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L’economia italiana ai tempi del sovranismo: una nota
di Guglielmo Forges Davanzati[1]
Questa nota si propone di (i) dar conto di alcune fallacie delle teorie sovraniste (ovvero del complesso di elaborazioni teoriche che imputano la crisi economica italiana all’adozione dell’euro e che invocano il ritorno alla valuta nazionale); (ii) evidenziare come, sebbene spesso implicitamente e forse inconsapevolmente, queste teorie siano funzionali a un progetto di secessione del Paese, da attuare mediante il trasferimento di risorse e di competenze legislative ad alcune Regioni del Nord. In quanto segue, per ragioni di spazio, non si farà distinzione fra le versioni ‘di sinistra’ e di ‘destra’ del sovranismo: data la prevalenza, in questa fase storica, della seconda versione, l’argomentazione che segue è sostanzialmente riferita a questa.
- Alcuni argomenti contro il sovranismo economico
Un argomento caro ai sovranisti italiani – ovvero a coloro che propongono il recupero della sovranità nazionale anche mediante l’abbandono unilaterale da parte dell’Italia dell’euro – riguarda il fatto che l’unificazione monetaria europea avrebbe determinato un’ondata di acquisizioni di imprese italiane da parte di imprese di altri Paesi europei.
Non vi è dubbio che questo si è verificato, ma non vi è dubbio che ciò si è verificato non per l’adesione dell’Italia al progetto di unificazione europeo, ma per effetto della lunga recessione della nostra economia (a iniziare dai primi anni novanta) e della conseguente perdita di potere politico del nostro Paese. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – essendo l’Unione monetaria europea un’unione formale di Paesi in concorrenza fra loro – sono i Paesi con i sistemi produttivi più competitivi ad avere maggiore potere politico.
Fin quando l’Unione europea rimarrà tale, è alquanto ingenuo criticarla sul piano delle asimmetrie nel rispetto delle regole, giacché una siffatta critica confonde la dimensione del potere con la dimensione morale: è palese, infatti, che in generale, e ancor più in un assetto conflittuale, le regole risentono dei rapporti di forza e il modo in cui sono costruite e il modo in cui vengono o meno rispettate lo stabilisce il Paese (o il gruppo di Paesi) con maggiore potere politico.
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La centralizzazione del capitale e la caduta del saggio di profitto
di Giordano Sivini
Il peso del capitale fittizio a partire dalle evidenze empiriche del Mckinsey Global Institute 14/6/2019
L’economia mainstream considera il sistema finanziario come creatore di ricchezza. Stavros Mayroudeas, economista greco, osserva che anche una parte degli economisti marxisti sono contagiati da questa tesi, e che il contagio viene espresso con molte sfumature slegando il profitto dal rapporto con la valorizzazione. “La tesi di base è che il capitalismo moderno ha subito una trasformazione radicale negli ultimi trent’anni. Il sistema finanziario, attraverso una serie di meccanismi innovativi, ha conquistato le posizioni di comando del capitalismo. È diventato indipendente dal capitale produttivo ed ha trasformato l’intero sistema secondo le proprie logiche”[1].
Questa tesi porta a concentrare l’analisi sul rapporto D-D’, dimenticando che, in qualsiasi interpretazione che si richiami al marxismo, il capitalismo non può che essere identificato con la produzione di plusvalore, risultato della relazione D-M-D’. La centralità dei processi di valorizzazione è essenziale, sia quando si intende, con Harvey, che il capitale si trasforma indefinitamente, sia quando, a partire da Kurz, si sostiene che si è arrestata la sua capacità di produrre valore. Da qui muove l'interpretazione del passaggio dalla valorizzazione alla finanziarizzazione come risultato di una crisi del capitale produttivo di merce che provoca l’inversione del suo rapporto con il capitale produttivo di interesse. Questo, non potendo accrescersi nel circuito D-M-D’, si riversa su D-D’ e produce capitale fittizio[2].
L’attuale inversione non è riconducibile alla teoria delle crisi segnate da temporanee inversioni nelle quali il credito contribuisce a riattivare il movimento di un capitale che continuamente si ridefinisce. Fino a quando di questa riattivazione non emergono almeno i sintomi, non si può scartare l’ipotesi che la crisi attuale vada collocata nella fase terminale del tempo lungo della caduta del tasso di profitto, una volta esaurita la capacità del capitale di produrre controtendenze.
A stimolare una riflessione in proposito arrivano i dati di un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI)[3], multinazionale di consulenza manageriale che monitora il movimento del capitale globale. Presenta i risultati economici comparati delle più grandi società madri del mondo nel 2014-16 e nel 1995-97.
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La Teoria Monetaria Moderna: un’illusione che abbaglia
di Antonio Pagliarone1
Una nota critica alla raccolta di testi di Michael Roberts sulla teoria moderna della moneta in uscita presso la casa editrice Asterios di Trieste - This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
La pubblicazione di una serie di testi critici sulla MMT (Modern Monetary Theory), prodotti da Michael Roberts e apparsi nel suo blog, è risultata necessaria in quanto possiamo osservare che negli ultimi anni, come reazione ad una “austerity” prolungata, sono sempre di più coloro che fanno affidamento su politiche economiche definite rozzamente come “sovraniste”. Ma tale “teoria” mescolata ad un keynesismo rinnovato, ha preso piede anche negli ambienti della sinistra progressista, mentre molti intellettuali ultrasinistri sono stati abbagliati dalle contorsioni monetariste, dopo aver sostenuto lo “stimolo della domanda”, e confondono con estrema leggerezza Marx con Keynes. Gratta gratta sotto un marxista troverai sempre un keynesiano.
La Teoria Monetaria Moderna è stata ideata da Warren Mosler2, Bill Mitchell e Randy Wray, mentre James K.Galbraith è uno dei suoi maggiori sostenitori3. La MMT si basa sostanzialmente sull’idea, in passato sostenuta dai cartalisti, che sia lo stato a creare moneta, di conseguenza il denaro circolante è denaro emesso dal governo per cui non occorre la tassazione dei cittadini perché lo stato possa disporre della valuta corrente. Caso mai la tassazione potrebbe contribuire al regolare funzionamento del sistema in quanto permetterebbe di attenuare una eventuale inflazione. Michael Roberts sviluppa inizialmente la teoria dei cartalisti collegandola, giustamente, alla Teoria Monetarista Moderna che ne è l’erede, facendo un raffronto con la teoria della moneta di Marx secondo la quale il denaro è inconcepibile se viene separato dallo scambio di merci. Lo stato non crea moneta dal nulla ma sono “le banche (che) fanno prestiti e di conseguenza vengono creati depositi e debiti per finanziare tali prestiti, non viceversa”. Roberts insiste nel sottolineare le differenze sostanziali tra la teoria marxista e quella cartalista/MMT e dichiara “Per Marx, nel capitalismo, il denaro è la rappresentazione del valore e quindi del plusvalore”. Ma il problema non consiste nel confutare la MMT, e i neokeynesiani che la caldeggiano, sostenendo che: “A meno che i sostenitori della MMT non siano pronti a passare a una conclusione politica marxista: vale a dire l'appropriazione del settore finanziario e il comando del settore produttivo attraverso la proprietà pubblica e un piano di produzione, ponendo così fine alla legge del valore in economia, la politica della spesa pubblica attraverso la creazione illimitata di denaro fallirà”.
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L’economia fondamentale come possibile alternativa al pensiero mainstream
di Sergio Marotta
Cos’è e cosa propone il collettivo per l’economia fondamentale
Che cos’è l’economia fondamentale
Il Collettivo per l’economia fondamentale è costituito da ricercatori di diverse discipline e di varie nazionalità, molti già noti nel mondo degli studi. Davide Arcidiacono, Filippo Barbera, Andrew Bowman, John Buchanan, Sandro Busso, Joselle Dagnes, Joe Earle, Ewald Engelen, Peter Folkman, Julie Froud, Colin Haslam, Sukhdev Johal, Ian Jones, Dario Minervini, Mick Moran, Fabio Mostaccio, Gabriella Pauli, Leonhard Plank, Angelo Salento, Ferdinando Spina, Nick Tsitsianis, Karel Williams hanno individuato un oggetto di studio che hanno definito “economia fondamentale” e hanno dato vita a una notevole e interessante serie di ricerche che stanno riscuotendo in Europa sempre maggiore attenzione. Così il libro che contiene il manifesto del Collettivo intitolato “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana”, appena uscito in Italia per i tipi di Einaudi, è stato pubblicato in inglese da Manchester University Press e in tedesco da Suhrkamp.
Secondo gli studiosi del Collettivo, l’economia fondamentale è costituita da un insieme di attività legate «alla produzione dei beni e servizi indispensabili al benessere generale, come l’edilizia residenziale, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e agli anziani, la sanità, la fornitura di beni e servizi essenziali come l’acqua, il gas, l’energia, la fognatura e le reti telefoniche»[1].
I confini dell’economia fondamentale sono individuati attraverso tre parametri di riferimento: «questi beni e servizi sono necessari alla vita quotidiana, ne usufruiscono ogni giorno tutti i cittadini a prescindere dal reddito, e sono erogati, in funzione della distribuzione della popolazione, attraverso reti e filiali»[2]. Altre caratteristiche delle attività ricomprese nell’economia fondamentale sono quelle di svolgersi spesso al di fuori del mercato; di essere attività in qualche modo protette in quanto soggette a regolamentazione; mentre la loro distribuzione e organizzazione è soggetta alla mediazione politica.
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Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Paul Alexander Baran è del 1957 ed è un classico del pensiero marxista americano dello sviluppo. Il sottotitolo in italiano dell’opera è “e la teoria marxista dello sviluppo” (in inglese “The political economy of growt”) ed è una delle matrici intellettuali della teoria dello sviluppo, ripresa da autori fondamentali come Andre Gunder Frank[1], Samir Amin[2], ed in parte Giovanni Arrighi[3]. Nel 1966, due anni dopo la morte, viene pubblicata l’opera per la quale è più famoso in Italia, ovvero “Il capitale monopolistico”, con Paul Sweezy”.
Baran è negli anni sessanta l’unico economista di ruolo negli Stati Uniti ad ispirarsi alla teoria marxista, è ordinario a Stanford dal 1951 fino alla morte. Dalla sua biografia si ricava il padre menscevico che lascia la Russia nel 1917, gli studi ed il dottorato a Berlino nel 1933 (quando lui, nato nel 1909 ha 24 anni), quando incontra e discute con Rudolf Hilferding, la fuga a Parigi e poi in Urss. Poco prima dell’invasione tedesca l’arrivo negli Stati Uniti e l’iscrizione ad Harvard, il lavoro con Galbraith e poi al Dipartimento del Commercio ed alla Fed di New York. Dal 1949 è a Stanford e collabora con Monthly Review di Sweezy e Leo Huberman. Nel 1960, dopo questo libro, visita Cuba, poi Mosca, l’Iran e la Jugoslavia. Mentre lavora al “Capitale Monopolistico” muore improvvisamente per un attacco di cuore.
Questo libro, “The political economy of growt” ha esercitato a lungo un’influenza sulle forze anticapitaliste che operavano nei paesi in via di sviluppo, o, come Baran preferisce scrivere “sottosviluppati”, e si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913.
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Accumulazione di capitale e ruolo dell’innovazione
di Maurizio Donato
La dinamica valorizzazione – svalorizzazione nel rapporto tra innovazione e accumulazione
Nel primo trimestre del 2019 il ‘valore’ mondiale delle obbligazioni a tassi negativi è tornato ad avvicinarsi ai livelli massimi toccati nell’estate del 2016. Da allora, a riportare in alto i tassi nominali spingendo al rialzo anche i rendimenti delle obbligazioni è stata unicamente la ripresa nelle aspettative di inflazione. Questo obiettivo, una maggiore inflazione, è stato al centro dell’impegno delle banche centraliche dal 2009 hanno iniettato quasi 20mila miliardi di dollari attraverso numerose politiche espansive. Ma evidentemente una politica monetaria pure ultra-accomodante non serve o non basta: i problemi dell’economia sono ‘reali’.
Secondo gli economisti del periodo classico, affinché possa ripartire il meccanismo di accumulazione, una parte significativa del capitale in eccesso sulle possibilità medie di valorizzazione deve essere svalutato o distrutto, non solo capitale nella sua forma monetaria, ma capitale costante, merci nella loro duplice natura di valori d’uso e valore tout-court, e capitale variabile, la forza-lavoro pagata al suo valore, la cui svalutazione continua sta comportando conseguenze almeno altrettanto paradossali e ben più tragiche dei tassi di interesse negativi.
Non performing capital
Nel succedersi dei cicli economici è normale che una parte dello stock di capitale esistente resti interamente o parzialmente inattiva, mentre il resto viene valorizzato ad un saggio di profitto inferiore al massimo teorico possibile proprio a causa della pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo. Una parte dei mezzi di produzione, del capitale fisso e del capitale circolante periodicamente cessa di agire come capitale, una parte delle imprese produttive in azione resta inoperosa; la direzione della traiettoria, il segno del rapporto tra valorizzazione e svalorizzazione, dipende dalla forza della concorrenza che decide quale e quanta frazione del capitale globale debba nei diversi casi particolari essere condannata all’inoperosità.
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Il modello macroeconomico della MMT
di Michael Roberts
È la redditività degli investimenti capitalistici che guida la crescita e l'occupazione, non le dimensioni del deficit pubblico
“Le identità contabili che equiparano le spese aggregate alla produzione ed entrambe ai redditi valutati ai prezzi di mercato sono ineludibili, indipendentemente dalla vostra preferenza per il tipo di economia keynesiana o classica. Dico sempre agli studenti che il rispetto di queste identità è il primo tocco di saggezza che distingue gli economisti da coloro che espongono l'economia. Il secondo? ... Le identità non dicono niente sulle cause”. James Tobin, keynesiano di sinistra, 1997.
"Il denaro è in definitiva una creazione del governo, ma ciò non significa che solo i deficit governativi determinino il livello della domanda in qualsiasi momento. Anche le azioni e le convinzioni del settore privato sono importanti. E questo a sua volta significa che è possibile avere eccedenze di bilancio ed eccesso di domanda allo stesso tempo, proprio come si possono avere deficit di bilancio e domanda carente”. Jonathan Portes (ortodosso keynesiano).
Il dibattito sempre più astruso tra gli economisti (mainstream, eterodossi e di sinistra) continua sulla validità della Teoria della moneta moderna (Modern monetary theory - MMT) e sulla sua rilevanza per la politica economica. Il dibattito tra le sinistre è ha innescato un’altra marcia a seguito della pubblicazione della feroce critica alla MMT condotta da sinistra da parte di Doug Henwood, visibile su Jacobin. Il principale esponente della MMT, Randall Wray ha risposto con rabbia al tentativo di demolizione di Henwood (qui). E poi dal cuore della terra del MMT, Pavlina Tcherneva, direttrice di programma e professore associato di economia al Bard College e un ricercatore associato presso il Levy Economics Institute hano risposto a Henwood sempre dalle colonne del Jacobin.
Tra gli economisti mainstream, Paul Krugman ci ha provato, ricevendo una risposta da Stephanie Kelton. Kelton è una professoressa di politica ed economia pubblica presso la Stony Brook University di Long Island (New York). È stata l'economista capo dei Democratici nello staff della Commissione Bilancio del Senato degli Stati Uniti e consigliere economico della campagna presidenziale del 2016 del senatore Bernie Sanders.
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“L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo”
di Alessandro Roncaglia
Pubblichiamo la presentazione dell’autore tenuta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, marzo 2019
Il libro che vi presento arriva in libreria in questi giorni, dopo una lunga (e faticosa) fase di gestazione. Si intitola L’età della disgregazione ed è, come dice il sottotitolo, una Storia del pensiero economico contemporaneo. Ho già consegnato la versione inglese alla Cambridge University Press, ed è in corso la traduzione spagnola.
Il titolo allude al fatto che la ricerca in economia è sempre più frammentata, sia per campi sia per orientamenti di ricerca. Chi si occupa di finanza o di econometria raramente conosce i dibattiti di teoria del valore o dell’impresa; inoltre, in ciascun campo coesistono impostazioni radicalmente diverse: keynesiani, neoclassici, istituzionalisti, e così via, fino agli induttivisti sostenitori di una econometria ateoretica.
Questa duplice frammentazione impedisce una esposizione lineare e complica ulteriormente un compito già reso difficile dalla vastità del terreno da coprire: ogni anno escono migliaia di riviste e migliaia di volumi sui diversi temi dell’economia. Accade così che tanti ricercatori, per affrontare in modo davvero approfondito il tema prescelto, passino la vita a studiare l’ultima falange del dito mignolo, come diceva Becattini. Il problema in realtà non è concentrarsi sul dito mignolo, come in qualche momento della nostra attività tutti noi facciamo, ma farlo in totale assenza di consapevolezza del corpo umano al quale è collegato. Quindi, proprio la frammentazione rende indispensabile un tentativo di raccordo. Anche perché in moltissimi casi la disgregazione permette agli economisti attivi nei vari campi specialistici di sorvolare sulle debolezze spesso tragiche delle fondamenta della loro ricerca.
Schumpeter distingueva tre fasi nella ricerca, che spesso si intersecano in un processo non lineare. La prima fase è la concettualizzazione: la costruzione di una rete di concetti che specificano la visione del mondo; ad esempio il mercato inteso come punto nel tempo e nello spazio d’incontro tra domanda e offerta, come nelle fiere medievali o nella borsa valori moderna: questo è in sostanza il concetto utilizzato sia nel Medioevo sia dalla teoria marginalista; oppure il mercato inteso come rete di relazioni tra le diverse attività produttive in un’economia basata sulla divisione del lavoro, che è il concetto utilizzato dalla teoria classica e keynesiana.
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La moderna teoria della moneta II
Una rete di protezione a favore del capitalismo
di Michael Roberts
La MMT mira a rattoppare i fallimenti della produzione capitalistica, non a rimpiazzarla
Dopo un lungo articolo che analizza la Teoria della moneta moderna (Modern monetary theory - MMT), in questo contributo, esaminerò gli aspetti pratici di questa teoria. In altre parole, quali sono le proposte politiche che i sostenitori della MMT propongono al governo per creare più posti di lavoro con salari milgiori senza provocare inflazione?
Dopo la Grande Recessione, gli economisti di sinistra hanno cercato di confutare le teorie economiche neoliberiste che impongono l’equilibrio nei bilanci pubblici e una riduzione degli alti livelli di debito pubblico. Le politiche di austerità che scaturiscono dal punto di vista neoliberista hanno significato il taglio del welfare state, la riduzione dei servizi pubblici, la stagnazione dei salari reali e l'aumento della disoccupazione. Naturalmente, il movimento operaio vuole invertire queste politiche che fanno sì che i lavoratori paghino per il fallimento delle banche e del capitalismo.
L’alternativa tipica viene dal keynesismo tradizionale, ovvero dalla convinzione che una maggiore spesa pubblica (tramite deficit sui bilanci annuali dello stato) può aumentare la domanda effettiva nell'economia capitalista e creare posti di lavoro e aumentare i salari. Ed è qui che entra in gioco la MMT. Come dice uno dei suoi esponenti, Randall Wray, ciò che la MMT aggiunge alla politica di stimolo fiscale di stampo keynesiano è l’argomento teorico secondo cui “a un governo sovrano non può scarseggiare la propria moneta”. Fin tanto che lo stato ha il monopolio nello stabilire l'unità di conto (dollari, euro o pesos), può creare quanta moneta abbisogna, distribuirla a entità “non statali”, aumentare la domanda e quindi fornire posti di lavoro e redditi. Stephanie Kelton, uno dei principali esponenti della MMT e consigliere di Bernie Sanders, afferma: “L’entità che emette moneta non può mai rimanere senza denaro perché può sempre stampare o coniare più dollari, pesos, rubli, yen, ecc.”
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La moderna teoria della moneta
di Michael Roberts
I. Cartalismo e marxismo
La modern monetary theory giustifica la spesa pubblica senza restrizioni per ripristinare e sostenere la piena occupazione. Ma questa apparente virtù nasconde il suo vizio, un ostacolo molto più grande per un vero cambiamento
La teoria della moneta moderna (modern monetary theory - MMT) è diventata di moda tra molti economisti di sinistra negli ultimi anni. La nuova democratica di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez è sembra esserne una sostenitrice; e uno dei principali esponenti della MMT ha recentemente discusso la teoria e le sue implicazioni politiche con John McDonnell, cancelliere dello scacchiere ombra per il partito laburista britannico.
La MMT ha una certa trazione nella sinistra in quanto sembra offrire un supporto teorico per le politiche di spesa fiscale finanziate dall’emissione di moneta da parte della banca centrale e per far fronte ai deficit di bilancio e al debito pubblico senza timore di crisi; e quindi sostenere politiche di spesa pubblica per progetti infrastrutturali, creazione di posti di lavoro e l'industria, in diretto contrasto con le politiche mainstream neoliberali di austerità e intervento governativo minimo.
Quindi, in questo post e in altri post a seguire, offrirò la mia opinione sul valore della MMT e le sue implicazioni politiche per il movimento operaio. In questo articolo cercherò di dare una visione generale per far emergere le somiglianze e le differenze con la teoria monetaria di Marx.
La MMT si fonda sulle idee di ciò che è chiamato cartalismo [chartalism, da non confondere col cartismo, il movimento politico-sociale inglese della prima metà del sec. XIX, ndt]. Georg Friedrich Knapp, un economista tedesco, coniò il termine cartalismo nella sua Teoria statale della moneta, che fu pubblicata in tedesco nel 1905 e tradotta in inglese nel 1924. Il nome deriva dal latino charta, nel senso di un simbolo (token) o biglietto. Il cartalismo sostiene che il denaro ha avuto origine dai tentativi statali di dirigere l'attività economica piuttosto che rappresentare una soluzione spontanea ai problemi del baratto o come mezzo per simbolizzare il debito.
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La chimera del capitalismo di pieno impiego
di Roberto Lampa*
Non saranno le “cassette degli attrezzi” di questo o quell’economista a risolvere il problema della disoccupazione perché non si tratta di un problema tecnico ma di una questione meramente politica

Come è stato possibile continuare per anni a imporre politiche economiche di flessibilizzazione e precarizzazione lavorativa, cioè misure incoerenti sul piano teorico e non corroborate da risultati pratici?
Per quanto riguarda la teoria economica, spesso tirata in ballo per giustificare la fondatezza e l’ineluttabilità delle famigerate “riforme” o “jobs act”, Davide Villani ha richiamato efficacemente, su queste pagine, la controversia sul capitale e la cristallina dimostrazione della fallacia del principio di sostituzione fattoriale tra capitale e lavoro, pietra angolare della quasi-totalità delle pubblicazioni mainstream in materia. Teresa Battista ha poi aggiunto un importante tassello a questa premessa, ricordandoci come anche l’evidenza empirica smentisca categoricamente l’esistenza di una qualsivoglia correlazione tra processi di flessibilizzazione del mercato del lavoro e livello di occupazione, trattandosi invece dell’istituzionalizzazione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Alla luce di questi contributi, quella posta all’inizio appare quindi come una domanda cruciale, a cui però il sapere tecnico non è in grado di fornire una risposta. Curioso paradosso, in un’epoca nella quale gli economisti si ergono a depositari della verità assoluta, tanto da arrivare a tacciare di negazionismo economico chiunque osi sfidare le rigide implicazioni di politica economica che discendono dalla teoria economica.
Per poter delineare una risposta è dunque indispensabile uscire dagli schemi abituali e partire da un’importante constatazione. La teoria economica attuale – sia nella sua versione dominante che in quella “eterodossa” – assume come dato esogeno un elemento di cruciale importanza: l’esistenza di un sistema capitalista.
In un certo senso, si può perfino affermare che mai come oggi sia accettato acriticamente (e trasversalmente alle scuole economiche) il famoso aforisma di Milton Friedman secondo cui «non esistono l’economia ortodossa e quella eterodossa, ma solo l’economia buona e quella cattiva».
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Conflitto, crisi, incertezza
La teoria economica dominante e le teorie alternative
di Marco Palazzotto
Lo scorso 22 dicembre è scomparso l’economista Giorgio Lunghini. Per ricordarlo pubblichiamo una recensione del suo ultimo libro in italiano Conflitto crisi incertezza, 2012, apparso su Kom-pa alcuni anni fa
Nell’ultimo trentennio, dopo l’abbandono delle politiche economiche di stampo keynesiano soprattutto in Europa, le scuole accademiche che si rifanno alla teoria neoclassica hanno preso il sopravvento su tutte quelle cosiddette critiche fino ad assurgere a pensiero unico. Autori considerati eretici come Marx o Sraffa sono stati completamente dimenticati, mentre Keynes è stato relegato in quell’ibrido teorico rappresentato dalla sintesi neoclassica.
Giorgio Lunghini con il libretto Conflitto crisi incertezza (Bollati Boringhieri – 2012) mette in luce, in maniera sintetica ed efficace, le contraddizioni della teoria neoclassica attraverso l’analisi dei più importanti protagonisti del pensiero critico.
Conflitto, crisi e incertezza rappresentano tre elementi caratteristici del sistema capitalistico e tre termini che contraddistinguono la produzione teorica di pensatori come Ricardo, Marx, Keynes e Sraffa. Attraverso lo studio del pensiero di questi quattro autori Lunghini fornisce al lettore delle chiavi di lettura alternative e abbastanza complete del quadro delle dottrine “eretiche”. Queste sono state superate da un pensiero mainstream oggi palesemente inadeguato nel condurre il sistema economico fuori dalle crisi e dai conflitti sociali.
Lo sforzo dell’autore del libro è quello di comparare studiosi molto diversi tra loro, ma che hanno in comune l’aver interpretato, con il sostengo di teorie forse non molto inattuali, le falle della teoria economica classica (con Ricardo e Marx) e neoclassica (con Keynes e Sraffa).
Questi quattro intellettuali ci descrivono il sistema economico non come un sistema circolare, in cui la scarsità dei fattori di produzione e la loro produttività lasciata sviluppare secondo le regole della mano invisibile fanno tendere verso l’equilibrio, ma come un sistema storicamente determinato in cui la distribuzione del prodotto sociale è oggetto di conflitto tra le classi, la crisi è la normalità e non l’eccezione, gli operatori economici prendono le loro decisioni senza conoscere il futuro, nell’incertezza, e in presenza di aspettative poco razionali.
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Farsi male da soli
Disciplina esterna, domanda aggregata e il declino economico italiano
di Sergio Cesaratto* e Gennaro Zezza**
Abstract. In questo saggio ripercorriamo la storia dell’economia italiana a partire dagli anni del miracolo economico, mostrando il ruolo della politica economica nelle sue diverse declinazioni (fiscale, monetaria, valutaria) nella determinazione della crescita, e poi del declino. Argomentiamo come i periodi della crescita siano caratterizzati dal tentativo di perseguire il pieno impiego, mentre il successivo periodo del declino è dipeso anche dal tentativo di risolvere i conflitti distributivi interni tramite vincoli esteri sempre più stringenti
Introduzione*
Il saggio mira a fornire una spiegazione dei problemi di lungo periodo dell’economia italiana che noi ritroviamo nella mancata opportunità di completare il miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta con un compromesso sociale riguardante la distribuzione del reddito e con il necessario progresso tecnico e manageriale nel sistema delle imprese. La tesi sostenuta è che la ricerca della disciplina esterna come surrogato di opportune istituzioni interne ha probabilmente condotto, col sostegno di teorie economiche volte a trascurare il ruolo della domanda aggregata nella crescita, a esiti peggiori del male che si intendeva curare. Attualmente l’ancora vivace spirito imprenditoriale di parte del paese è intrappolato fra le carenti istituzioni socio-politiche interne, e il contesto istituzionale europeo ispirato dall’ordoliberismo tedesco, incompatibile con un’unione monetaria sostenibile (ma non con gli interessi del capitalismo di quel Paese).
Dalla crescita al declino
Guardando all’esperienza dell’economia italiana del secondo dopoguerra possiamo
provare a distinguere distinguere i periodi seguenti:
- 1951-1963 il miracolo economico italiano
- 1964-1968 interludio: le mancate riforme
- 1969-1978 gli anni dell’elevato conflitto sociale
- 1979-1992 Il “nuovo regime”: gli anni del Sistema Monetario Europeo (di cui 1987-92 gli anni
dello SME “nuovo” o “duro”)
- 1992- 1995 interludio: il grande riallineamento della lira
- 1996-2007 l’attuazione della moneta unica (di cui 1996-1998 gli anni preparatori)
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Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale
Allegato alla “Politeia” di Savona
di J. A. Kregel
Una esauriente e approfondita scheda esplicativa sullo studio intitolato “Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale” elaborato dall’economista J. A. Kregel e allegato al documento “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa” che il Ministro Paolo Savona ha proposto come base di discussione al Consiglio europeo al fine di verificare la reale rispondenza della architettura europea agli obiettivi di crescita di piena occupazione e di stabilità che sarebbero alla base dei trattati. Il documento di Kregel, estremamente significativo, dimostra su base scientifica la natura paradossale dell’impianto della moneta unica, che con le sue regole di rigore fiscale nel lungo periodo non può che portare o a condizioni di stagnazione permanente o ad un’intrinseca fragilità finanziaria tipica di uno schema Ponzi, che si scaricherebbe sul resto del mondo. Una follia economica.
Ringraziamo il curatore della scheda Beppe Vandai, che ha spesso collaborato con Vocidallestero traducendo articoli di particolare rilevanza. Beppe, di formazione filosofica, vive da 32 anni in Germania e ha fondato ad Heidelberg il circolo di discussione politico-culturale Volta la Carta!! e a Treviso il circolo Risorse, sui temi dell’economia.
Scheda a cura di Beppe Vandai sul documento di Jan A. Kregel* “Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale”
*Jan A. Kregel è un importante economista post-Keynesiano, direttore del programma «Politica monetaria» presso il Levy Economic Institute of Bard College e professore di Development Finance presso la Tallinn University of Technology. Ex professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bologna ed ex professore di Economia Internazionale presso il Johns Hopkins University’s Paul Nitze School of Advanced International Studies, dove è stato anche direttore associato del Bologna Center dal 1987 al 1990.
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Perché dopo la crisi del 2008 l’agenda neoliberale è ancora dominante?
di Massimo De Minicis
La crisi del 2008 ha dimostrato che le politiche economiche mainstream sono dannose e fallimentari, ma la “retorica” neoliberale riesce ancora dominare il dibattito e le istituzioni e ad imporre pericolosamente la sua agenda
Dalla metà degli anni ’90, nel sistema a capitalismo avanzato, una crescente interdipendenza e accresciuta competizione tra le nazioni, identificata nel concetto teorico della globalizzazione ha determinato le basi concettuali per identificare nello stato sociale del periodo post-bellico europeo un lusso non più sostenibile: “nel dibattito svedese, è normale ritenere che l’egualitarismo degli anni ’70 non sia sostenibile e che l’uguaglianza debba, in una certa misura, essere sacrificata sull’altare dell’efficienza” (Crouch, Streek 1996).
Negli stessi anni gli ambienti politici dell’Unione europea hanno rappresentato un costante discorso teorico secondo cui la globalizzazione esponeva i paesi comunitari ad una serie di sfide di fronte alle quali dovevano essere riorganizzate le modalità di governance del welfare e del sistema delle relazioni industriali. Ciò sembra aver determinato una serie di vincoli esterni per le forme istituzionali prodotti attraverso un processo di persistente normalizzazione di tali presupposti teorici. Si è andata, così, consolidando una sorta di traiettoria neoliberale (Baccaro, Howell, 2011) che ha percorso anche i processi di integrazione europea per rispondere in maniera efficace agli imperativi dell’economia globale. Procedendo a rideterminare il peculiare “modello sociale europeo” emerso e consolidatosi nel primo dopoguerra (Hay, 2003). Una serie di posizioni ideali, che prefiguravano nella variante neoliberale di integrazione comunitaria la forma migliore per rispondere ai nuovi imperativi economici, hanno assunto effetti costrittivi e vincolanti per le società europee in assenza di manifeste conferme empiriche: “gli effetti reali dei discorsi economici sulla globalizzazione sono qualcosa di indipendente dalla veridicità delle analisi” (Hay, 2001).
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