiforme mondo anarchico, su cui si può dire (spesso a ragione) di tutto, ma dove forse oggi si trova la più alta concentrazione di persone non ancora del tutto domate.

Rovics è un cantastorie, per cui non dovete cercare nella sua opera la bellezza estetica, ma il vissuto che sa cogliere e trasmettere in attimi di immagini estremamente potenti.

Racconta storie che sono profondamente politiche, ma da sempre ho percepito la sensibilità umana sottostante, che va oltre le fazioni: ama i combattenti e le vittime della sua parte, ma non odia mai chi si trova dall’altra. E ogni volta, racconta di persone vive.

Il babbo al computer digita digita, e mentre digita  digita ascolta Tappety-Tippety di David Rovics. Che racconta di un babbo sempre al computer, e del figliolo che vorrebbe uscire, e alla fine piglia e gli stacca il computer dalla presa. E il figliolo ascolta anche lui, e gli stacca il computer dalla presa, al babbo.

David Rovics appartiene a un’America molto diversa da Oliver Anthony, che è molto più vicina alla mia; ma sa capire come pochi l’America operaia e sfruttata, per citare due parole che pare oggi suscitino pochissima simpatia nella sinistra statunitense.

Ma nulla di meglio che tradurre per voi una sua riflessione di un paio di anni fa.

* * * *

Antenati rifugiati

di David Rovics

I telegiornali di questa settimana sono pieni di storie di rifugiati afghani e di rifugiati vietnamiti di mezzo secolo fa, di rifugiati dell’America Latina respinti al confine messicano con il Guatemala e dell’imminente ondata di rifugiati che potrebbe presto affluire da luoghi come il Madagascar, dove il caos climatico ha fatto sì che le colture non crescano più.

David Rovics

Se si ascoltano i media dell’élite privilegiata, o quelli che in genere chiamiamo semplicemente “i media”, o talvolta “i media liberali”, si può facilmente sviluppare l’impressione che la storia degli Stati Uniti sia stata tutta una questione di bianchi privilegiati che opprimevano le persone di colore.

Vi si perdonerebbe se non vi rendeste conto che la nostra è una società di classe, con una popolazione a stragrande maggioranza operaia, che è sempre stata così, ed è stata prevalentemente bianca da quando ogni Stato è diventato uno Stato. Nel modello statunitense di colonialismo, affinché un territorio diventasse uno Stato, era necessaria una maggioranza di coloni bianchi, quelli che nei libri di storia della costa occidentale vengono chiamati “pionieri”. L’ondata migratoria successiva è stata quella dei lavoratori poveri in tutti i campi, provenienti da tutti i contesti razziali, alcuni più oppressi di altri, su questa base razziale, oltre che su altre basi, come la nazionalità, la religione, le convinzioni politiche e il genere.

La narrazione dei libri di storia bugiardi che costringiamo i bambini a consumare in tutto il Paese ci dice che i nostri antenati che lasciavano il “Vecchio Mondo” (l’Europa) per il “Nuovo Mondo” (il mondo colonizzato, le Americhe, o in particolare gli Stati Uniti) erano “alla ricerca di una vita migliore per se stessi e per i loro figli”.

In effetti, è frequente sentirli dire la stessa cosa sugli afghani che arrivano ora, come se non stessero fuggendo dalle loro case per paura della morte.

Questa narrazione si sposa bizzarramente bene con l’attuale narrazione storica della sinistra identitaria, che enfatizza solo i vantaggi relativi degli immigrati europei che muoiono di fame mentre competono per un salario decente in lavori svolti da persone ancora più affamate provenienti dalla Cina o da africani schiavizzati che non ricevono alcuna paga. Un vero e proprio privilegio. E se poi si riesce a uscire dal ciclo infinito di povertà e sfruttamento, possedendo una casa propria o gestendo un’impresa, allora si è solo un altro esempio di ricchezza intergenerazionale, un altro esempio di famiglia abbastanza bianca da potersi qualificare per un prestito bancario o per il GI Bill.

Tutti i sacrifici personali, i secoli di guerra di classe, il mutuo soccorso e la solidarietà non contano per la sinistra identitaria, sono irrilevanti. Il risultato è l’unica cosa che conta. La disuguaglianza persiste e tutti gli sforzi compiuti dalla maggioranza bianca privilegiata verso una società più equa devono essere dimenticati, a favore di un ricordo di ogni tradimento. Colpevole! Se non è così, non parlare di tutte le stronzate sulla storia della guerra di classe e su tutte quelle persone che sono morte combattendo per un mondo migliore.

Il punto è che voi siete bianchi e privilegiati, gli altri no, e dovete in qualche modo risolvere la situazione parlandone e sentendovi in colpa, non cercando di eludere il punto parlando di come il sistema capitalista sfrutta tutti noi. Come siamo diventati privilegiati rispetto agli altri non è importante. Il fatto che lo siamo – e che dobbiamo pentirci per questo – è l’unica cosa che conta. Anarco-puritanesimo 101, lo chiamo.

Non è una novità che la mia mente sia occupata da questo strano, falso dibattito, che passa per discorso in questi giorni, e che è su Internet, e spesso anche nelle strade.

Non mi piace parteciparvi, anche perché la mia posizione non è mai tra quelle ampiamente riconosciute. Ma mentre negli ultimi anni la questione continua a ribollire in sottofondo come al solito, ultimamente mi sono ritrovato a leggere a proposito dei miei antenati. Da molto tempo mi interesso di queste cose in modo intermittente.

Non so quanto c’entri, ma la storia mi è sempre sembrata così viva. A posteriori, è difficile immaginare che non sia così. La mia tata era un’ebrea tedesca sopravvissuta all’olocausto nazista. Solo 25 anni prima della mia nascita, c’erano milioni di persone vive che presto sarebbero state incenerite nelle camere a gas, compresi tutti i miei parenti conosciuti nell’Europa orientale.

A parte la mia tata, la storia della mia famiglia di sangue è precedente al XX secolo, ma lo comprende. Molti migranti e rifugiati mantengono i contatti con la famiglia di origine, a volte per generazioni. I genitori di mia nonna provenivano da Minsk e mia nonna e sua madre si sono tenute in contatto con decine di parenti in patria, finché non sono stati tutti uccisi. Poi la mia bisnonna di lingua yiddish morì subito dopo, quando mio padre era bambino, e il massacro di massa in Europa e in tante altre parti del mondo in quel periodo finì.

Nonna Diane, pur essendo nata a New York, non si è mai sentita americana. Questo mi è rimasto impresso da bambina perché si riferiva sempre agli altri miei nonni, i genitori di mia madre, come “americani”. Lei era un’altra cosa: ebrea, di sicuro. Newyorkese, sì. Ma per lei l'”America” era rappresentata da luoghi come il Connecticut, dove sono cresciuta io, che veniva a visitare, ma dove non si sentiva mai del tutto a suo agio, forse perché non dimenticava mai i cartelli sulle spiagge che vedeva da bambina che dicevano “vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani”.

Per quanto riguarda i genitori di mia madre, da parte del nonno Chamberlain c’è una lunga stirpe di inglesi di sangue blu, che risale ai primi giorni della colonizzazione del Massachusetts, del Connecticut e di New York. Non so perché abbiano lasciato l’Inghilterra. La storia di questo ramo della famiglia nel XIX secolo comprende politici di spicco e carne da cannone. Andando più indietro, ci sono sia schiavisti che abolizionisti. Se c’è un lato della famiglia che non ha lasciato l’Europa per paura della morte, è questo, e solo questo.

La parte della famiglia di mia madre proveniva dall’Alabama. Questa linea di famiglia, o una parte di essa, risale direttamente alla carestia irlandese, all’olocausto irlandese, al Black 47. M. Whelan era il suo nome. Michael? Matthew? Da quale parte dell’isola proveniva? Parlava inglese? Non ne ho idea, ma era il nonno di mia nonna.

Perché andò in Alabama? Quando arrivò, l’Alabama era una sorta di selvaggia frontiera del sud, il tipo di posto in cui i poveri bianchi erano costretti ad andare per cercare di guadagnarsi da vivere con la terra, dove potevano permettersi di avere un po’ di terra da coltivare. Ecco perché i profughi irlandesi della carestia andarono lì.

Dovevano farlo, non avevano altra scelta: o così o morivano di fame, come avevano appena fatto in patria sotto il dominio coloniale britannico. M. Whelan sarebbe morto molto prima che nascessero i suoi nipoti. Uno dei suoi nipoti sarebbe morto giovane, come lui. Un’altra avrebbe lasciato l’Alabama, si sarebbe trasferita a New York, avrebbe abbandonato il sogno di diventare una musicista professionista e avrebbe messo su famiglia. Questa era mia nonna, Margaret.

Anni fa, quando facevo ricerche sugli antenati, mi scontravo sempre con un muro quando arrivavo a Ellis Island.

Qualunque cosa stesse accadendo a quel lato della famiglia in Europa era un mistero. I siti di ricerca che utilizzavo sostenevano di essere collegati ai database europei, ma non sembrava mai essere vero. Poi si è scoperto che un’altra persona aveva già fatto una ricerca genealogica probabilmente esaustiva su una linea di famiglia che si interseca molto con i genitori di lingua ungherese del padre di mio padre. Non so perché sia così intenso riuscire a collegare una vera e propria città in Europa ai miei parenti che sono emigrati da lì solo tre generazioni fa. Non una grande città come Minsk, che per le sue dimensioni sembra un luogo d’origine un po’ anonimo, ma un piccolo villaggio. Un luogo che attualmente si trova nella Repubblica Ceca, chiamato Krompach.

Era solo per motivi pratici, per cercare i permessi di soggiorno e cose del genere, che mi preoccupavo di indagare, e non ero affatto sicuro di riuscire a trovare le informazioni di cui avevo bisogno, ma ecco. Tutto ciò che sapevo era che un certo Adolf Rovics, il mio bisnonno, era nato da qualche parte in quella che sui documenti di immigrazione era chiamata Austria, che sarebbe stato l’Impero austriaco, nel 1857.

Sua moglie, la mia bisnonna Minnie Sturz, nacque dieci anni dopo, quando la stessa regione faceva parte dell’Austria-Ungheria. I genitori di Minnie si chiamavano Baruch e Klara. Baruch era un rabbino. Il figlio di Minnie e Adolf, mio nonno, Alvin, nacque a New York nel 1899. Adolf morì sei anni dopo, molto giovane, come spesso accade ai membri della classe operaia, siano essi rifugiati o meno. Alvin non completò mai la scuola superiore, ma lui e i suoi fratelli riuscirono a vivere a lungo, come le generazioni successive, che ebbero la fortuna di trovarsi nelle Americhe e non in quella perpetua carneficina che fu l’Europa durante la prima metà del XX secolo.

Questi sono alcuni dei rifugiati che sono fuggiti dai pogrom europei, dal bigottismo religioso europeo e dalle guerre d’impero e di conquista europee, da cui io discendo.

Da quali forme di massacro fuggivano i vostri antenati? E quali forme di schiavitù hanno trovato qui? Molto probabilmente, se discendete da persone che per un motivo o per l’altro hanno lasciato la loro patria per venire in un luogo sconosciuto, avete storie simili, che ne siate consapevoli o meno, che siano state perse dalla storia o che si siano in qualche modo conservate, almeno in forma scheletrica.

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