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La teoria del valore-lavoro e i keynesiani
di Bollettino Culturale
Nel pensiero keynesiano, ci sono argomenti a favore di una società più egualitaria e una preferenza per quote più elevate di ricchezza sociale da orientare verso il popolo. Tuttavia, la sua teoria non abbandona mai la prospettiva del capitale. L'individualismo analitico è così radicato che persino un economista keynesiano di sinistra cosciente come Joan Robinson fraintende Marx in diversi punti della sua critica, perché ritiene che la prospettiva di un singolo capitalista sia il punto di partenza, in cui l'analisi di Marx considera l'insieme sociale come precedente. Accanto a questo c'è il rifiuto di comprendere il valore come una relazione sociale, insistendo su un'analisi materialistica riduttiva. Con queste due assunzioni precedenti al lavoro i keynesiani respingono la teoria del valore-lavoro.
Robinson attaccò il concetto stesso di valore, sostenendo che era solo metafisico, una "misteriosa emanazione" nel marxismo che "era ancora in qualche modo in agguato nei prezzi relativi". Tuttavia c'è una differenza tra una qualità che non può essere apprezzata come sostanza concreta e qualcosa che non ha una vera esistenza. Esistono diverse analogie che possono spiegare questo, ma una è la coscienza umana. Finché non invochiamo il fantasma di Cartesio nella macchina, la coscienza è un fenomeno del mondo materiale, eppure non ci sono particelle di coscienza. Non esiste in questo o quel neurone come unità tangibile. Piuttosto, è la creazione della totalità dell'attività cerebrale; è una proprietà emergente che dipende dal movimento o dal processo per entrare in un'esistenza molto reale.
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Il valore nel PIL
di Michael Roberts
Alla recente conferenza ASSA 2020 si è tenuta una sessione per stabilire se il prodotto interno lordo (PIL), l'onnipresente misura della produzione nazionale, fosse adeguato come indicatore del "benessere o benessere sociale". Sono state avanzate varie proposte per tentare di misurare il benessere sociale, tra cui "dashboard"1 di indicatori economici e sociali, nonché approcci più esplicitamente legati alla teoria economica. Il Bureau of Economic Analysis (BEA) degli Stati Uniti ha avviato una discussione in ASSA per esaminare i pro e i contro di approcci alternativi.
Il prodotto interno lordo (PIL) è la classica misura principale del livello di produzione di un paese e persino della prosperità. È una misura monetaria del valore di mercato di tutti i beni e servizi finali prodotti in un determinato periodo di tempo. La misura risale agli albori dell'economia politica classica, con William Petty che sviluppò il concetto di base nel 17 ° secolo. Il concetto moderno è stato sviluppato per la prima volta da Simon Kuznets nel 1934 per misurare la produzione nazionale degli Stati Uniti.
Esistono tre modi per misurare il PIL. Il primo è l'approccio produttivo, che riassume i prodotti di ogni impresa. Il secondo è l'approccio della spesa che riassume tutti gli acquisti effettuati; il terzo è l'approccio del reddito che riassume tutti i redditi percepiti dai produttori.
Questi tre approcci diversi corrispondono sostanzialmente alle tre principali scuole di pensiero economico. L'approccio produttivo ha un'affinità con la scuola neoclassica, che considera la produzione nazionale come la somma di tutta la produzione dei micro-agenti. L'approccio della spesa è stato adottato dalla scuola keynesiana, che considera investimenti, consumi e risparmi a "livello macro" per misurare la "domanda effettiva".
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Capire l’economia per un rilancio delle idee di sinistra
di Saverio M. Fratini*
“Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la Crisi più lunga (e come uscirne)” di Sergio Cesaratto, scritto in un linguaggio accessibile anche a coloro che non hanno svolto studi di economia, è un manuale economico divulgativo che, richiamandosi alle idee di Keynes e Sraffa, dice qualcosa di sinistra contro il pensiero economico dominante
La divulgazione scientifica è una attività sicuramente meritoria e lo è ancora di più quando ad essere divulgate sono idee alternative rispetto all’impostazione mainstream. In tutte le scienze il pluralismo è una ricchezza: guardare i fenomeni da diversi punti di vista, o anche semplicemente sapere che diversi punti di vista esistono, aiuta sicuramente ad ampliare la nostra capacità di comprensione del mondo che ci circonda. Ciò è particolarmente vero con riferimento all’economia e alle scienze sociali in generale, in cui lo studioso è parte del sistema che studia: ne è influenzato e lo influenza. Come ha scritto Robert Solow[1] (premio Nobel nel 1987), mentre il movimento dei pianeti è completamente indipendente da ciò che pensano gli astronomi, le idee degli economisti hanno effetto sul funzionamento del sistema economico. Così, in economia, il prevalere di una impostazione sulle altre scaturisce da un intreccio di ragioni scientifiche e politiche, a sostegno dell’una o dell’altra parte sociale. Di conseguenza, a differenza di quanto avviene normalmente nelle scienze naturali, nelle scienze sociali non è affatto detto che le teorie più recenti o mainstream siano più solide e avanzate di quelle precedenti o alternative. Si vede, quindi, la grande importanza di coltivare il pluralismo e la storia del pensiero economico.
Proprio in questa direzione va il libro di Sergio Cesaratto Sei Lezioni di Economia - Conoscenze Necessarie per Capire la Crisi (Diarkos, 2019), giunto alla seconda edizione e già in ristampa. Con la prima lezione, infatti, Cesaratto ci riporta indietro al punto di vista degli Economisti Classici, che è stato riscoperto a partire dagli anni ’60 del XX secolo grazie ai contributi di Piero Sraffa e dei suoi allievi[2].
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Surplus economico, il rapporto di Baran e l'accumulazione di capitale
del nostro amico Zhun Xu
La crescita economica è stata senza dubbio la prima e principale questione dello sviluppo capitalista dall'economia politica classica agli studi economici più recenti. Molte discussioni sullo sviluppo si riducono alla natura e alle caratteristiche della classe dirigente. Dato che la classe dominante controlla il surplus della società, il modo in cui viene utilizzato il surplus, sia esso investito, consumato o semplicemente sprecato, è a sua discrezione. L'effettivo utilizzo dell'eccedenza implica un ragionevole tasso di accumulazione di capitale e sviluppo economico.
Nel 1957, nell'economia politica della crescita, Paul Baran ha dato un contributo fondamentale alla nostra comprensione del surplus economico, un concetto che ha introdotto nella discussione sullo sviluppo e sulla crescita. Sosteneva che anche i paesi poveri conservano ancora un notevole surplus economico oltre al consumo essenziale nazionale e che il modo in cui le classi dirigenti usano quel surplus modella le traiettorie di sviluppo delle nazioni. Eliminando i consumi della classe superiore non necessari e le inefficienze dell'economia di mercato, tra gli altri fattori, una società meglio organizzata come il socialismo consentirebbe a tutte le nazioni di crescere e svilupparsi.
Per fare un esempio della storia economica cinese, secondo l'economista Victor Lippit, il reddito pro capite in Cina era all'incirca lo stesso nel 1933 come era nel 1953. Il tasso di risparmio, tuttavia, è aumentato dall'1,7 per cento nel 1933 al 20 per cento in 1953. Questo forte aumento fu raggiunto con standard di vita sostanzialmente migliori per la gente comune. La nuova società rivoluzionaria, sosteneva Lippit, era in grado di eliminare contemporaneamente inutili consumi e sprechi d'élite e aumentare consumi e investimenti popolari.
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Sei lezioni di economia
Intervista a Sergio Cesaratto
Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)
Prof. Sergio Cesaratto, Lei è autore del libro Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) edito da Diarkos: in che modo la teoria economica può aiutarci a spiegare la crisi europea e dell’euro, e il declino del nostro Paese?
La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un buon successo perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino da quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti.
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Il Reaganismo, la Curva di Laffer e la Flat Tax
Alcune considerazioni realistiche
di John Komlos1 e Salvatore Perri2
Presentiamo un saggio degli economisti, professori John Komlos e Salvatore Perri, che pone una serie di interrogativi sui conclamati effetti positivi della politica economica adottata negli Stati Uniti dal presidente Ronald Reagan negli anni ’80. I prevalenti toni di ammirazione per quelle teorie – egli fu comunque un grande Presidente – vanno forse ridimensionati, solo a por mente agli effetti reali sugli investimenti e sulla redistribuzione dei redditi che l’applicazione di quei principi generò – e continua a generare – sull’economia mondiale
Abstract. I partiti e i movimenti sovranisti che stanno salendo alla ribalta in gran parte dei paesi occidentali hanno come comune denominatore, di politica economica, la proposta di una riduzione generalizzata delle tasse sulla scorta delle ipotesi teoriche di Arthur Laffer. I tagli delle tasse alle classi più abbienti così come sperimentate negli Stati Uniti da Ronald Reagan e come applicate anche oggi da Donald Trump, vengono riproposte in altri termini sotto forma di regimi fiscali forfettari come la “Flat Tax”. I limiti di questa proposta risiedono proprio negli effetti a lungo termine che tali politiche hanno avuto sul tessuto sociale ed economico statunitense, nell’evanescenza, ai limiti dell’irrealismo, delle ipotesi teoriche su cui si fonda la curva di Laffer e nei possibili effetti catastrofici che una tale politica potrebbe avere sui conti pubblici di un paese indebitato, come l’Italia. Promettere meno tasse può portare consensi politici nel breve periodo, ma non è detto che non sia foriero di disastri economici nel lungo.
Riduzioni delle tasse e crescita tra mito e realtà
Le proposte di riduzione generalizzate delle tasse caratterizzate dallo slogan “meno tasse per tutti” hanno sempre rappresentato un formidabile catalizzatore di consensi nelle campagne elettorali dei paesi occidentali.
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Note a margine del dibattito tra Blanchard e Brancaccio
Con lo sguardo rivolto al contesto italiano
di Roberto Torrini*
Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio
Abstract: Vengono analizzati gli elementi di contatto e di distinzione tra i punti di vista di Blanchard e Brancaccio, cercando di trarre considerazioni più generali sulle differenze tra approcci mainstream e alcuni approcci eterodossi. Si sostiene che negli approcci mainstream viene mantenuta una distinzione concettuale tra domanda e offerta in cui, con maggior nettezza rispetto agli approcci eterodossi, si individuano problemi economici che non possono essere affrontati con la gestione della domanda aggregata, anche qualora se ne ritenga utile o necessaria una gestione attiva. Condividendo questo approccio, si discute brevemente della situazione economica italiana, in cui le debolezze di offerta di lungo periodo si intrecciano con i problemi di domanda, e in cui il livello del debito pone seri vincoli alla possibilità di far ricorso alla spesa per sostenere la domanda interna. Si sottolinea infine l’utilità del dibattito accademico, anche tra scuole di pensiero diverse, che si è aperto dopo la crisi.
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La crisi finanziaria del 2008-2009 è stata un evento drammatico, con ripercussioni profonde e dolorose per milioni di persone, nonostante alcuni insegnamenti tratti dalla crisi del 1929 abbiano permesso di evitare il peggio in gran parte delle economie avanzate coinvolte. In Europa la crisi ha avuto sviluppi del tutto peculiari con il divampare della crisi dei debiti sovrani, che ha messo in luce l’inadeguatezza dei suoi assetti istituzionali, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento dell’unione monetaria. La risposta lenta dell’Unione Europea, segnata dalla contrapposizione degli interessi nazionali di breve periodo, ha prolungato ed esacerbato gli effetti della crisi finanziaria, soprattutto per le economie più deboli, incrinando le relazioni tra paesi e popoli europei.
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Commento al dibattito Blanchard-Brancaccio
di Annalisa Rosselli*
Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio
Abstract: Il dibattito tra Blanchard e Brancaccio suscita due riflessioni. La prima è relativa alla possibile alleanza tra economisti che appartengono a tradizioni culturali diverse per promuovere misure forti di rilancio dell’economia e di diminuzione della disuguaglianza per evitare conseguenze che potrebbero sconvolgere le nostre democrazie. La seconda riflessione riguarda la rarità di dibattiti tra economisti mainstream e non. Numerosi studi evidenziano che la professione di economista è oggi fortemente gerarchizzata, con uno stretto controllo su quello che è ritenuto ammissibile dal punto di vista del metodo, del campo di studio, dello strumento della diffusione dei risultati. La mancanza di pluralismo è una caratteristica unica dell’economia tra le scienze sociali.
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Cosa hanno in comune due economisti come Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard, aldilà della stessa origine europea? Apparentemente molto poco. Li separano gli anni di un’intera generazione, un oceano, diversità di formazione, idee e potere. Blanchard si è formato nella tradizione del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Solow e Modigliani, che ha creato il mainstream della macroeconomia del ventesimo secolo mantenendo una democratica attenzione per il problema della disoccupazione e una fiducia nella necessità e possibilità di intervenire a correggere i più clamorosi fallimenti del mercato. La tradizione culturale di Brancaccio è invece quella che è stata avviata più di mezzo secolo fa dagli italiani a Cambridge (UK) e che sopravvive in molte diverse versioni nelle riserve di alcuni dipartimenti del nostro paese, sfuggendo all’omologazione con il modello di importazione USA prevalente. È una tradizione che non ha espulso la storia – dei fatti e delle idee – dagli studi economici, che ha il coraggio di sfidare il pensiero dominante di cui non si stanca di mettere in rilievo i bias ideologici e che persegue la ricerca di un “paradigma economico alternativo” ( Blanchard e Brancaccio, 2019, p. 9).
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La solitudine dell’agente rappresentativo
Eterogeneità e interazione per una nuovamacroeconomia
di Giovanni Dosi e Andrea Roventini*
Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio
Abstract:La Grande Recessione è stata un esperimento naturale per la macroeconomica, mostrando l’inadeguatezza della teoria dominante basata sui modelli DSGE. La macroeconomia dovrebbe considerare l’economia come un sistema complesso in evoluzione, cioè come un’ecologia popolata da agenti eterogenei, che interagiscono fuori dall’equilibrio cambiando continuamente la struttura stessa del sistema.Quindi, la macroeconomia non può ridursi alle scelte micro di un agente rappresentativo, ma le complesse interazioni tra gli agenti portano all’emergenza di nuovi fenomeni e strutture gerarchiche a livello macro. Questo è alla base dei modelli ad agenti eterogenei, che offrono una nuova metodologia per modellare economie complesse “dal basso”, con microfondazioni in linea con l’evidenza empirica.
Il dibattito tra Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard si colloca nella più ampia discussione sulla crisi e possibile rifondazione della teoria macroeconomica scaturita dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla Grande Recessione (Blanchard e Summers, 2019; Brancaccio, 2019; Blanchard e Brancaccio, 2019). I due autori, in modi più o meno espliciti, affrontano temi sia teorici che di politica economica. Per Emiliano è necessario un paradigma economico alternativo rispetto a quello fondato sull’equilibrio economico generale e l’agente rappresentativo che permetta di slegare la produzione dalla distribuzione del reddito. Tale paradigma dovrebbe ri-basarsi sui contributi classici di Marx, Sraffa, Pasinetti, Garegnani e molti altri. Olivier discute cinque lezioni o sfide che la macroeconomia deve affrontare e le implicazioni per la politica monetaria e fiscale. Entrambi partono da un’ispirazione teorica keynesiana: dopo la crisi, gli economisti che credono ‘talebanamente’ nelle magnifiche sorti e progressive del libero mercato sono diventati dei panda (i cui problemi riproduttivi non andrebbero peraltro curati).
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Alla ricerca di una migliore teoria macroeconomica
di Heinz D. Kurz e Neri Salvadori*
Abstract: Questo articolo sottolinea che un certo numero di elementi costitutivi della moderna macroeconomia e dei risultati che ne derivano non sono sostenibili. Il riferimento è alle presunte “microfondazioni” della teoria e, in particolare, all’uso di funzioni di produzione macroeconomiche e al metodo dell’“agente rappresentativo”. Le “leggi” semplici e apparentemente non invasive della domanda di input e dell’offerta di output non sono sostenibili in generale. I macroeconomisti sono spesso orgogliosi di sviluppare le loro argomentazioni in termini di una versione ridotta della teoria dell'equilibrio generale, ma si comportano come se ignorassero che la stabilità dell’equilibrio economico generale non può essere dimostrata in condizioni sufficientemente generali. Una ulteriore fonte di instabilità del sistema economico è riscontrabile nel carattere dirompente del cambiamento tecnologico
In un saggio recente dal titolo provocatorio “Rethinking Stabilization Policy: Evolution or Revolution?”, Olivier J. Blanchard e Lawrence H. Summers (2017, ripubblicato in questo numero: Blanchard e Summers, 2019) affermano che il manifesto fallimento della teoria macroeconomica dominante nel dar conto della “Grande Recessione” conseguente alla crisi finanziaria innescata dal crollo del segmento subprime del mercato immobiliare statunitense del 2007-2008 dovrebbe indurre i macroeconomisti contemporanei a cambiare in modo sostanziale i loro modelli interpretativi della realtà.1
Sfortunatamente, come si evince dal titolo stesso del loro lavoro, Blanchard e Summers non si sbilanciano e non ci dicono esplicitamente se il cambiamento che essi ritengono necessario sia da interpretarsi nel senso di una semplice “evoluzione” oppure se vada ricercata una vera e propria “rivoluzione”. In ogni caso, i due autori non lasciano dubbi sul fatto che, a loro avviso, mere operazioni cosmetiche, di piccoli aggiustamenti al margine, non siano sufficienti allo scopo di colmare il gap fra teoria e realtà macroeconomica. Essi sottolineano infatti come una analisi più approfondita della complessità del settore finanziario e della sua intrinseca instabilità sia solo il primo passo: “la lezione da trarre va ben oltre e dovrebbe costringerci a mettere in dubbio alcune credenze consolidate” (Blanchard e Summers, 2019, p. 172, corsivo nostro). Le “convinzioni tanto care” agli economisti contemporanei a cui Blanchard e Summers si riferiscono includono sia la presunzione che le economie di libero mercato siano in grado di autoregolarsi in modo tutto sommato ottimale, considerati i vincoli istituzionali, informativi etc. cui sono sottoposte, sia la presunzione che shock temporanei non possano avere effetti permanenti sul PIL pro capite di medio-lungo termine (ibidem).
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Blanchard e Summers: rivoluzione o conservazione?
di Roberto Ciccone e Antonella Stirati*
Abstract. E’ a nostro avviso positivo che autori come Blanchard e Summers giudichino necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e mentre rispetto all’alternativa tra “evoluzione” e “rivoluzione” da essi prospettata opteremmo certamente per la seconda, riteniamo che il rinnovamento richiesto sia di grado ancora superiore a quanto gli autori contemplino. Forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, spingono ad abbandonare definitivamente l’idea, propria dell’analisi tradizionale, secondo cui in un’economia di mercato esisterebbero forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini al “prodotto potenziale”, con le conseguenti implicazioni per la politica economica, e in particolare fiscale
1. Introduzione: un’alternativa all’analisi economica dominante
Chi scrive non può che dare il benvenuto al fatto che un autore come Blanchard si presti a un confronto aperto con approcci teorici alternativi, come è avvenuto nel dibattito di Milano con Brancaccio (Blanchard e Brancaccio, 2019). Così come vediamo con favore che Blanchard e Summers (d’ora in avanti B&S), nel saggio da noi assunto a premessa e traccia per questa discussione (B&S, 2017),1 ritengano necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e cioè in quella cui i due autori ripetutamente si riferiscono come ‘macroeconomia’ – sebbene, incidentalmente, sarebbe forse più appropriato dire che il cambiamento invocato debba riguardare la teoria economica tout court, essendo questa, in ogni suo aspetto, ad avere per oggetto il modo di operare di un’economia capitalistica. E di fronte al tipo di alternativa che B&S prospettano per quel cambiamento, “evoluzione” o “rivoluzione”, opteremmo certamente per la seconda. Ma a nostro avviso il cambiamento richiesto è di grado ancora superiore rispetto a quanto B&S contemplino in entrambe le ipotesi.
Riteniamo che vi siano forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, che spingono ad abbandonare l’idea, attualmente prevalente, secondo cui in un’economia di mercato, o capitalistica, esistono forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini a quello che viene spesso definito il suo “prodotto potenziale” – vale a dire il prodotto corrispondente alla piena occupazione delle risorse disponibili, o, con riferimento al lavoro, alla variante apparentemente più concreta del tasso “naturale” o “non inflazionistico” di disoccupazione.
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Sulle condizioni per una “rivoluzione” della teoria e della politica economica
di Emiliano Brancaccio*
In linea con la tradizione del Massachusetts Institute of Technology di cui fanno parte, i modelli macroeconomici mainstream di Olivier Blanchard possono essere sottoposti a un “ribaltamento” logico in grado di renderli compatibili con schemi alternativi che rifiutano la teoria neoclassica dei prezzi come indici di scarsità e il nesso tra produzione e distribuzione che da essa scaturisce. Tale ribaltamento logico sembra in grado di offrire una più solida base teorica alla “rivoluzione” della politica macroeconomica recentemente invocata da Blanchard e Summers, che viene qui sottoposta a un esame critico
A proposito di libri “Anti”, permettetemi qualche citazione preliminare. L’Anti-Catone di Giulio Cesare fu la raffigurazione letteraria di un passaggio epocale, quello che in poco più di un decennio avrebbe sancito la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero romano. A quanto pare, proprio all’Anti-Catone si ispirò Friedrich Engels, autore dell’Anti-Duhring, un libro che a sua volta segnò una fase cruciale dello scontro tra due opposte filosofie della scienza: l’idealismo e il materialismo. Ebbene, nel nostro piccolo, nel nostro infinitesimo, con l’Anti-Blanchard in un certo senso noi abbiamo tratto ispirazione da questi grandi esempi (Brancaccio e Califano, 2018).
Beninteso, l’Anti-Blanchard è un piccolo esperimento, peraltro confinato nell’ambito ristretto della critica della macroeconomia. Tuttavia, anch’esso è un libro che sebbene nel suo titolo si confronti con una sola persona, di fatto tenta di richiamare alla luce una disputa di carattere molto più generale, oserei dire collettiva: vale a dire la disputa, oggi sommersa e un po’ dimenticata, tra la concezione attualmente prevalente della teoria e della politica economica e un paradigma economico alternativo che prende le mosse dalle cosiddette scuole di pensiero economico critico. Quel piccolo libro è dunque in fin dei conti la ragione per cui abbiamo proposto questa inconsueta occasione di dibattito alla Fondazione Feltrinelli, che ringraziamo per averla messa in opera. E ovviamente ringraziamo Olivier Blanchard per avere accettato questo nostro invito.
Ora, perché proprio l’Anti-Blanchard? Perché non un “Anti-Lucas”, o un “Anti-Prescott”, o un “Anti-Sargent”? Il primo motivo è che l’esperienza di Olivier Blanchard è di tale importanza che trascende la sua stessa persona, a mio avviso più di quanto sia accaduto a qualsiasi altro economista vivente.
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Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica
Introduzione*
di Mauro Gallegati
Questo numero speciale di Moneta e Credito ( N. 287 Settembre 2019, Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio, a cura di Emiliano Brancaccio e Fabiana De Cristofaro) raccoglie gli atti di un simposio ispirato da un dialogo tra Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio sulle crisi e le possibili future “rivoluzioni” della teoria e della politica economica. Il simposio evidenzia le potenzialità di una rinnovata comunicazione tra paradigmi concorrenti e di una critica costruttiva all’approccio oggi dominante ai fini di un rinnovato progresso della conoscenza in campo economico.
Questo numero di Moneta e Credito pubblica gli atti inerenti al dibattito “There is (no) alternative: pensare un’alternativa”, con Olivier Blanchard ed Emiliano Brancaccio, tenutosi a Milano il 19 dicembre 2018 e organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (Blanchard e Brancaccio, 2019). Già capo economista del Fondo Monetario Internazionale negli anni della crisi e tra i massimi esponenti dell’approccio prevalente di teoria e politica economica, Blanchard ha mostrato una crescente disponibilità a rivedere alcuni capisaldi dell’impostazione mainstream. Negli ultimi anni egli ha pure riconosciuto la possibilità di trarre ispirazione da linee di ricerca eretiche, come quelle di Minsky, Kaldor e altri. La sua partecipazione all’iniziativa di Milano si inscrive in questo percorso. Nell’occasione Blanchard si è confrontato con Emiliano Brancaccio, esponente delle scuole di pensiero economico critico nonché autore dell’Anti-Blanchard, un testo di macroeconomia comparata che in questi anni ha suscitato un interesse diffuso non solo tra gli studiosi eterodossi ma anche nelle file del mainstream accademico (Brancaccio, 2017; Brancaccio e Califano, 2018).
Nel 1997 Blanchard pubblicava Macroeconomics, un manuale destinato a diventare di straordinario successo, che egli presentava così: “My hope is that, as a result, readers of this book will see macroeconomics as a coherent whole, not as a collection of models drawn from a hat” (Blanchard, 1997). Da allora il suo manuale rappresenta la versione più avanzata della nuova sintesi neoclassica (Blanchard, 2016). Come nella migliore tradizione didattica statunitense, si concentra sul “nucleo” della macroeconomia contemporanea e dà allo studente l’impressione che la teoria economica segua un sentiero unico e progressivo. Dei dibattiti e dei differenti approcci non c’è traccia. Sembra la conferma del detto di Maffeo Pantaleoni secondo cui in economia esistono solo due scuole: chi la conosce e gli altri.
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L’economia italiana ai tempi del sovranismo: una nota
di Guglielmo Forges Davanzati[1]
Questa nota si propone di (i) dar conto di alcune fallacie delle teorie sovraniste (ovvero del complesso di elaborazioni teoriche che imputano la crisi economica italiana all’adozione dell’euro e che invocano il ritorno alla valuta nazionale); (ii) evidenziare come, sebbene spesso implicitamente e forse inconsapevolmente, queste teorie siano funzionali a un progetto di secessione del Paese, da attuare mediante il trasferimento di risorse e di competenze legislative ad alcune Regioni del Nord. In quanto segue, per ragioni di spazio, non si farà distinzione fra le versioni ‘di sinistra’ e di ‘destra’ del sovranismo: data la prevalenza, in questa fase storica, della seconda versione, l’argomentazione che segue è sostanzialmente riferita a questa.
- Alcuni argomenti contro il sovranismo economico
Un argomento caro ai sovranisti italiani – ovvero a coloro che propongono il recupero della sovranità nazionale anche mediante l’abbandono unilaterale da parte dell’Italia dell’euro – riguarda il fatto che l’unificazione monetaria europea avrebbe determinato un’ondata di acquisizioni di imprese italiane da parte di imprese di altri Paesi europei.
Non vi è dubbio che questo si è verificato, ma non vi è dubbio che ciò si è verificato non per l’adesione dell’Italia al progetto di unificazione europeo, ma per effetto della lunga recessione della nostra economia (a iniziare dai primi anni novanta) e della conseguente perdita di potere politico del nostro Paese. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – essendo l’Unione monetaria europea un’unione formale di Paesi in concorrenza fra loro – sono i Paesi con i sistemi produttivi più competitivi ad avere maggiore potere politico.
Fin quando l’Unione europea rimarrà tale, è alquanto ingenuo criticarla sul piano delle asimmetrie nel rispetto delle regole, giacché una siffatta critica confonde la dimensione del potere con la dimensione morale: è palese, infatti, che in generale, e ancor più in un assetto conflittuale, le regole risentono dei rapporti di forza e il modo in cui sono costruite e il modo in cui vengono o meno rispettate lo stabilisce il Paese (o il gruppo di Paesi) con maggiore potere politico.
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La centralizzazione del capitale e la caduta del saggio di profitto
di Giordano Sivini
Il peso del capitale fittizio a partire dalle evidenze empiriche del Mckinsey Global Institute 14/6/2019
L’economia mainstream considera il sistema finanziario come creatore di ricchezza. Stavros Mayroudeas, economista greco, osserva che anche una parte degli economisti marxisti sono contagiati da questa tesi, e che il contagio viene espresso con molte sfumature slegando il profitto dal rapporto con la valorizzazione. “La tesi di base è che il capitalismo moderno ha subito una trasformazione radicale negli ultimi trent’anni. Il sistema finanziario, attraverso una serie di meccanismi innovativi, ha conquistato le posizioni di comando del capitalismo. È diventato indipendente dal capitale produttivo ed ha trasformato l’intero sistema secondo le proprie logiche”[1].
Questa tesi porta a concentrare l’analisi sul rapporto D-D’, dimenticando che, in qualsiasi interpretazione che si richiami al marxismo, il capitalismo non può che essere identificato con la produzione di plusvalore, risultato della relazione D-M-D’. La centralità dei processi di valorizzazione è essenziale, sia quando si intende, con Harvey, che il capitale si trasforma indefinitamente, sia quando, a partire da Kurz, si sostiene che si è arrestata la sua capacità di produrre valore. Da qui muove l'interpretazione del passaggio dalla valorizzazione alla finanziarizzazione come risultato di una crisi del capitale produttivo di merce che provoca l’inversione del suo rapporto con il capitale produttivo di interesse. Questo, non potendo accrescersi nel circuito D-M-D’, si riversa su D-D’ e produce capitale fittizio[2].
L’attuale inversione non è riconducibile alla teoria delle crisi segnate da temporanee inversioni nelle quali il credito contribuisce a riattivare il movimento di un capitale che continuamente si ridefinisce. Fino a quando di questa riattivazione non emergono almeno i sintomi, non si può scartare l’ipotesi che la crisi attuale vada collocata nella fase terminale del tempo lungo della caduta del tasso di profitto, una volta esaurita la capacità del capitale di produrre controtendenze.
A stimolare una riflessione in proposito arrivano i dati di un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI)[3], multinazionale di consulenza manageriale che monitora il movimento del capitale globale. Presenta i risultati economici comparati delle più grandi società madri del mondo nel 2014-16 e nel 1995-97.
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