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bollettinoculturale

Introduzione al confronto con gli economisti austriaci

di Bollettino Culturale

images 164fetUn vantaggio nel discutere con gli economisti austriaci è che, a differenza dei neoclassici moderni, sostengono che è necessaria una teoria del valore e che, inoltre, le domande fondamentali non vengono risolte facendo appello a formulazioni matematiche, come nel caso del soliti manuali microeconomici. Per questo motivo, la controversia ruota attorno a principi concettuali fondamentali.

L'idea prevalente degli economisti austriaci è che il valore derivi dall'utilità che il consumatore attribuisce al bene che acquista. Pertanto, l'accento è posto sul rapporto dell'individuo con i suoi bisogni e il bene. "Il valore dei beni si basa sul rapporto dei beni con i nostri bisogni, non sui beni stessi", scrive Menger. Di conseguenza, il valore "è il significato che beni specifici o quantità parziali di beni acquisiscono per noi, quando siamo consapevoli di dipendere da essi per la soddisfazione dei nostri bisogni.”

La valutazione del consumatore consiste nel preferire un particolare incremento di un bene rispetto a incrementi di altri beni (un modo per evitare l'obiezione nota come "il paradosso del diamante e dell'acqua"). L'individuo stabilisce una scala o una classifica delle preferenze e i prezzi sono il riflesso di questa scala.

Pertanto, e sempre secondo gli austriaci, il valore non può essere prodotto. Respingono la tesi secondo cui il capitale genera valore e che l'interesse è spiegato dalla produttività marginale del capitale o che il salario è uguale alla produttività marginale del lavoro. Come spiega Böhm Bawerk, la produzione genera solo beni che hanno valore in base alla valutazione che ne fanno i consumatori.

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asimmetrie

La monetizzazione del disavanzo nella letteratura macroeconomica recente (pre e post-Covid)

di Fulvio Corsi*

dollari volanti1200Cenni sul funzionamento dell’attuale sistema monetario

Già prima dell’arrivo del COVID-19 le principali economie europee, nonostante gli enormi interventi di politica monetaria (tassi zero o negativi e QE), si trovavano in una grave condizione di stagnazione associata ad un pericoloso rischio di deflazione. L’arrivo dello shock COVID-19 ha enormemente aggravato la già delicata situazione trascinando le economie di tutto il mondo in un profonda recessione con una ancora più accentuata dinamica deflazionistica. E’ evidente a tutti gli osservatori che imponenti misure di sostegno e stimolo all’economia sono urgentemente necessarie. Purtroppo però, soprattutto in Europa, le tradizionali misure di stimolo dell’economia erano già risultate largamente insufficienti persino nel periodo di stagnazione pre-Covid. Risulta quindi difficile pensare che questo tipo di misure possano consentire di affrontare adeguatamente la fase, molto più critica, di recessione economica post-Covid.

Ma perché le tradizionali leve di intervento macroeconomico risultano attualmente inadeguate? La ragione è da ricercarsi nel modo in cui il sistema crea endogenamente i mezzi di pagamento necessari per consentire gli scambi economici. Anche volendo partire dalla teoria quantitativa della moneta cara ai neoclassici e monetaristi, MV=PY, è evidente che a parità di velocità della moneta V, che dipende dalle abitudini di pagamento e che in periodi di crisi tende semmai a ridursi, è possibile avere un aumento del reddito nominale PY (reddito reale Y per livello dei prezzi P) solo a patto che la quantità di moneta M utilizzata per transazioni legate al PIL aumenti.

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economiaepolitica

Le determinanti della produttività del lavoro nell’Area Euro

di Stefano Lucarelli, Marco Veronese Passarella

fdca832747ee7b15cabc6c30235689ec1. La funzione della produttività di Paolo Sylos Labini

Il divario nei tassi di crescita della produttività del lavoro tra centro e periferie europee viene spesso indicato come uno dei principali fattori alla base degli squilibri esteri dei paesi membri dell’Area Euro che hanno segnato il primo decennio degli anni duemila (si veda, ad esempio, Draghi 2013). Proprio quel divario fornisce il maggiore argomento a favore delle cosiddette “riforme strutturali”, chiamate a risollevare la competitività delle produzioni periferiche attraverso un aumento della flessibilità nelle condizioni lavorative. Ricondurre la dinamica della produttività del lavoro alla struttura del mercato del lavoro dei paesi membri dell’Area Euro ha l’indubbio vantaggio di mettere in luce il fatto che la prima non è il semplice riflesso di condizioni tecniche esogene. Al contrario, la produttività del lavoro è una grandezza endogena che dipende da una varietà di fattori economici, sociali e istituzionali. Ma è davvero la struttura del mercato del lavoro il fattore più importante? Non la pensava così Paolo Sylos Labini (1920-2005), uno dei più influenti ed acuti economisti italiani del ventesimo secolo. Per Sylos Labini le determinanti chiave della produttività del lavoro andrebbero piuttosto ricercate nella crescita dei mercati dei prodotti, nel rapporto tra costo del lavoro e prezzo dei macchinari, nel costo assoluto del lavoro e nella dinamica degli investimenti (si rinvia a Sylos Labini 1984, 1992, 2004).

Che l’estensione del mercato sia uno dei principali vincoli alla divisione del lavoro e dunque all’introduzione di innovazioni tecniche ed organizzative è un’osservazione che si deve già al padre dell’economica politica, Adam Smith, il quale ne parla estesamente nella sua Ricchezza delle Nazioni del 1776.

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poliscritture

Sul nuovo libro di Thomas Piketty

di Franco Lissa

Questo “libro-mattone” è importantissimo, perché pone al centro dell’attenzione, e in modi non propagandistici ma scientificamente documentati, la questione-spia delle crescenti ineguaglianze che la mondializzazione sta solidificando. Come ricorda Franco Lissa in questa sua puntuale presentazione: ” L’1% più ricco della popolazione si è appropriato del 27% della crescita mentre il 50% dei più poveri ha avuto una crescita del 12%. Le classi medie e popolari dei paesi ricchi hanno subìto una perdita importante del loro benessere economico, il che, come vedremo, ha provocato dei cambiamenti significativi anche a livello di rappresentanza politica”. Sulla proposta del “socialismo partecipativo” avanzata da Piketty a me restano – non avendo sgombrato la lezione di Marx dalla mia mente – molti dubbi. Ma discutiamone. [E. A.]

838 revolution francaiseIl primo atteggiamento che il lettore deve assumere di fronte alle 1200 pagine dell’ultimo libro di Thomas Piketty (Capital et Idéologie, ed. Seuil, 2019, di cui si attende la traduzione in italiano) è la fiducia nell’autore. Esso fa seguito alle 950 pagine del libro precedente (Le capital au XXI° siècle, ed. Seuil, 2013), e nonostante l’imponente dimensione, è un libro di lettura gradevole anche per un non economista di formazione, ma che sia interessato alle scienze umane, economia ovviamente, con una competenza statistica anche non specialistica, storia economica, pensiero politico, scienze sociali. Thomas Piketty è directeur d’étude alla École des hautes études en science sociales e professore all’ École d’économie di Parigi, ma collabora anche con la London School of Economics ed il Massachusetts Institute of Technology.

E’ un seguito del libro precedente, dicevo, che ha decretato il successo planetario del suo autore anche al di fuori dell’ambito universitario, un libro che è stato tradotto in 40 lingue e venduto in più di 2,5 milioni di copie. Ma in qualche misura ne è anche un superamento. Si basa, come il precedente, sulla base statistica del progetto World Inequality Database (http://WID.world), cui collaborano più di 100 ricercatori di più di 80 paesi in tutto i continenti, ma da esso si diparte in varie direzioni.

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bollettinoculturale

La teoria del valore-lavoro e i keynesiani

di Bollettino Culturale

takethebigbagNel pensiero keynesiano, ci sono argomenti a favore di una società più egualitaria e una preferenza per quote più elevate di ricchezza sociale da orientare verso il popolo. Tuttavia, la sua teoria non abbandona mai la prospettiva del capitale. L'individualismo analitico è così radicato che persino un economista keynesiano di sinistra cosciente come Joan Robinson fraintende Marx in diversi punti della sua critica, perché ritiene che la prospettiva di un singolo capitalista sia il punto di partenza, in cui l'analisi di Marx considera l'insieme sociale come precedente. Accanto a questo c'è il rifiuto di comprendere il valore come una relazione sociale, insistendo su un'analisi materialistica riduttiva. Con queste due assunzioni precedenti al lavoro i keynesiani respingono la teoria del valore-lavoro.

Robinson attaccò il concetto stesso di valore, sostenendo che era solo metafisico, una "misteriosa emanazione" nel marxismo che "era ancora in qualche modo in agguato nei prezzi relativi". Tuttavia c'è una differenza tra una qualità che non può essere apprezzata come sostanza concreta e qualcosa che non ha una vera esistenza. Esistono diverse analogie che possono spiegare questo, ma una è la coscienza umana. Finché non invochiamo il fantasma di Cartesio nella macchina, la coscienza è un fenomeno del mondo materiale, eppure non ci sono particelle di coscienza. Non esiste in questo o quel neurone come unità tangibile. Piuttosto, è la creazione della totalità dell'attività cerebrale; è una proprietà emergente che dipende dal movimento o dal processo per entrare in un'esistenza molto reale.

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sinistra

Il valore nel PIL

di Michael Roberts

construction 1921518 1280Alla recente conferenza ASSA 2020 si è tenuta una sessione per stabilire se il prodotto interno lordo (PIL), l'onnipresente misura della produzione nazionale, fosse adeguato come indicatore del "benessere o benessere sociale". Sono state avanzate varie proposte per tentare di misurare il benessere sociale, tra cui "dashboard"1 di indicatori economici e sociali, nonché approcci più esplicitamente legati alla teoria economica. Il Bureau of Economic Analysis (BEA) degli Stati Uniti ha avviato una discussione in ASSA per esaminare i pro e i contro di approcci alternativi.

Il prodotto interno lordo (PIL) è la classica misura principale del livello di produzione di un paese e persino della prosperità. È una misura monetaria del valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti in un determinato periodo di tempo. La misura risale agli albori dell'economia politica classica, con William Petty che sviluppò il concetto di base nel 17 ° secolo. Il concetto moderno è stato sviluppato per la prima volta da Simon Kuznets nel 1934 per misurare la produzione nazionale degli Stati Uniti.

Esistono tre modi per misurare il PIL. Il primo è l'approccio produttivo, che riassume i prodotti di ogni impresa. Il secondo è l'approccio della spesa che riassume tutti gli acquisti effettuati; il terzo è l'approccio del reddito che riassume tutti i redditi percepiti dai produttori.

Questi tre approcci diversi corrispondono sostanzialmente alle tre principali scuole di pensiero economico. L'approccio produttivo ha un'affinità con la scuola neoclassica, che considera la produzione nazionale come la somma di tutta la produzione dei micro-agenti. L'approccio della spesa è stato adottato dalla scuola keynesiana, che considera investimenti, consumi e risparmi a "livello macro" per misurare la "domanda effettiva".

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micromega

Capire l’economia per un rilancio delle idee di sinistra

di Saverio M. Fratini*

“Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la Crisi più lunga (e come uscirne)” di Sergio Cesaratto, scritto in un linguaggio accessibile anche a coloro che non hanno svolto studi di economia, è un manuale economico divulgativo che, richiamandosi alle idee di Keynes e Sraffa, dice qualcosa di sinistra contro il pensiero economico dominante

sei lezioni di economia sergio cesaratto recensione keynesLa divulgazione scientifica è una attività sicuramente meritoria e lo è ancora di più quando ad essere divulgate sono idee alternative rispetto all’impostazione mainstream. In tutte le scienze il pluralismo è una ricchezza: guardare i fenomeni da diversi punti di vista, o anche semplicemente sapere che diversi punti di vista esistono, aiuta sicuramente ad ampliare la nostra capacità di comprensione del mondo che ci circonda. Ciò è particolarmente vero con riferimento all’economia e alle scienze sociali in generale, in cui lo studioso è parte del sistema che studia: ne è influenzato e lo influenza. Come ha scritto Robert Solow[1] (premio Nobel nel 1987), mentre il movimento dei pianeti è completamente indipendente da ciò che pensano gli astronomi, le idee degli economisti hanno effetto sul funzionamento del sistema economico. Così, in economia, il prevalere di una impostazione sulle altre scaturisce da un intreccio di ragioni scientifiche e politiche, a sostegno dell’una o dell’altra parte sociale. Di conseguenza, a differenza di quanto avviene normalmente nelle scienze naturali, nelle scienze sociali non è affatto detto che le teorie più recenti o mainstream siano più solide e avanzate di quelle precedenti o alternative. Si vede, quindi, la grande importanza di coltivare il pluralismo e la storia del pensiero economico.

Proprio in questa direzione va il libro di Sergio Cesaratto Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la Crisi (Diarkos, 2019), giunto alla seconda edizione e già in ristampa. Con la prima lezione, infatti, Cesaratto ci riporta indietro al punto di vista degli Economisti Classici, che è stato riscoperto a partire dagli anni ’60 del XX secolo grazie ai contributi di Piero Sraffa e dei suoi allievi[2].

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bollettinoculturale

Surplus economico, il rapporto di Baran e l'accumulazione di capitale

del nostro amico Zhun Xu

baranLa crescita economica è stata senza dubbio la prima e principale questione dello sviluppo capitalista dall'economia politica classica agli studi economici più recenti. Molte discussioni sullo sviluppo si riducono alla natura e alle caratteristiche della classe dirigente. Dato che la classe dominante controlla il surplus della società, il modo in cui viene utilizzato il surplus, sia esso investito, consumato o semplicemente sprecato, è a sua discrezione. L'effettivo utilizzo dell'eccedenza implica un ragionevole tasso di accumulazione di capitale e sviluppo economico.

Nel 1957, nell'economia politica della crescita, Paul Baran ha dato un contributo fondamentale alla nostra comprensione del surplus economico, un concetto che ha introdotto nella discussione sullo sviluppo e sulla crescita. Sosteneva che anche i paesi poveri conservano ancora un notevole surplus economico oltre al consumo essenziale nazionale e che il modo in cui le classi dirigenti usano quel surplus modella le traiettorie di sviluppo delle nazioni. Eliminando i consumi della classe superiore non necessari e le inefficienze dell'economia di mercato, tra gli altri fattori, una società meglio organizzata come il socialismo consentirebbe a tutte le nazioni di crescere e svilupparsi.

Per fare un esempio della storia economica cinese, secondo l'economista Victor Lippit, il reddito pro capite in Cina era all'incirca lo stesso nel 1933 come era nel 1953. Il tasso di risparmio, tuttavia, è aumentato dall'1,7 per cento nel 1933 al 20 per cento in 1953. Questo forte aumento fu raggiunto con standard di vita sostanzialmente migliori per la gente comune. La nuova società rivoluzionaria, sosteneva Lippit, era in grado di eliminare contemporaneamente inutili consumi e sprechi d'élite e aumentare consumi e investimenti popolari.

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letture

Sei lezioni di economia

Intervista a Sergio Cesaratto

Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)

9844322 4254871Prof. Sergio Cesaratto, Lei è autore del libro Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) edito da Diarkos: in che modo la teoria economica può aiutarci a spiegare la crisi europea e dell’euro, e il declino del nostro Paese?

La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un buon successo perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino da quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti.

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eticaPA

Il Reaganismo, la Curva di Laffer e la Flat Tax

Alcune considerazioni realistiche

di John Komlos1 e Salvatore Perri2

Presentiamo un saggio degli economisti, professori John Komlos e Salvatore Perri, che pone una serie di interrogativi sui conclamati effetti positivi della politica economica adottata negli Stati Uniti dal presidente Ronald Reagan negli anni ’80. I prevalenti toni di ammirazione per quelle teorie – egli fu comunque un grande Presidente – vanno forse ridimensionati, solo a por mente agli effetti reali sugli investimenti e sulla redistribuzione dei redditi che l’applicazione di quei principi generò – e continua a generare – sull’economia mondiale

ED AS574 mitche GR 20140820161123Abstract. I partiti e i movimenti sovranisti che stanno salendo alla ribalta in gran parte dei paesi occidentali hanno come comune denominatore, di politica economica, la proposta di una riduzione generalizzata delle tasse sulla scorta delle ipotesi teoriche di Arthur Laffer. I tagli delle tasse alle classi più abbienti così come sperimentate negli Stati Uniti da Ronald Reagan e come applicate anche oggi da Donald Trump, vengono riproposte in altri termini sotto forma di regimi fiscali forfettari come la “Flat Tax”. I limiti di questa proposta risiedono proprio negli effetti a lungo termine che tali politiche hanno avuto sul tessuto sociale ed economico statunitense, nell’evanescenza, ai limiti dell’irrealismo, delle ipotesi teoriche su cui si fonda la curva di Laffer e nei possibili effetti catastrofici che una tale politica potrebbe avere sui conti pubblici di un paese indebitato, come l’Italia. Promettere meno tasse può portare consensi politici nel breve periodo, ma non è detto che non sia foriero di disastri economici nel lungo.

 

Riduzioni delle tasse e crescita tra mito e realtà

Le proposte di riduzione generalizzate delle tasse caratterizzate dallo slogan “meno tasse per tutti” hanno sempre rappresentato un formidabile catalizzatore di consensi nelle campagne elettorali dei paesi occidentali.

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moneta e credito

Note a margine del dibattito tra Blanchard e Brancaccio

Con lo sguardo rivolto al contesto italiano

di Roberto Torrini*

Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio

Le Bistro or The Wine Shop 1909 Abstract: Vengono analizzati gli elementi di contatto e di distinzione tra i punti di vista di Blanchard e Brancaccio, cercando di trarre considerazioni più generali sulle differenze tra approcci mainstream e alcuni approcci eterodossi. Si sostiene che negli approcci mainstream viene mantenuta una distinzione concettuale tra domanda e offerta in cui, con maggior nettezza rispetto agli approcci eterodossi, si individuano problemi economici che non possono essere affrontati con la gestione della domanda aggregata, anche qualora se ne ritenga utile o necessaria una gestione attiva. Condividendo questo approccio, si discute brevemente della situazione economica italiana, in cui le debolezze di offerta di lungo periodo si intrecciano con i problemi di domanda, e in cui il livello del debito pone seri vincoli alla possibilità di far ricorso alla spesa per sostenere la domanda interna. Si sottolinea infine l’utilità del dibattito accademico, anche tra scuole di pensiero diverse, che si è aperto dopo la crisi.

* * * *

La crisi finanziaria del 2008-2009 è stata un evento drammatico, con ripercussioni profonde e dolorose per milioni di persone, nonostante alcuni insegnamenti tratti dalla crisi del 1929 abbiano permesso di evitare il peggio in gran parte delle economie avanzate coinvolte. In Europa la crisi ha avuto sviluppi del tutto peculiari con il divampare della crisi dei debiti sovrani, che ha messo in luce l’inadeguatezza dei suoi assetti istituzionali, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento dell’unione monetaria. La risposta lenta dell’Unione Europea, segnata dalla contrapposizione degli interessi nazionali di breve periodo, ha prolungato ed esacerbato gli effetti della crisi finanziaria, soprattutto per le economie più deboli, incrinando le relazioni tra paesi e popoli europei.

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moneta e credito

Commento al dibattito Blanchard-Brancaccio

di Annalisa Rosselli*

Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio

scuola medioevoAbstract: Il dibattito tra Blanchard e Brancaccio suscita due riflessioni. La prima è relativa alla possibile alleanza tra economisti che appartengono a tradizioni culturali diverse per promuovere misure forti di rilancio dell’economia e di diminuzione della disuguaglianza per evitare conseguenze che potrebbero sconvolgere le nostre democrazie. La seconda riflessione riguarda la rarità di dibattiti tra economisti mainstream e non. Numerosi studi evidenziano che la professione di economista è oggi fortemente gerarchizzata, con uno stretto controllo su quello che è ritenuto ammissibile dal punto di vista del metodo, del campo di studio, dello strumento della diffusione dei risultati. La mancanza di pluralismo è una caratteristica unica dell’economia tra le scienze sociali.

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Cosa hanno in comune due economisti come Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard, aldilà della stessa origine europea? Apparentemente molto poco. Li separano gli anni di un’intera generazione, un oceano, diversità di formazione, idee e potere. Blanchard si è formato nella tradizione del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Solow e Modigliani, che ha creato il mainstream della macroeconomia del ventesimo secolo mantenendo una democratica attenzione per il problema della disoccupazione e una fiducia nella necessità e possibilità di intervenire a correggere i più clamorosi fallimenti del mercato. La tradizione culturale di Brancaccio è invece quella che è stata avviata più di mezzo secolo fa dagli italiani a Cambridge (UK) e che sopravvive in molte diverse versioni nelle riserve di alcuni dipartimenti del nostro paese, sfuggendo all’omologazione con il modello di importazione USA prevalente. È una tradizione che non ha espulso la storia – dei fatti e delle idee – dagli studi economici, che ha il coraggio di sfidare il pensiero dominante di cui non si stanca di mettere in rilievo i bias ideologici e che persegue la ricerca di un “paradigma economico alternativo” ( Blanchard e Brancaccio, 2019, p. 9).

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moneta e credito

La solitudine dell’agente rappresentativo

Eterogeneità e interazione per una nuovamacroeconomia

di Giovanni Dosi e Andrea Roventini*

Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio

mozart babyAbstract:La Grande Recessione è stata un esperimento naturale per la macroeconomica, mostrando l’inadeguatezza della teoria dominante basata sui modelli DSGE. La macroeconomia dovrebbe considerare l’economia come un sistema complesso in evoluzione, cioè come un’ecologia popolata da agenti eterogenei, che interagiscono fuori dall’equilibrio cambiando continuamente la struttura stessa del sistema.Quindi, la macroeconomia non può ridursi alle scelte micro di un agente rappresentativo, ma le complesse interazioni tra gli agenti portano all’emergenza di nuovi fenomeni e strutture gerarchiche a livello macro. Questo è alla base dei modelli ad agenti eterogenei, che offrono una nuova metodologia per modellare economie complesse “dal basso”, con microfondazioni in linea con l’evidenza empirica.

Il dibattito tra Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard si colloca nella più ampia discussione sulla crisi e possibile rifondazione della teoria macroeconomica scaturita dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla Grande Recessione (Blanchard e Summers, 2019; Brancaccio, 2019; Blanchard e Brancaccio, 2019). I due autori, in modi più o meno espliciti, affrontano temi sia teorici che di politica economica. Per Emiliano è necessario un paradigma economico alternativo rispetto a quello fondato sull’equilibrio economico generale e l’agente rappresentativo che permetta di slegare la produzione dalla distribuzione del reddito. Tale paradigma dovrebbe ri-basarsi sui contributi classici di Marx, Sraffa, Pasinetti, Garegnani e molti altri. Olivier discute cinque lezioni o sfide che la macroeconomia deve affrontare e le implicazioni per la politica monetaria e fiscale. Entrambi partono da un’ispirazione teorica keynesiana: dopo la crisi, gli economisti che credono ‘talebanamente’ nelle magnifiche sorti e progressive del libero mercato sono diventati dei panda (i cui problemi riproduttivi non andrebbero peraltro curati).

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moneta e credito

Alla ricerca di una migliore teoria macroeconomica

di Heinz D. Kurz e Neri Salvadori*

Abstract: Questo articolo sottolinea che un certo numero di elementi costitutivi della moderna macroeconomia e dei risultati che ne derivano non sono sostenibili. Il riferimento è alle presunte “microfondazioni” della teoria e, in particolare, all’uso di funzioni di produzione macroeconomiche e al metodo dell’“agente rappresentativo”. Le “leggi” semplici e apparentemente non invasive della domanda di input e dell’offerta di output non sono sostenibili in generale. I macroeconomisti sono spesso orgogliosi di sviluppare le loro argomentazioni in termini di una versione ridotta della teoria dell'equilibrio generale, ma si comportano come se ignorassero che la stabilità dell’equilibrio economico generale non può essere dimostrata in condizioni sufficientemente generali. Una ulteriore fonte di instabilità del sistema economico è riscontrabile nel carattere dirompente del cambiamento tecnologico

7255a6 292676b0e411445d877cb8205d3fc76dIn un saggio recente dal titolo provocatorio “Rethinking Stabilization Policy: Evolution or Revolution?”, Olivier J. Blanchard e Lawrence H. Summers (2017, ripubblicato in questo numero: Blanchard e Summers, 2019) affermano che il manifesto fallimento della teoria macroeconomica dominante nel dar conto della “Grande Recessione” conseguente alla crisi finanziaria innescata dal crollo del segmento subprime del mercato immobiliare statunitense del 2007-2008 dovrebbe indurre i macroeconomisti contemporanei a cambiare in modo sostanziale i loro modelli interpretativi della realtà.1

Sfortunatamente, come si evince dal titolo stesso del loro lavoro, Blanchard e Summers non si sbilanciano e non ci dicono esplicitamente se il cambiamento che essi ritengono necessario sia da interpretarsi nel senso di una semplice “evoluzione” oppure se vada ricercata una vera e propria “rivoluzione”. In ogni caso, i due autori non lasciano dubbi sul fatto che, a loro avviso, mere operazioni cosmetiche, di piccoli aggiustamenti al margine, non siano sufficienti allo scopo di colmare il gap fra teoria e realtà macroeconomica. Essi sottolineano infatti come una analisi più approfondita della complessità del settore finanziario e della sua intrinseca instabilità sia solo il primo passo: “la lezione da trarre va ben oltre e dovrebbe costringerci a mettere in dubbio alcune credenze consolidate” (Blanchard e Summers, 2019, p. 172, corsivo nostro). Le “convinzioni tanto care” agli economisti contemporanei a cui Blanchard e Summers si riferiscono includono sia la presunzione che le economie di libero mercato siano in grado di autoregolarsi in modo tutto sommato ottimale, considerati i vincoli istituzionali, informativi etc. cui sono sottoposte, sia la presunzione che shock temporanei non possano avere effetti permanenti sul PIL pro capite di medio-lungo termine (ibidem).

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moneta e credito

Blanchard e Summers: rivoluzione o conservazione?

di Roberto Ciccone e Antonella Stirati*

Abstract. E’ a nostro avviso positivo che autori come Blanchard e Summers giudichino necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e mentre rispetto all’alternativa tra “evoluzione” e “rivoluzione” da essi prospettata opteremmo certamente per la seconda, riteniamo che il rinnovamento richiesto sia di grado ancora superiore a quanto gli autori contemplino. Forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, spingono ad abbandonare definitivamente l’idea, propria dell’analisi tradizionale, secondo cui in un’economia di mercato esisterebbero forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini al “prodotto potenziale”, con le conseguenti implicazioni per la politica economica, e in particolare fiscale

Macero paesaggio olio su compensato 1. Introduzione: un’alternativa all’analisi economica dominante

Chi scrive non può che dare il benvenuto al fatto che un autore come Blanchard si presti a un confronto aperto con approcci teorici alternativi, come è avvenuto nel dibattito di Milano con Brancaccio (Blanchard e Brancaccio, 2019). Così come vediamo con favore che Blanchard e Summers (d’ora in avanti B&S), nel saggio da noi assunto a premessa e traccia per questa discussione (B&S, 2017),1 ritengano necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e cioè in quella cui i due autori ripetutamente si riferiscono come ‘macroeconomia’ – sebbene, incidentalmente, sarebbe forse più appropriato dire che il cambiamento invocato debba riguardare la teoria economica tout court, essendo questa, in ogni suo aspetto, ad avere per oggetto il modo di operare di un’economia capitalistica. E di fronte al tipo di alternativa che B&S prospettano per quel cambiamento, “evoluzione” o “rivoluzione”, opteremmo certamente per la seconda. Ma a nostro avviso il cambiamento richiesto è di grado ancora superiore rispetto a quanto B&S contemplino in entrambe le ipotesi.

Riteniamo che vi siano forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, che spingono ad abbandonare l’idea, attualmente prevalente, secondo cui in un’economia di mercato, o capitalistica, esistono forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini a quello che viene spesso definito il suo “prodotto potenziale” – vale a dire il prodotto corrispondente alla piena occupazione delle risorse disponibili, o, con riferimento al lavoro, alla variante apparentemente più concreta del tasso “naturale” o “non inflazionistico” di disoccupazione.