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acropolis

Dall’economia spazzatura a una falsa visione della storia

Dove la civiltà occidentale ha preso una svolta sbagliata

di Michael Hudson 

david graeber 1Il testo di Michael Hudson è la trascrizione del suo intervento al simposio Costruire ponti. Attorno al lavoro di David Graeber, che si è svolto a Lione in Francia nei giorni 7-8-9 di questo mese, organizzato del Laboratorio Triangle. Di seguito una breve presentazione degli obiettivi del simposio.

David Graeber, Professore di Antropologia alla London School of Economics, scomparso improvvisamente il 2 settembre 2020, durante la sua breve esistenza ha segnato il suo passaggio attraverso la sua creatività scientifica e i suoi contributi originali ai grandi dibattiti pubblici.

Avendo contribuito a un’antropologia che può essere definita politica, dimostrando che la diversità delle organizzazioni sociali rivelata dalle indagini etnografiche apre l’idea di una pluralità di possibilità e quindi la prospettiva di una società più egualitaria e democratica, è diventato una importante figura intellettuale della sinistra libertaria.

Il suo lavoro, associato al suo coinvolgimento nei movimenti politici di protesta transnazionali, sono la fonte della sua forte visibilità pubblica. Ma le sue opere più accademiche costituiscono anche importanti contributi alle scienze sociali: l’etnografia del Madagascar, l’antropologia della magia, la natura della regalità, la conoscenza delle società preistoriche, tra gli altri. Sono spesso attraversati anche da riflessioni filosofiche ed epistemologiche della storia delle idee nelle scienze sociali, come illustrato dai suoi testi sulle concezioni del valore.

Il suo intervento anche nell’ambito degli effetti della crisi finanziaria degli anni 2008 con la pubblicazione nel 2011 del suo libro Debt, The first 5000 Years, ha messo in discussione drasticamente i dogmi delle istituzioni monetarie ed economiche alla luce della profondità storica e antropologica delle pratiche monetarie, un’opera che avrà ripercussioni a livello mondiale.

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moneta e credito

Sylos Labini su Marx: implicazioni per la politica economica

di Massimo Cingolani*

Su Moneta e Credito, vol. 68 n. 269 (marzo 2015), 81-147

imagesoi6tghuQuesto contributo si propone di inquadrare “Carlo Marx: è tempo di un bilancio” (Sylos Labini, [1991] 1994), nell’opera di Paolo Sylos Labini e di ripercorrere il dibattito lanciato da Sylos su Marx nel 1991. L’analisi critica della posizione di Sylos offre anche lo spunto per approfondire alcune questioni teoriche fondamentali, spesso trascurate, nonostante le loro importanti implicazioni per la politica economica.

Il testo che Sylos scrisse nel 1991 su Marx è oggi in gran parte dimenticato. Quando apparve, suscitò critiche e perplessità, specie a sinistra. Alcuni pensarono, forse senza osare dirlo troppo apertamente, che anche i grandi sbagliano. Altri, e in particolare i partecipanti al dibattito sul Ponte, hanno discusso le poste del bilancio di Sylos, contestandone alcune e confermandone altre. La tesi che si presenta è che questo bilancio, stilato poco dopo la caduta del muro di Berlino, è stato un momento di riflessione doveroso per un intellettuale fortemente influenzato da Marx, forse scritto in maniera un po’ troppo sbrigativa, ma che se fosse stato letto con maggiore attenzione, sarebbe stato utile per contrastare la deriva liberista degli ultimi decenni.

Infatti, la caduta del muro del muro di Berlino, oltre a segnare la fine del socialismo reale in Europa orientale, ha coinciso con l’affermarsi nell’intero continente di una forma di liberismo dai tratti caricaturali. Il declino dell’egemonia culturale progressista era cominciato già negli anni settanta con le crisi petrolifere e lo sgretolarsi dell’ordine internazionale di Bretton Woods, ma è solo dopo il 1989 che ha avuto inizio un venticinquennio di dominio pressoché incontrastato del neoliberismo nelle scelte di politica economica.

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lafionda

MMT: facciamo un po’ di chiarezza contro le (solite) incomprensioni

di Domenico Viola

mmtDa alcuni anni, a livello internazionale, una teoria economica (di stampo istituzionalista e, in parte, post-keynesiano), dal nome Modern Money Theory (MMT d’ora in avanti), si è fatta strada su più fronti, da quello del dibattito pubblico e politico a quello del dibattito accademico ed istituzionale, da quello della ricerca scientifica a quello dell’insegnamento universitario. Rappresentanti politici, comuni cittadini-lavoratori, imprenditori, investitori dei mercati finanziari, banchieri centrali, giornalisti, studenti e docenti universitari, in molti si sono interessati alla MMT, prova ne è l’intenso dibattito che si ha da alcuni anni in più parti e contesti del mondo.

Negli USA la MMT è diventata una teoria da prendere in seria considerazione come uno degli strumenti-guida delle decisioni di politica economica e delle decisioni riguardanti le riforme istituzionali e sociali da attuare alla luce degli obiettivi e delle sfide future che interessano la società americana (e non solo). La professoressa Stephanie Kelton, una delle principali esponenti accademiche della MMT, nonché autrice dell’ultimo libro Il mito del deficit, è stata capo economista per i democratici nella commissione Bilancio del Senato e consigliera di Sanders e di Biden. Lo stesso Mario Draghi, verso la fine del suo mandato da governatore della BCE, dichiarò che fosse necessario o comunque auspicabile aprirsi a nuovi approcci alla teoria economica come quelli appartenenti alla MMT, ed iniziare a tenere in seria considerazione la teoria qui menzionata.

L’Italia è uno dei Paesi in cui la MMT ha avuto grande rilevanza culturale sin dal lontano 2012 con la formazione di diverse associazioni civiche e culturali di divulgazione della MMT.

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economiaepolitica

Distruzione creatrice, sviluppo economico e decadenza

Un invito a rileggere davvero Schumpeter

di Stefano Lucarelli

schumpeter marx smith keynes1. Dinanzi all’esigenza di uscire dalla crisi economica successiva alla Pandemia, da più parti si è fatto riferimento alla teoria economica di Schumpeter e in particolare alla “distruzione creatrice”. Nel farlo però, si lascia intendere che Schumpeter sia un antesignano della teoria della crescita economica dominante. In queste note sosterrò che siamo piuttosto di fronte ad uno stravolgimento della visione schumpeteriana, a una re-interpretazione infedele dei concetti introdotti da Schumpeter. Un po’ come quando si riduce Adam Smith alla mano invisibile, senza peraltro averne compreso il significato originario[1]. Lo stesso trattamento viene riservato al concetto schumpeteriano di distruzione creatrice, dinanzi dall’esigenza innegabile di fare i conti con un cambio epocale. Cercherò inoltre di mostrare che la teoria dello sviluppo economico schumpeteriana non è riducibile ad una teoria dell’azione imprenditoriale, poiché da un lato essa è una particolare teoria monetaria della produzione, e dall’altro conduce a fare i conti con la stessa evoluzione del capitalismo. Infine, concluderò il mio discorso con alcune note relative al ruolo che la politica assume in una prospettiva schumpeteriana, distinguendo fra ciò che Schumpeter scrive e ciò che invece sostengono gli studiosi che hanno aperto delle linee di ricerca innovative a partire dall’opera schumpeteriana.

 

2. Il concetto di distruzione creatrice di cui tanto si è parlato a seguito del rapporto sulle politiche post-Covid del Gruppo dei Trenta (il think tank, fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978)[2] è stato declinato in una prospettiva poveramente darwinista. Si è detto che i governi non dovrebbero sprecare soldi per sostenere le aziende che sono destinate al fallimento, le “aziende zombie”, ma dovrebbero assecondare la “distruzione creatrice” del libero mercato, lasciando queste aziende al loro destino e favorendo lo spostamento dei lavoratori verso le imprese virtuose che continueranno a essere redditizie e che si svilupperanno dopo la crisi.

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poliscritture

La critica del marginalismo nelle lezioni

di Franco Romanò

fisiocraticiLasciamo di nuovo Neri Salvadori e Kurz, per ritornare allo Sraffa degli anni ’20. Proseguendo nella disamina dei marginalisti, Le Lezioni mettono in evidenza anche le differenze che esistono fra le diverse scuole: Marshall, in particolare, riprende anche alcune delle argomentazioni di Ricardo. Ciò che mi sembra rilevante, sono però le conclusioni cui egli approda e dalle quali inizia il suo affondo nei confronti della teoria e ancora una volta Sraffa sceglie, in questo come in altri passaggi, la strategia comunicativa della critica indiretta. Affida a Petty quello che lui stesso in fondo pensa e cioè che i sentimenti non giocano alcun ruolo nel determinare il costo di produzione, qualunque sia la nozione di costo che si decide di adottare e gli contrappone subito, pur senza entrare nel merito, la concezione soggettivistica di Marshall, poi così prosegue:

… Comincerò paragonando … il costo di produzione secondo W. Petty e i Fisiocratici e secondo la concezione di Marshall. Prima di entrare nel vivo della materia, tuttavia, c’è un punto da chiarire. Dovrò parlare spesso della concezione che i vecchi economisti avevano del costo come se essi possedessero una nozione chiara e accuratamente definita del medesimo. In realtà questo non è vero. Fino a tempi recenti, il costo non è stato considerato dagli economisti come una categoria indipendente – di solito veniva confuso e spesso identificato, con il valore o il prezzo. Persino Ricardo, quando si domanda “se l’affitto entri o meno nel costo di produzione” egli affermava che “l’affitto non è una reale misura del valore”… Mescolando in questo modo diversi problemi che noi oggi consideriamo interamente distinti, soltanto raramente vediamo usata da loro un’espressione come “costo di produzione”: perciò dobbiamo sempre essere all’erta sul pericolo di leggere nei classici non tanto ciò che davvero hanno scritto ma ciò che ci piacerebbe che avessero scritto.

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poliscritture

Le grandezze economiche, le loro mutevoli definizioni e il gatto di Schrödinger che diventa marxiano

di Paolo Di Marco

sch 11- Garbage in, garbage out

È un modo di dire informatico: se a un calcolatore dai in pasto spazzatura quello che otterrai sarà sempre spazzatura.

In economia questo significa che le nostre condizioni di partenza devono essere ineccepibili: le definizioni solide, non contradditorie, prive di presupposti nascosti, sufficienti a determinare tutti gli elementi successivi; le condizioni iniziali sensate e corrispondenti ad elementi empirici verificabili.

Iniziamo dai presupposti nascosti, e per chiarire cosa sono facciamo un esempio:

a) una storiella macabra: padre e figlio vanno in macchina, l’auto esce di strada; il padre muore, il figlio viene trasportato in ospedale. Portato in sala operatoria il chirurgo arriva, impallidisce e dice: non posso operarlo, è mio figlio. Come mai?

b) un problema geometrico: con 6 stecchini (o fiammiferi, o legnetti della stessa lunghezza) costruire 4 triangoli equilateri. Provate.

Questo e simili problemi sono stati posti a molte persone di tutti i livelli di cultura e intelligenza, e in tutti i casi hanno provocato notevoli turbamenti: qualcuno trovava la soluzione quasi immediatamente, per intuizione; qualcun altro si arrabbattava, cercava di cambiare i dati della questione per adattarli alla soluzione che aveva pensato; altri ancora dopo un poco ricorrevano alla forza bruta della logica:

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jacobin

Lo stato del capitale

di Stefano Valerio

Anche se spesso vengono descritti come poli opposti, nell’epoca del capitalismo maturo stato e mercato si configurano come terreni complementari di sostegno all’accumulazione di capitale, mettendo a rischio la democrazia liberale

capitalismo jacobin italia 1320x481Quando, lo scorso anno, Mario Draghi è stato nominato presidente del consiglio, anche i media mainstream hanno ricordato il suo rapporto intellettuale e formativo intrattenuto – ai tempi in cui era un promettente studente di Economia – con Federico Caffè, il famoso economista abruzzese scomparso in circostanze mai del tutto chiarite. 

Gli osservatori più critici delle gesta del Draghi adulto non si sono giustamente lasciati sfuggire l’occasione di notare come, però, non debba essere rimasto molto della lezione e dell’ispirazione di Caffè nella carriera di Draghi, se è vero che l’ex Presidente della Bce è stato in prima fila in una serie di processi controversi, dalle massicce privatizzazioni italiane degli anni Novanta fino alla gestione austeritaria della crisi greca nel 2015, che difficilmente avrebbero incontrato il parere favorevole del maestro.

Sarebbe allora interessante sapere se Mario Draghi sia a conoscenza di un testo, originariamente pubblicato nel 1973, che in un’edizione italiana fu accompagnato proprio da una prefazione scritta da Federico Caffè. Si tratta del celebre La crisi fiscale dello stato di James O’Connor, che insieme a Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e Lavoro e capitale monopolistico di Braverman va a comporre un’ideale trilogia di analisi di alcune delle principali tendenze contraddittorie del cosiddetto capitalismo monopolistico. 

 

La crisi fiscale dello stato

Come anticipato, il libro di O’Connor venne dato alle stampe nel 1973, in un contesto sicuramente diverso da quello attuale.

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moneta e credito

Passo d'addio

di Roberto Artoni

cover 2Abstract. Nelle scuole di danza il passo d’addio è il saggio finale che chiude il periodo di formazione dei giovani ballerini, ormai pronti a intraprendere la carriera professionale. Nel mio caso il passo d’addio ha un significato del tutto diverso: è il momento finale di una lunga esperienza, rappresentando la presa d’atto dell’itinerario culturale che è stato seguito nel corso di cinque decenni.

 

Quadro iniziale

Se torno indietro alla fine degli anni ’60, i riferimenti sono agevolmente sintetizzabili. Da un lato, la microeconomia con i due teoremi dell’economia del benessere e, dall’altro, la macroeconomia nella versione IS-LM, fissata nei suoi termini essenziali da Hicks e Modigliani.

Ovviamente, la sistemazione della microeconomia, per le condizioni molto stringenti che garantivano l’efficienza nella produzione e nello scambio e per la indeterminatezza distributiva, lasciava ampio spazio per ulteriori approfondimenti e articolazioni. Per quanto mi riguarda, il primo approfondimento è stato il teorema di impossibilità di Arrow. Il teorema, sulla scia di Sen, è stato da me interpretato come la dimostrazione che al di fuori di giudizi di valore (le comparazioni interpersonali di utilità) in una società articolata in gruppi sociali non è possibile, se si escludono soluzioni dittatoriali, individuare un assetto distributivo appropriato e condiviso.

La macroeconomia, come veniva allora impostata, portava a sua volta ad attribuire la responsabilità della disoccupazione alla rigidità dei salari.

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brancaccio

Critica e crescita della conoscenza in economia

di Emiliano Brancaccio

Prolusione tenuta per l'inaugurazione dell'anno accademico 2021-2022 dell'Università degli studi del Sannio

1280px Kandinsky 8In questa giornata di celebrazione, di festa, saluto la nostra comunità di Unisannio. Gli studenti, in primo luogo, quindi i tecnici, gli amministrativi, i bibliotecari, i colleghi ricercatori e docenti, il Magnifico Rettore e il Pro Rettore, e poi i Rettori ospiti, il dottor Farinetti e gli esponenti delle istituzioni che sono oggi qui con noi.

 

1. Ho deciso di far partire questa mia prolusione una domanda perturbante che da qualche tempo aleggia nell’aria, come uno spettro che si aggira per il mondo. La domanda è: cosa può esser definito “scientifico” e cosa invece va considerato “non scientifico”? E’ in interrogativo cruciale, attualissimo, che talvolta, come sappiamo, può persino assumere i tratti tragici della questione di vita o di morte.

Cosa è scientifico, e cosa no? In effetti l’università è il luogo storicamente deputato per tentare di rispondere a questa domanda fondamentale. Fin dai tempi dell’accademia platonica, già prima dell’avvento del metodo galileiano, l’università è sempre stata l’istituzione chiamata a stabilire cosa davvero possa esser definito scientifico e cosa no. Dunque, in questo luogo deputato, in questo momento celebrativo, dovremmo provare a rispondere.

Il problema è che, come ci insegna l’epistemologia moderna, che va da Kuhn a Popper, a Lakatos, fino a Feyerabend, rispondere a questa domanda, purtroppo, è meno semplice di quanto vorremmo.

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Piero Sraffa, la sfinge marxiana

di Franco Romanò

Piero Sraffa Sergio Tumi Ñángara MarxPerché tornare a occuparsi di un uomo enigmatico e di un economista per lungo tempo dimenticato? Tanto più che la teoria economica appare ostica ai più. Cercherò di dirne le ragioni, evitando il più possibile argomenti troppo specifici.

Nel mondo rovesciato in cui ci capita di vivere, sono sempre più numerosi gli articoli e i saggi critici sull’andamento dell’economia e sulla teoria economica medesima, scritti da uomini di potere. Uno in particolare mi ha colpito perché al centro del suo discorso compare una metafora poco usuale in un uomo e mi piace pensare che senza il femminismo di mezzo, non gli sarebbe venuta in mente. Tanto più che Giandomenico Scarpelli, un dirigente della Banca d’Italia che si occupa di collocazione dei titoli di stato, è ritornato a occuparsi di teoria economica per aiutare la figlia a sostenere gli esami universitari. Al centro del suo discorso c’è una mirabolante cucina: il forno è acceso e va a mille, i fuochi pure, le pentole sono già pronte e così tutti gli accorgimenti tecnici più sofisticati; solo che non c’è più nulla da cucinare e infatti nel titolo del suo saggio l’economia odierna diventa una Ricetta senza ingredienti. Ecco, una prima risposta al quesito che ho proposto posto all’inizio potrebbe essere questa: perché l’economia di Sraffa, parte dagli ingredienti per arrivare alla cucina.

In economia esiste prima di tutto una sostanza fisica: il grano, per esempio, oppure la tela, le stoffe e tutto ciò che serve per riprodurre la vita di ogni giorno, che richiede cura e attenzione, oggi come migliaia di anni fa. Tale sostanza fisica si estende poi alle costruzioni, alle case e a quello che nel gergo economico si definisce infrastruttura: le strade, i ponti, le ferrovie, i beni che permettono di vivere.

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poliscritture

La dolorosa nascita dell’economia*

di Paolo Di Marco

divisin del trabajo cmo surge en qu consiste ventajas y desventajas1- l’invenzione di Adam Smith

‘Il fattore cruciale è la capacità del denaro di trasformare la moralità in una questione di impersonale aritmetica-e così facendo, di giustificare cose che altrimenti sembrerebbero scandalose od oscene’..:.e questa quantificazione è strettamente intrecciata alla violenza, quella stessa da cui originano stato e mercato.

Graeber, David. Debt (p.29). Melville House.

Cercando di liberarci dai luoghi comuni che hanno finito per occupare abusivamente la nostra visione del mondo, e in particolare quella dell’economia, ci imbattiamo subito in chi quella teoria ha fondato collo scopo precipuo di liberare la mente dei propri concittadini da un’errata concezione del denaro.

Quello che sembrava allora ovvio era che il denaro coniato dalle reali zecche lì stesso si originasse, quindi dallo stato e dal sovrano in prima istanza. E ciò che Adam Smith si accingeva invece a dimostrare era come il denaro fosse il frutto del lavoro e dell’attività imprenditoriale in primis, e che il compito del governo era solo quello di assicurare la quantità necessaria di conio, lasciando all’industria la libertà di fare il proprio mestiere senza vincoli dannosi.

Così nel 1776 il professore di Filosofia Morale di Glasgow inventò l’economia, vuoi come disciplina vuoi come attività umana. Il procedimento richiama altri già visti recentemente (come Rousseau): si ipotizza una natura umana la cui precipua caratteristica è la propensione allo scambio: tutto è scambio, a cominciare dall’originario baratto dei primitivi fino alla logica e alla conversazione. È questa spinta allo scambio che a sua volta genera la divisione del lavoro, responsabile di tutto il progresso umano e della civilizzazione.(v. 4).

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poliscritture

Sraffa e il valore

di Franco Romanò

sraffa y gramsciEsergo

“Tutte le epoche in regresso e in dissoluzione sono soggettive, mentre tutte le epoche progressive hanno una direzione oggettiva.” W. Goethe nei colloqui con Eckermann

«La posizione consapevole significa che lo scopo precede il risultato. Questo è il fondamento dell’intera società umana» (14). 14 Ont. II, p. 739. Lukacs

Sraffa dopo Graziani di Emiliano Brancaccio

L’interpretazione del sistema sraffiano suggerita da Augusto Graziani può essere intesa non come un’alternativa ma come un possibile complemento delle analisi tradizionali di tipo classico-keynesiano. La chiave di lettura grazianea sembra particolarmente adatta a descrivere la dura realtà del comando capitalistico contemporaneo e pare suggerire una interpretazione dello schema di Sraffa in chiave “rivoluzionaria”, critica verso le concrete possibilità del riformismo politico.

 

Premessa

Il punto di partenza scelto, per ricostruire l’opera di Piero Sraffa, sono Le note di lettura sulle teorie avanzate del valore. Si tratta del resoconto trascritto delle sue lezioni, alternate da altre note e riflessioni. Si tratta di un corpus fortemente magmatico, spesso colloquiale, non sempre chiaro. Il testo su cui ho lavorato è quello che si trova in rete a questo link:

Sraffa Papers Trinity 2.0 Arrangement D2/4 Lecture Notes on the Advanced Theory of Value, 1928-31. Arrangement and Transcriptions by Scott Carter*

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apocalottimismo

La ‘Ricetta senza ingredienti'

Riflessioni sulla funzione di produzione e le risorse naturali in margine all’esame di economia di mia figlia

di Giandomenico Scarpelli

Autore di questo articolo in due puntate è Giandomenico Scarpelli. Un dirigente della Banca d’Italia nella quale si è occupato principalmente del collocamento dei titoli di Stato, delle operazioni di politica monetaria e di sistema dei pagamenti. Ha pubblicato, tra l’altro, La ricchezza delle emozioni. Economia e finanza nei capolavori della letteratura, (Carocci, 2015)]. A titolo personale si è sempre interessato di questioni ambientali, ed in particolare di economia ecologica, studiando in particolare l’opera di Nicholas Georgescu-Roegen e Herman E. Daly. N.B. Le opinioni espresse in questo articolo sono del tutto personali e non impegnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza

ecosytem and economy«Un’assurdità, tuttavia, non cessa di essere un’assurdità quando si sono svelate le apparenze ingannevoli che la rendevano plausibile».
John Stuart Mill, Principi di economia politica (1848)

Premessa

Qualche tempo fa mia figlia mi ha chiesto di aiutarla a preparare l’esame universitario di economia politica. Ho accettato di buon grado sia per rendermi utile sia per rinfrescare qualche concetto offuscatosi nella mia mente a causa del tempo trascorso dai miei studi di teoria economica. In questa occasione ho “ripassato” la funzione di produzione e ho così rammentato le critiche che alcuni economisti eterodossi hanno rivolto a questo strumento analitico per la mancata o errata considerazione delle risorse naturali. In questo articolo cercherò di sintetizzare queste critiche e svolgerò alcune riflessioni personali sul tema.

 

La funzione di produzione tradizionale: sembra proprio che manchi qualcosa

Com’è noto la funzione di produzione nella sua formulazione corrente indica la quantità di prodotto che un’azienda può fabbricare utilizzando diverse quantità dei fattori di produzione, lavoro e capitale. Se pensiamo ad esempio ad una fucina, questo strumento analitico rappresenta il fatto intuitivo che più sono i fabbri che vi lavorano (il fattore lavoro) e più sono le incudini, i magli e gli altri attrezzi a loro disposizione (il fattore capitale), più oggetti di ferro e di altri metalli saranno prodotti (almeno fino ad un certo punto, oltre il quale i rendimenti dei fattori diventeranno decrescenti).

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kriticaeconomica

La pianificazione economica: storia e attualità di un dibattito

di Riccardo Evangelista*

PIXNIO 265160 1200x630 1 1024x5381) Le origini della controversia

Era il 1920 quando l’economista austriaco Ludwig von Mises dava alle stampe un ambizioso articolo intitolato Il calcolo economico in un’economia socialista. Inizialmente confinato a una discussione teorica nell’area germanofona e ritenuto poco più di una voce fuori dal coro della montante insoddisfazione verso il laissez faire, il saggio godette di una rinnovata fama quando venne tradotto in inglese dal suo allievo di maggior arguzia, Friedrich von Hayek, per essere ripubblicato nel 1935 in un volume collettaneo dal titolo Collectivist Economic Planning.

L’obiettivo esplicito del testo, di cui il saggio d’apertura di Mises costituiva il principale riferimento teorico, era di mettere in guardia la società europea (in particolare gli accademici, secondo gli autori molto sensibili alle mode intellettuali) da un’illusione ritenuta deleteria: che un’economia a totale o prevalente proprietà pubblica dei mezzi di produzione potesse funzionare in maniera razionale, garantendo un utilizzo efficiente delle risorse e maggiore giustizia sociale. Gli argomenti sostanziali della critica alla pianificazione economica rimarranno gli stessi anche negli sviluppi successivi del dibattito, che vedrà come principali protagonisti Lionel Robbins e lo stesso Hayek, contrapposti a Maurice Dobb e Oskar Lange. I primi si adopereranno per riaffermare le virtù irrinunciabili del mercato, i secondi tenteranno una difesa della pianificazione scientificamente rigorosa, pur confutando le tesi liberiste austriache da riferimenti teorici opposti.

Nonostante il dibattito sia stato oggi quasi dimenticato, le ragioni che l’hanno mosso e le questioni che solleva riemergono nell’attualità tra le manifestazioni sintomatiche del neoliberismo.

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micromega

Socialismo. Necessario e impossibile?

di Paolo Favilli

Il problema delle disuguaglianze e il futuro del capitalismo. Una rilettura di Thomas Piketty (“Il capitale nel XXI secolo” e “Capitale e ideologia”) e Joseph E. Stiglitz (“La globalizzazione che funziona” e “Il prezzo della disuguaglianza”)

genere esempioNel giornalismo colto

Esaminare il mutamento di prospettiva intervenuto in lavori dello stesso autore scritti in periodi diversi ci permettere di comprendere meglio i problemi connessi alla questione del «futuro del capitalismo»: ha «i secoli contati» oppure è in atto una transizione verso il post-capitalismo, magari verso qualche forma di socialismo?

Non c’è dubbio che il riferimento alle categorie analitiche marxiane sia essenziale per ragionare sulla questione. In questo intervento mi occuperò della progressiva consapevolezza di tale fatto emersa anche in ambito di una cultura estranea alla critica dell’economia politica.

I monumentali libri di Piketty, divisi da tempi più lunghi rispetto alle date di edizione (le ricerche per il primo cominciano nel 1998), sono la punta teorica più evidente di questo itinerario, ma non sono isolati da una temperie di pensamenti che percorre una parte della cultura lato sensu liberale.

Di particolare interesse, ad esempio, il fatto che già a fine secolo si potesse leggere in un magazine americano di alto livello culturale, il «The New Yorker, frasi come questa: «His books [Il capitale] will be worth reading as long as capitalism endures» [1].

Sostenere che Il capitale meriterà di essere letto finché esisterà il capitalismo, potrebbe sembrare un’affermazione ovvia. In verità non lo è assolutamente neppure oggi, dopo un ventennio di crescita ininterrotta delle pubblicazioni dedicate a Marx ed al suo capolavoro. La frase citata appartiene a John Cassidy ed è del 1997, periodo in cui le magnifiche sorti e progressive di un capitalismo liberato da lacci e lacciuoli condannavano Il capitale alla relegazione perpetua nel cimitero dei libri inusabili, dei libri morti.