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Profitti reali ed eresie immaginarie
di Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Matteo Gaddi, Nadia Garbellini, Joseph Halevi, Roberto Lampa, Gianmarco Oro
Una risposta a Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Gli autori del volume L’inflazione: falsi miti e conflitto distributivo hanno risposto alla recensione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Diamo spazio alle loro argomentazioni perché ci sembra interessante poter guardare da vicino un dibattito su temi economici spesso lasciati alla sola disputa tra esperti. Sempre più sentiamo la necessità di riflettere su proposte di politica economica che vengano però da una prospettiva di classe e in conflitto con le sfide poste dal capitalismo contemporaneo.
Premessa
Sono contro le discussioni astratte. Il marxismo ci richiama sempre al concreto
(G. Lukács, 1968)
Quando abbiamo deciso di scrivere L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo il nostro obiettivo era quello di preparare il materiale didattico per un corso di formazione sull’inflazione rivolto a funzionari e delegati sindacali. In particolare, ci premeva chiarire alcuni punti di carattere generale e avanzare un’analisi dell’esplosione della dinamica dei prezzi nel 2022-2023. Scopo del corso era quello di fornire ai lavoratori e ai loro rappresentanti strumenti per rispondere concretamente al crollo dei salari reali.
Dopo le prime giornate di inizio marzo – a Milano, Mestre e Bologna – il corso è stato replicato una ventina di volte in svariati contesti territoriali, e altre “repliche” sono in preparazione.
Si è trattato di uno sforzo realmente collettivo: sebbene ciascuno di noi abbia partecipato direttamente alla stesura di uno o più capitoli, la struttura del volume e i contenuti di ogni saggio sono stati discussi e condivisi collettivamente, e dunque il contenuto di ciascun capitolo è da attribuire a ciascuno di noi.
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Guerre teoriche? No, meglio interrogarsi sulle sfide dell'economia
Bisogna partire dalle idee che guidano la politica economica
di Roberto Romano
Continua il dibattito sull'insegnamento dell'economia neoclassica. Dal Pil potenziale al tasso naturale di interesse, i concetti possono essere riempiti in modo diverso a seconda dell'approccio teorico. Per Roberto Romano è più importante coltivare questa consapevolezza che cercare di delegittimare gli approcci mainstream
Dobbiamo smettere di insegnare l’economia neoclassica, come si sono chiesti Rochon e Rossi in un recente intervento su queste pagine? È una domanda retorica e forse inutile, sebbene lecita. Non appena si affaccia una sconfitta delle idee più o meno socialiste, ci domandiamo se la scienza mainstream debba avere ancora diritto di cittadinanza1. In realtà, sarebbe più comprensibile questa domanda: siamo all’altezza delle grandi sfide sociali, culturali, scientifiche, economiche e teoriche che attendono l’umanità?
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La ricerca economica è pervasa da troppi cliché, dalla necessità di pubblicare su riviste di classe A, da un bisogno spasmodico di penetrare ogni intercapedine della produzione di sapere. Tanto che, siamo onesti, si è persa la voglia di capire e comprendere il suo vero oggetto: la società. Perché non riprendiamo a studiare il mondo per come funziona realmente? Perché non ci facciamo più le domande di senso? Perché l’economia è uscita dal suo alveo naturale di scienza sociale?
Spesso mi sono posto domande su concetti come il Pil potenziale, la domanda effettiva e il tasso naturale di interesse. Ho cercato la risposta leggendo gli autori che, a torto o ragione, consideriamo autorevoli da entrambi i lati della “barricata”. Ma se mettiamo in una stanza dieci di questi autori, sono altrettanto certo che possiamo uscirne con più di dieci ipotesi di lavoro o proposte di soluzioni.
Che cosa si nasconde dietro questa incertezza? Il capitalismo è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra il capitale, lo Stato e gli stessi capitalisti2.
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Zwischen den zeiten. Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell'inflazione
di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Recensione al volume L’inflazione: Falsi miti e conflitto distributivo, Edizioni Punto Rosso
Diamo spazio a una densa recensione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri al volume L’inflazione: Falsi miti e conflitto distributivo.
Ci sembra infatti utile cercare di approfondire questioni economiche che troppo spesso restano appannaggio di una ristretta cerchia di specialisti, ma ancora più sentiamo la necessità di riflettere su proposte di politica economica che vengano però da una prospettiva di classe e in conflitto con le sfide poste dal capitalismo contemporaneo.
Di seguito una sintesi della recensione scritta dagli stessi autori.
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Il saggio che qui si presenta dialoga con le tesi contenute in L’inflazione: Falsi miti e conflitto distributivo, edito quest’anno da Edizioni Punto Rosso e contenente saggi di vari autori. Il volume si pone il compito urgente, e con cui non possiamo che concordare, di comprendere i fattori alla base della recente fiammata inflazionistica. Si intende farlo dal punto di vista del mondo del lavoro, armati di una coscienza teorica critica in grado di demistificare le narrazioni dominanti e di svelare i conflitti sociali dietro l’apparente neutralità dell’economico.
Lo scritto è diviso in sette parti. Nella prima, si ricostruisce il contesto all’interno del quale il ritorno dell’inflazione è venuto a manifestarsi fin dal 2021. Si dà brevemente conto dello scenario macroeconomico seguito alla pandemia e all’invasione russa dell’Ucraina. Gli effetti dei lockdown sono stati dirompenti sulle catene transnazionali del valore: aggravati dalle politiche fiscali e monetarie negli Stati Uniti e in Europa, così come dal tentativo dell’Unione Europea di ridurre drasticamente la propria dipendenza dalle importazioni di gas metano proveniente dalla Russia.
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Dobbiamo smettere di insegnare l'economia neoclassica?
Perpetuarla non aiuta gli studenti
di Louis-Philippe Rochon, Sergio Rossi
Dobbiamo insegnarla, ma solo per confutarla, per rendere gli studenti consapevoli di ciò che vi è di sbagliato ed estraneo al funzionamento dei mercati. Occorre fare una distinzione: se è vero che i mercati non seguono le leggi dell'economia neoclassica, il mondo è però dominato dalla sua pratica. Gli specialisti del governo, i politici, i banchieri e i professori preferiscono ignorare questa linea di separazione. Ma sono proprio questa consapevolezza e questa distinzione che dobbiamo insegnare ai nostri studenti.
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Ci sono molti articoli, blog e libri che criticano l'economia neoclassica - l'economia "volgare" - e che mettono in luce i suoi numerosi fallimenti. L'elenco è troppo lungo per discuterli tutti in questa sede, ma è abbastanza facile trovarli elencati nel canone della letteratura post-keynesiana ed eterodossa.
Autori come Paul Davidson hanno messo ripetutamente in discussione il realismo delle ipotesi neoclassiche, che non sono una descrizione adeguata del "mondo reale". Altri ancora, come Vicky Chick, hanno lamentato i difetti metodologici dell'economia neoclassica e la sua dipendenza dall'individualismo atomistico, dalla convergenza all'equilibrio, da meccanismi di autoregolazione e simili. Per alcuni, l'economia neoclassica "è morta", come sostiene Steven Klees, dell'Università del Maryland.
Eppure, una rapida occhiata a quasi tutte le riviste e ai dipartimenti universitari conferma che l'economia neoclassica non è morta, anzi. Essa prospera nei dipartimenti universitari ed è ancora considerata l'unica opzione disponibile, nonostante l'ascesa di punti di vista alternativi, come la Modern Money Theory, o di idee eterodosse che lentamente si insinuano negli approcci tradizionali.
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Le banche tra finanziamento e finanziarizzazione
di Stefano Figuera, Andrea Pacella
1. Introduzione
A quarant’anni dalla pubblicazione del saggio di Augusto Graziani “Moneta senza crisi” che costituì un passaggio fondamentale nell’elaborazione della teoria monetaria della produzione, il contributo teorico dell’economista napoletano continua ad essere un imprescindibile punto di riferimento per la comprensione del funzionamento dell’economia capitalistica in quanto economia monetaria. Di fronte ai rilevanti mutamenti registrati dalla struttura finanziaria, la teoria monetaria della produzione si conferma come un importante strumento di analisi.
Ponendosi in tale prospettiva, il presente contributo si propone di offrire elementi per una lettura dell’evoluzione del ruolo del sistema bancario. Preziosa è, a tal fine, la distinzione tra finanziamento della produzione, finanziamento degli investimenti e finanziamento dell’economia teorizzata da Graziani.
2. Una visione circuitista del finanziamento
Un passaggio nodale della teoria monetaria della produzione è rappresentato dalla separazione tra settore delle banche e settore delle imprese. Da esso deriva la centralità del finanziamento e l’origine endogena della quantità di moneta che circola nel sistema economico.
“Il settore bancario (banca centrale più banche di credito ordinario) produce moneta ma non la utilizza; il settore delle imprese utilizza moneta ma non la produce. Quando si afferma che l’impresa impiega denaro per ricavarne maggior denaro, si intende quindi che l’impresa impiega denaro a prestito dal settore bancario. Ecco perché il primo atto del processo economico è un atto di finanziamento, mediante il quale il sistema delle banche crea mezzi di pagamento (o crea credito, come avrebbero detto Wicksell e Schumpeter) e li dà a prestito al sistema delle imprese, il quale si impegna a restituirli con la maggiorazione dell’interesse pattuito”.
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Esoterismo e politica economica
di Roberto Artoni
Le decisioni sono soggette ad ampi margini di discrezionalità per l’inosservabilità di molti parametri che ne dovrebbero essere la base. E’ comunque illusorio definire le scelte con il ricorso a modelli e relative stime econometriche che per la loro molteplicità e indeterminatezza non possono che far emergere nell’adozione di specifiche politiche presupposti collocabili fra l’ideologico e il prescientifico.
* * * *
1 - Le scelte di politica economica sono caratterizzate da un notevole grado di esoterismo: la stragrande parte della popolazione ritiene più o meno consciamente che esista una verità univocamente definita, penetrabile solo da pochi sacerdoti e non acquisibile dai profani.
L’esempio, a mio giudizio tipico, è costituito dalle manovre dei tassi di interesse attuate da Federal Reserve e Banca Centrale Europea al fine di controllare il tasso d’inflazione, riportandolo al valore obiettivo. Conviene premettere che il tasso di interesse manovrato dalle autorità monetarie è costituito dal tasso di rifinanziamento principale, ovverosia dal tasso che le banche devono corrispondere all’ECB quando prendono a prestito a breve termine.
2 - Nell’interpretazione delle manovre di politica monetaria delle banche centrali, è ricorrente nei testi di politica economica la cosiddetta regola di Taylor [Storm 2023], che ha a prima vista un aspetto non accattivante, ma è facilmente intellegibile:
i = p +r* + a(p –p*) +b (y – y*)-
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Salvatore Biasco e l’instabilità dell’economia mondiale nella prospettiva dei “cicli valutari”
di Daniela Palma
Abstract: Con il saggio su “I cicli valutari e l’economia internazionale” di fine anni Ottanta (1987), Salvatore Biasco avvia una importante riflessione teorica sul regime di fluttuazione dei cambi, confutando sulla base di un approccio keynesiano la validità dei modelli di determinazione del tasso di cambio ispirati ai principi di efficienza dei mercati finanziari. A partire da un quadro analitico di determinazione su base finanziaria del tasso di cambio nel quale le scelte di portafoglio degli operatori internazionali avvengono in condizioni di incertezza e di razionalità limitata, l’analisi mette in luce come la finanza speculativa di breve periodo amplifichi i movimenti della fluttuazione, provocando squilibri strutturali dell’economia reale, che retroagiscono sulla dinamica del cambio e concorrono a destabilizzare il quadro macroeconomico. Su questa linea interpretativa l’analisi di Biasco approda successivamente a una lettura del disequilibrio economico che ha caratterizzato la dinamica dello sviluppo mondiale fino al culmine della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, sottolineando il ruolo del dollaro, in quanto valuta di riferimento del sistema monetario internazionale, e il contributo dell’instabilità dei mercati valutari alla crescente fragilità finanziaria che ha investito l’economia capitalistica.
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Quando nel marzo del 1973, sotto i colpi della speculazione, il sistema di Bretton Woods dei cambi fissi andò definitivamente in crisi ed ebbe inizio il regime della fluttuazione,
non si avevano [di quest’ultimo] che vaghe nozioni a priori. Per gli stessi libri di testo di economia internazionale la fluttuazione era solo un’occasione di esercizio logico […]. Si pensava che il movimento dei cambi avrebbe corretto automaticamente gli squilibri che il vecchio sistema delle parità fisse lasciava accumulare. Apparentemente i cambi si muovono per riportare l’equilibrio, ma il loro stesso movimento muta all’interno e all’esterno le condizioni dell’equilibrio. Esso viene continuamente inseguito; viene raggiunto spontaneamente solo dopo lungo tempo e dopo mutamenti spesso intollerabili” (Biasco, 1985, p. 114).
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Il marxismo-keynesismo di Giovanni Mazzetti: una proposta per uscire dalla crisi
di Lorenzo Palaia
L’ esegesi e la sintesi tra il pensiero di Marx e quello di Keynes, per mano del già professore di economia presso l’università della Calabria Giovanni Mazzetti, non costituiscono un’oziosa operazione speculativa ma vogliono rispondere ai problemi concreti con cui la nostra società si trova a confrontarsi quotidianamente, cruccio di tanti intellettuali: perché questa disoccupazione e stagnazione strutturali continuano senza soluzioni, nonostante i tanti tentativi di mettervi mano? Perché le nostre società dei paesi sviluppati sono in una crisi che, nonostante i tentativi di dissimulazione, non è affatto contingente e sembra non presentare sbocchi? L’immagine eloquente in quarta di copertina del libro di Mazzetti, Dieci brevi lezioni di critica dell’economia politica, pubblicato dal sempre attento e interessante editore triestino Asterios (con cui l’autore ha pubblicato diversi altri libri), raffigura un robot alla catena di montaggio che licenzia il lavoratore umano e ne prende il posto. Si tratta del problema epocale con cui economisti e sociologi si trovano a dover fare i conti, dai quali l’autore prende ad esempio alcuni argomenti tipici – tra gli altri le tesi di Riccardo Staglianò, Domenico De Masi e Yuval Noah Harari – per confutarne le diverse impostazioni finora adottate. Sintetizzando, potremmo dire che l’atteggiamento più errato è quello di chi non concepisce affatto il problema perché non ne vede la novità: per costoro, l’innovazione tecnologica si trova oggi a produrre ciò che ha fatto sempre, distruzione di posti di lavoro e creazione di nuovi; così il capitalismo si auto-riprodurrebbe sempre ponendo esso stesso le condizioni per uscire dalle crisi in cui si caccia, che sono dunque in ogni caso crisi congiunturali.
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Saint-Simon, precursore di Keynes
di Leo Essen
Andate a rileggere «Moneta e crisi» di Sergio Bologna, prendete questo testo del 1974 – dice Negri nel 78 – e ci troverete tutto ciò che è Autonomia Operaia.
Cosa fa Bologna in questo testo? Inizia la decostruzione – sacrosanta – della differenza tra capitale industriale e capitale finanziario.
In Lotte di classe in Francia, Marx definisce l’aristocrazia finanziaria come la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese, e, dunque, gli attribuisce tutte le caratteristiche del Lumpen (arretratezza, parassitismo, furto, infamia, eccetera).
In questo giudizio storico, dice Bologna, si trova tutto il Manchesterismo di Marx. Si trova quella partizione tra lavoro produttivo (industriali e proletari) e lavoro improduttivo e parassitario (finanza e sottoproletariato – e attaché di Stato).
Nel 50 Marx dice che l’aristocrazia finanziaria non esprime il momento core del capitale, ma solo un aspetto, per così dire, accessorio. Eppure, dice Bologna, nel 56 il punto di vista cambia e la banca diventa il punto di partenza per l’analisi dell’intera borghesia. Cos’è successo?
È successo che in Francia Emile e Isaac Péreire fondano il Crédit Mobilier e lanciano il socialismo bonapartista. Marx intuisce di trovarsi di fronte a un mutamento nei meccanismi di estrazione di plusvalore.
Bonaparte, dice Bologna, non poteva più contare su un controllo diretto dalla forza lavoro di fabbrica. Una classe operaia che aveva fatto il 48, dice, non si lasciava più sfruttare oltre certi limiti, pagare sotto certi limiti.
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La Great Recession e la teoria delle crisi di Marx
di Andrew Kliman
Da Countdown vol. V/VI Studi sulla crisi, ed. Asterios
1. Introduzione
Perché si è verificata la Great Recession? Che cosa potrebbe, al limite, prevenire in futuro lo scoppio delle gravi crisi economiche del capitalismo?
La risposta alla prima domanda è semplice e piuttosto prosaica e sottolinea le diverse carenze di lungo periodo che hanno portato la crisi finanziaria del 2007-2008 ad innescare una profonda recessione nell’economia “reale” e ad un rallentamento prolungato una volta terminata ufficialmente la Great Recession.
Il saggio di profitto delle corporation statunitensi ha registrato una tendenza al ribasso per quasi tutto il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Il declino persistente della profittabilità ha portato ad un calo persistente del tasso di accumulazione del capitale (tasso di crescita degli investimenti nella produzione).
Ciò non deve sorprenderci; la creazione di profitto è ciò che rende possibile l’investimento produttivo di quest’ultimo e l’incentivo ad investire viene ridotto se la profittabilità diminuisce e le imprese non prevedono un futuro più roseo. Il declino del tasso di accumulazione ha portato, a sua volta, ad un calo del tasso di crescita della produzione e del reddito, ed il rallentamento della crescita è stato la causa fondamentale dell’aumento dell’onere del debito pubblico e privato (vale a dire, il debito come percentuale del reddito).
Un’altra causa importante della Great Recession è dovuta al fatto che il governo degli Stati Uniti e la Federal Reserve hanno tentato ripetutamente di gestire o invertire la caduta della profittabilità, degli investimenti e della crescita attraverso politiche fiscali e monetarie di stimolo che hanno avuto successo a breve termine ma che hanno esacerbato il problema del debito facendone aumentare l’accumulo.
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Introduzione alla storia delle teorie sulla crisi
di Anwar M. Shaikh
Presentazione. La crisi e le teorie delle crisi è una raccolta monografica tratta delle teorie sulla crisi ed intende contribuire all’approfondimento di un tema che viene continuamente affrontato da molti ma con una superficialità disarmante. A grandi linee, quando useremo il termine “crisi” ci riferiremo ad un insieme generalizzato di fallimenti nel sistema delle relazioni politiche ed economiche della riproduzione capitalistica. Stando così le cose occorre riprendere un dibattito sulla crisi e le sue tipologie che nel corso del tempo si è sviluppato tra gli studiosi che hanno abbracciato la teoria generale di Marx e di coloro che hanno invece utilizzato il suo metodo per poter analizzare le dinamiche di una economia che, dopo il “miracolo” manifestatosi nel dopoguerra, manifesta regolarmente dei crolli alternati a fasi di ripresa sempre più asfittiche. Occorre ormai rassegnarsi allo stato comatoso in cui versa il modo di produzione capitalistico sul lungo periodo che è stato pesantemente peggiorato dal dramma della pandemia che non vogliamo intenzionalmente affrontare vista la miriade di articoli e studi caratterizzati dalle più svariate impostazioni.
Inizialmente la raccolta si apre con un vecchio articolo di Shaikh che riassume le posizioni più importanti delle teorie delle crisi espresse dalla scuola marxista, mentre Maniatis riprende tali teorie approfondendone la critica. L’intervento intitolato “Una critica alle tesi della finanziarizzazione delle imprese non finanziarie” di Francisco Paulo Cipolla e Paolo Giussani (l’ultimo lavoro che ha prodotto prima di venire a mancare) ha il pregio di criticare alla radice le tesi che imputano la crisi recente esclusivamente alla finanziarizzazione dell’economia ponendo al centro il fattore strutturale della crisi rappresentato dal declino permanente degli investimenti con una spiegazione adeguata.
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Paolo Baffi: la moneta europea e “il crepuscolo degli esperti”
di Alberto Baffigi*
Abstract: Il lavoro affronta una questione centrale nella storia del pensiero economico: quella del rapporto fra teoria economica e scelte politiche. Lo fa studiando il pensiero economico di Paolo Baffi (1911-1989), Governatore della Banca d’Italia dal 1975 al 1979, còlto in un momento particolare della storia europea e italiana: quello che precede immediatamente l’avvio del Sistema monetario europeo (SME), nel 1978, e gli anni successivi. Sono i primi passi dell’integrazione monetaria europea. Il ruolo di Baffi nel negoziato sullo SME è centrale, ma ne esce sconfitto. Allora come ora, gli esperti erano criticati in nome della democrazia. Lo fu anche l’esperto Paolo Baffi, per le perplessità pubblicamente espresse sulla costruzione di un sistema monetario a guida tedesca che avrebbe comportato l’adesione a una politica monetaria di alti tassi di interesse. Una riflessione sul pensiero e sull’azione istituzionale di Baffi può essere utile nella ricerca di una sintesi fra tecnica e politica, oggi quanto mai urgente.
Per uso pubblico della propria ragione io intendo quello che un individuo può esercitare in quanto esperto della materia di fronte al pubblico intero del mondo dei lettori. Chiamo, invece, uso privato quello che è consentito a un individuo in quanto gli è stata affidata una determinata carica civile o funzione pubblica.
Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (Kant, 1997, pp. 26-27)
1. Paolo Baffi e l’uso pubblico della ragione
Quello del rapporto fra i tecnici e la politica è un tema centrale nel dibattito pubblico odierno. Lo è in particolare in relazione al progressivo scollamento fra i due ambiti, della crescente sfiducia reciproca. Non è una novità.
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Caffè, l’economia come impegno civile
di Roberto Schiattarella
Sbaglierebbe chi considerasse marginale il suo contributo sul piano della produzione scientifica. Molti non hanno ben compreso il modo in cui Caffè ha affrontato la questione della complessità della cultura in un contesto in cui possono coesistere molti percorsi scientifici
Il fatto che a 35 anni dalla sua scomparsa si continui a parlare di Federico Caffè testimonia in maniera evidente la capacità di suggestione che la sua visione dell’economia ha ancora soprattutto presso un pubblico di non addetti ai lavori. Oggi come in passato, ciò che colpisce chi legge i suoi lavori è, oltre alla chiarezza dell’esposizione, la sua lettura dell’economia come disciplina morale. Meno attenzione è stata data invece al modo in cui lo studioso è arrivato a definire questa visione. Un vuoto di analisi che ha finito col lasciare lo spazio all’idea che ci si trovi di fronte ad un economista certamente motivato sul piano dei valori, ad un profondo conoscitore della materia, che ha tuttavia avuto una importanza relativamente marginale sul piano della produzione scientifica e che, in ogni caso, non ha dato alcun contributo significativo al dibattito economico italiano e internazionale.
Due conclusioni largamente discutibili non solo perché il suo impegno etico sociale è il punto di arrivo di un percorso scientifico profondamente radicato nella letteratura economica del suo tempo, ma anche perché Caffè ha arricchito questa stessa letteratura con contributi tanto originali quanto poco compresi. Una difficoltà di comprensione che può essere superata solo collocando la sua opera nel contesto in cui questo studioso si è formato. Un passo che va fatto evidentemente per qualunque economista, ma che spesso ci si dimentica di fare quando una visione dell’economia diventa egemone al punto da apparire l’unica possibile. Un passo indispensabile in particolare per uno studioso come Caffè che si è formato in una stagione del tutto particolare sia della politica che della cultura in generale e, in particolare, di quella economica. Molte tra le sue prese di posizione, che al lettore di oggi possono apparire stravaganti, erano del tutto simili a quelle prese da molti tra gli economisti del suo tempo.
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Victoria Chick (1936-2023)
di Maria Cristina Marcuzzo*
Abstract: Questo articolo ripercorre il tentativo di Chick, durato tutta la vita, di smascherare ciò che è stato ed è tuttora distorto nell’interpretazione e nell’applicazione della Teoria Generale. Per semplicità, ho elencato alcune delle distorsioni su cui Chick, insieme ad altri, ha richiamato l’attenzione nel corso degli anni. L’elenco non vuole essere esaustivo e alcune distorsioni sono correlate tra loro, ma spero che il mio catalogo catturi la maggior parte delle questioni che sono state al centro del dibattito e del confronto con la Teoria Generale che ha impegnato Chick per tutta la sua vita.
La scomparsa di Victoria (Vicky per tutti noi) Chick a Londra il 15 gennaio 2023, è un grave lutto per la comunità dei post-Keynesiani e degli economisti eterodossi di diverse scuole. Perdiamo una delle più intelligenti interpreti di Keynes che con tenacia lo ha difeso da tante riletture spurie e a volte fuorvianti, e una economista autrice di penetranti analisi della teoria e politica monetaria contemporanee.
Chick era nata a Berkeley, in California, nel 1936. Dopo la laurea e il master a all’Università di California, Berkeley, dove ha avuto come insegnante Hyman Minsky, si laurea di nuovo alla London School of Economics (LSE), nel 1960, a cui segue, tre anni dopo, il primo incarico accademico presso l’University College di Londra (UCL), dove rimarrà in vari ruoli, fino all’ultimo, quello di Professore Emerito.
I suoi corsi di macroeconomia, teoria monetaria e bancaria hanno ispirato innumerevoli studenti, di varie nazionalità, molti dei quali hanno ottenuto il Ph.D con la sua supervisione. Alcuni di noi, studenti italiani alla LSE, a metà degli anni Settanta andavamo a UCL a sentire le sue lezioni, come antidoto alla versione IS-LM del pensiero keynesiano che ci veniva somministrata nel corso di Macroeconomia.
Quest’opera è distribuita con licenza internazionale Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0. Copia della licenza è disponibile alla URL http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/
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Luigi Lodovico Pasinetti
Zanica, 12 settembre 1930 - Varese, 31 gennaio 2023
di Joseph Halevi1
Abstract: L’articolo commemora la vita intellettuale di Luigi Pasinetti, purtroppo scomparso alla fine del mese di gennaio di quest’anno. Vengono presentate e discusse le fasi salienti dei suoi studi e dei suoi contributi scientifici culminati nell’opera Structural Change and Economic Growth pubblicata nel 1981. Nell’articolo si mostra come Pasinetti avesse sviluppato le idee principali che guideranno la sua ricerca già tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del secolo scorso. In questo contesto viene evidenziata l’importanza dirompente della sua teoria concernente i processi produttivi verticalmente integrati e come questa rappresenti uno sviluppo positivo rispetto ai dibattiti riguardo alla teoria neoclassica del capitale e della distribuzione. Si conclude sottolineando la coerenza tra l’approccio teorico di Pasinetti e la sua filosofia morale incentrata sulla priorità del lavoro sul capitale.
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Luigi Pasinetti nacque il 12 settembre 1930 a Zanica, un piccolo paese nella provincia di Bergamo. Secondo la biografia scritta da Mauro Baranzini e Amalia Mirante (2018), la perdita prematura nel 1949 della madre, che lavorava come ostetrica ufficiale del paese e che costituiva un’importante fonte di reddito dal momento che l’impresa edile del padre incontrò difficoltà economiche a causa della guerra, costrinse il giovane Luigi a cercare lavoro appena terminate le scuole secondarie. Si iscrisse dunque ai corsi serali della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica di Milano, da cui si laureò nel 1955 con una tesi intitolata Modelli econometrici e loro applicazione all’analisi del ciclo commerciale.
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

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Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto





































