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vocidallestero

Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale

Allegato alla “Politeia” di Savona

di J. A. Kregel

paolo savona 755x515Una esauriente e approfondita scheda esplicativa sullo studio intitolato “Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale” elaborato dall’economista J. A. Kregel e allegato al documento  “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa” che il Ministro Paolo Savona ha proposto come base di discussione al Consiglio europeo al fine di verificare la reale rispondenza della architettura europea agli obiettivi di crescita di piena occupazione e di stabilità che sarebbero alla base dei trattati.  Il documento di Kregel, estremamente significativo,  dimostra su base scientifica la natura paradossale dell’impianto della moneta unica, che con le sue regole di rigore fiscale nel lungo periodo non può che portare o a condizioni di stagnazione permanente o ad un’intrinseca fragilità finanziaria tipica di uno schema Ponzi, che si scaricherebbe sul resto del mondo. Una follia economica. 

Ringraziamo il curatore della scheda Beppe Vandai, che ha spesso collaborato con Vocidallestero traducendo articoli di particolare rilevanza. Beppe, di formazione filosofica, vive da 32 anni in Germania e ha fondato ad Heidelberg il circolo di discussione politico-culturale Volta la Carta!! e a Treviso il circolo Risorse, sui temi dell’economia.

Scheda a cura di Beppe Vandai sul documento di Jan A. Kregel* “Crescita e moneta unica: il paradosso della politica fiscale”

*Jan A. Kregel è un importante economista post-Keynesiano, direttore del programma «Politica monetaria» presso il Levy Economic Institute of Bard College e professore di Development Finance presso la Tallinn University of Technology. Ex professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bologna ed ex professore di Economia Internazionale presso il Johns Hopkins University’s Paul Nitze School of Advanced International Studies, dove è stato anche direttore associato del Bologna Center dal 1987 al 1990.

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economiaepolitica

Perché dopo la crisi del 2008 l’agenda neoliberale è ancora dominante?

di Massimo De Minicis

La crisi del 2008 ha dimostrato che le politiche economiche mainstream sono dannose e fallimentari, ma la “retorica” neoliberale riesce ancora dominare il dibattito e le istituzioni e ad imporre pericolosamente la sua agenda

neoliberismo 1 640x451Dalla metà degli anni ’90, nel sistema a capitalismo avanzato, una crescente interdipendenza e accresciuta competizione tra le nazioni, identificata nel concetto teorico della globalizzazione ha determinato le basi concettuali per identificare nello stato sociale del periodo post-bellico europeo un lusso non più sostenibile: “nel dibattito svedese, è normale ritenere che l’egualitarismo degli anni ’70 non sia sostenibile e che l’uguaglianza debba, in una certa misura, essere sacrificata sull’altare dell’efficienza” (Crouch, Streek 1996).

Negli stessi anni gli ambienti politici dell’Unione europea hanno rappresentato un costante discorso teorico secondo cui la globalizzazione esponeva i paesi comunitari ad una serie di sfide di fronte alle quali dovevano essere riorganizzate le modalità di governance del welfare e del sistema delle relazioni industriali. Ciò sembra aver determinato una serie di vincoli esterni per le forme istituzionali prodotti attraverso un processo di persistente normalizzazione di tali presupposti teorici. Si è andata, così, consolidando una sorta di traiettoria neoliberale (Baccaro, Howell, 2011) che ha percorso anche i processi di integrazione europea per rispondere in maniera efficace agli imperativi dell’economia globale. Procedendo a rideterminare il peculiare “modello sociale europeo” emerso e consolidatosi nel primo dopoguerra (Hay, 2003). Una serie di posizioni ideali, che prefiguravano nella variante neoliberale di integrazione comunitaria la forma migliore per rispondere ai nuovi imperativi economici, hanno assunto effetti costrittivi e vincolanti per le società europee in assenza di manifeste conferme empiriche: “gli effetti reali dei discorsi economici sulla globalizzazione sono qualcosa di indipendente dalla veridicità delle analisi” (Hay, 2001).

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sinistra

L’Inverno della ‘quinta onda’ di Kondrat’ev1

di Eros Barone

fractal 82 it27s a beautiful dayfr2È possibile applicare la teoria delle ‘onde lunghe’ di Nikolaj Dmitrievič Kondrat’ev (1892-1938) allo studio della periodicità dei conflitti militari? La risposta è affermativa: infatti, l’economista russo ha individuato una correlazione tra lo scoppio delle guerre e la periodizzazione basata sulle ‘onde lunghe’ di durata cinquantennale, la cui manifestazione empirica è costituita dalla coincidenza dei grandi conflitti militari con l’apice dei cicli lunghi, coincidenza in forza della quale tali conflitti si verificano a ridosso delle fasi di prosperità economica. La coincidenza è comprovata sia dal ciclo delle guerre napoleoniche (1803-1815), sia dal ciclo delle guerre europee, in cui, fra l’altro, si inseriscono le guerre risorgimentali italiane (1853-1870), sia dal ciclo delle guerre imperialistiche (1904-1918). Anche qui l’opera di Mercurio si alterna a quella di Marte secondo una periodicità all’incirca cinquantennale. È tuttavia opportuno sottolineare che nel XX secolo la nozione stessa di ciclo economico perde la chiarezza che aveva nel XIX secolo, quando si conoscevano cicli di un solo tipo, quelli scoperti da Juglar,2 la cui durata varia in media dai nove agli undici anni. Nel 1923 Crum e, indipendentemente da lui, Kitchin constatavano, studiando le serie statistiche americane, la presenza di un ciclo più corto, di circa quaranta mesi. Qualche anno dopo un articolo di Kondrat’ev renderà accessibili agli economisti occidentali i risultati delle ricerche di questo studioso sovietico che aveva scoperto un ciclo lungo dalla durata all’incirca semisecolare.3

Kondrat’ev ha spiegato, alla luce del marxismo, il rapporto di causa-effetto che intercorre fra l’economia e la guerra: «Le guerre non cadono dal cielo e non derivano dall’arbitrio di singole personalità … Nascono dal sostrato dei rapporti reali, specialmente economici … e si succedono con regolare periodicità e soltanto durante la fase di ascesa delle ‘onde lunghe’ perché trovano ragione nell’accelerazione del ritmo e nella tensione della vita economica, nella intensificata lotta per i mercati e per le fonti di materie prime»4 .

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jacobin

La controversia sul capitale

di Gabriel Brondino e Davide Villani

La precarietà del lavoro, la rimozione dei diritti non sono scelte inevitabili dettate delle “leggi dell’economia”. Si tratta di un attacco ai lavoratori, un tentativo di riappropriazione capitalistica

economia jacobin 990x361Riflettere di teoria economica viene bollato nel migliore dei casi come un “ragionare dei massimi sistemi”, inutile. Niente di più falso perché è proprio dalle teorie e dalla visione di mondo che esse incorporano, l’ideologia, che derivano le scelte politiche siano esse in ambito economico, istituzionale e politico.

L’incapacità di analizzare le ricadute politiche di certe teorie rende difficile squarciarne il velo più profondo. Negli ultimi decenni, si è affermata egemonicamente una ben precisa teoria, quella neoclassica o marginalista, adottata come unica teoria, naturale e quindi incontestabile. Eppure non è affatto così: questa è solo una delle teorie economiche ed è anche fallace sia dal punto di vista teorico sia da quello empirico, cioè della capacità di realizzarsi ed essere verificata nei fatti.

Esempio più lampante è la riforma delle riforme: quella del mercato del lavoro, il lungo processo di flessibilizzazione e liberalizzazione avvenuto in Europa negli ultimi due decenni, in Italia a partire dal Pacchetto Treu del 1997 che introdusse il lavoro interinale. Queste riforme sono state giustificate dai governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni con l’idea che alla base dell’elevata disoccupazione italiana ci fosse un’eccessiva rigidità del lavoro, in ossequio ai dettami dell’Ocse. In questo contesto le tutele sindacali, così come qualsiasi norma a difesa dei lavoratori, impedirebbero il “corretto” funzionamento del mercato del lavoro. L’idea per cui la rigidità del mercato del lavoro costituirebbe un problema ha progressivamente monopolizzato il dibattito pubblico e l’agenda politica della maggioranza dei partiti dell’arco parlamentare, almeno in Italia.

Tutte queste misure si ispirano, più o meno esplicitamente, alla teoria economica dominante (neoclassica o marginalista) per cui la rimozione delle “frizioni” e delle “rigidità” del mercato del lavoro favorirebbe il raggiungimento della piena occupazione. Reso libero il mercato, la disoccupazione sarebbe soltanto una scelta volontaria.

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economiaepolitica

Il pensiero economico dominante scopre la politica fiscale?

di Angelantonio Viscione*

I modelli economici mainstream hanno commesso grandi errori di previsione, soprattutto durante gli anni della crisi, e questo ha spinto alcuni economisti a rivisitarli per avvicinarli maggiormente alla realtà. I cambiamenti proposti restano però vani: il pensiero economico dominante affonda comunque le sue radici in invadenti e controverse teorie neoclassiche

AP 17152763136532 720x0 c defaultDinanzi alle evidenze empiriche raccolte durante gli anni della crisi economica, gran parte degli economisti appartenenti a scuole di pensiero mainstream ha dovuto ammettere che le ricette di politica fiscale suggerite dai propri modelli economici si sono rivelate a dir poco inefficaci[1]. Ci riferiamo, in particolare, alle teorie d’ispirazione liberista secondo cui l’intervento dello Stato nell’economia dovrebbe ridursi al minimo e la politica monetaria dovrebbe mirare solo al controllo dell’inflazione[2]. In questo saggio vedremo brevemente quali sono le caratteristiche principali del modello teorico oggi dominante e, a titolo d’esempio, analizzeremo una proposta di sua rivisitazione apparsa sulla prestigiosa Oxford Review of Economic Policy a firma di due economisti mainstream esperti di politica fiscale, Christopher Allsop e David Vines (2015). Il nostro scopo è capire qual è la direzione verso cui si muove il pensiero economico dominante e, allo stesso tempo, cercare di capire se i ripensamenti in seno all’economia mainstream possano essere considerati sufficientemente adeguati ad affrontare le crisi economiche.

 

1. Il Nuovo Consenso in Macroeconomia

Il paradigma teorico dominante viene spesso definito come “Nuovo Consenso in Macroeconomia” e va a combinare ipotesi di ispirazione neoclassica come l’ottimizzazione temporale, le aspettative razionali e il Real Business Cycle con le ipotesi neokeynesiane di concorrenza monopolistica, di vischiosità dei prezzi e di centralità del ruolo di stabilizzazione della politica monetaria (Goodfriend 2007, p. 59). Una versione estremamente semplificata del modello del Nuovo Consenso in un’economia chiusa prevede un sistema di tre equazioni[3]:

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coniarerivolta

Disoccupazione: male necessario o arma dei padroni? 

di coniarerivolta

supermarioSono tempi molto confusi, nei quali le tradizionali categorie del discorso politico sembrano sfaldarsi sotto la pressione di nuovi termini dal significato volutamente ambiguo (“populismo” e “sovranismo”, in particolare). Sotto l’apparente confusione, però, continuano a operare i meccanismi che caratterizzano il capitalismo e, quindi, la lotta di classe. Può essere utile, allo scopo di fare chiarezza su tali meccanismi, ricorrere alle analisi dei più lucidi studiosi del capitalismo.

A tal fine, proponiamo ai lettori un breve ma denso pezzo del 1943 ad opera di Michał Kalecki (Lodz, 1899 – Varsavia, 1970), uno dei maggiori economisti eterodossi del ‘900. Di formazione marxista, ha contribuito in maniera decisiva agli studi sul ruolo della domanda effettiva sullo sviluppo delle economie capitalistiche, scrivendo pagine fondamentali sulla dinamica di un sistema economico moderno. L’articolo si intitola “Political Aspects of Full Employment” (in italiano, “Aspetti politici del pieno impiego”) e la domanda alla quale Kalecki cerca implicitamente di rispondere in esso è la seguente: se è vero, come la Storia e la teoria economica keynesiana insegnano, che i governi possono, attraverso la politica economica, ottenere il pieno impiego dei lavoratori, come mai ciò non accade? L’argomento è senz’altro di attualità e la lettura di Kalecki ci offre la possibilità di avere un’interpretazione coerente di ciò che quotidianamente leggiamo nel dibattito politico.

L’autunno che si prospetta per l’Italia è potenzialmente esplosivo: il governo gialloverde sarà finalmente impegnato sul primo, vero, banco di prova: la legge di bilancio. Fino ad ora ha avuto gioco facile nel mostrare i muscoli contro dei disgraziati alla deriva, ma il provvedimento che dovrà approvare ci farà capire quale sarà la direzione intrapresa dal nuovo esecutivo.

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economiaepolitica

Squilibrio: i cambiamenti strutturali dell’economia e il ruolo dello Stato

di Angelantonio Viscione

Stimolare la domanda e gli investimenti non sempre garantisce una crescita stabile del sistema economico. Lucarelli e Romano in “Squilibrio” si servono dei preziosi contributi della teoria economica critica per spiegare la complessa dinamica dello sviluppo capitalistico e individuare il ruolo dello Stato nei cambiamenti strutturali dell’economia

Squilibrio crescita 640x950A dieci anni dallo scoppio della grande crisi un numero sempre maggiore di economisti ed istituzioni sembra finalmente riscoprire il ruolo dello Stato in economia. Le evidenze empiriche raccolte negli anni recenti hanno infatti contribuito a far affermare sempre di più la tesi per cui l’intervento pubblico sia necessario almeno a governare le fluttuazioni cicliche di breve periodo delle componenti private della domanda aggregata. In altre parole, si riconosce sempre di più che nelle moderne economie capitalistiche i consumi e gli investimenti privati sono per natura instabili e, dunque, quando il settore privato comincia a risparmiare più di quello che spende, tocca allo Stato rilanciare l’economia aumentando la sua spesa in deficit[1].

Lo Stato moderno non può però limitarsi solo a questo. Il momento storico non aiuta il dibattito prevalente ad andare oltre la semplice dicotomia austeritàpolitica espansiva, ma i sostenitori della linea interventista corrono il rischio di trascurare il ruolo centrale che riveste nell’economia anche la composizione qualitativa degli investimenti. Non si tratta di un elemento marginale e laterale della politica economica: stimolare indiscriminatamente il livello degli investimenti non è sufficiente a garantire una crescita stabile.

Si pensi proprio all’Italia. Prima della crisi economica, nell’arco temporale che va dal 1992 al 2008, l’Italia è uno dei pochi paesi europei che conosce una crescita nella quota investimenti in macchinari sul Pil ma, allo stesso tempo, conosce un ristagno della quota di spesa del sistema produttivo in Ricerca e Sviluppo (R&S) sul Pil (Lucarelli et al. 2013). Al contrario, nello stesso periodo, la tendenza generale in Europa è quella di un calo della quota investimenti in macchinari sul Pil ma di una crescita della quota di spesa del sistema produttivo in R&S sul Pil.

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politicaecon

Nella bufera del Novecento

recensione di Nerio Naldi*

DE VIVO G. (2017), Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Roma: Castelvecchi, pp. 170.

Pubblichiamo la recensione del prof. Nerio Naldi, che da tempo è il "biografo ufficiale" di Piero Sraffa, al volume di Giancarlo De Vivo dedicato a Sraffa e Gramsci, già da noi recensito su Micromega con un commento successivo di Ernesto Screpanti. Ringrazio il prof. Carlo D'Ippoliti e Moneta e credito per l'autorizzazione.

william turner the temeraire towed to her last berth aka the fighting temraire sea ships artworkIl libro di Giancarlo de Vivo contribuisce alla ricostruzione di aspetti fondamentali delle biografie di Piero Sraffa e di Antonio Gramsci e delle vicende che li legarono negli anni in cui Gramsci fu in carcere. In questa breve esposizione ci soffermeremo su quattro temi che il libro approfondisce nei suoi due capitoli principali e nelle loro appendici.

Il primo tema è la ricostruzione del ruolo di tramite fra Gramsci e il centro estero del Partito Comunista d’Italia (PCI) svolto da Sraffa negli anni in cui Gramsci fu in carcere. In questo ambito, il contributo del libro di de Vivo consente di confutare affermazioni, non documentate, che in anni recenti sono arrivate a descrivere Sraffa come un funzionario del Partito Comunista d’Italia o dell’Internazionale Comunista preposto alla sorveglianza di Gramsci, come persona di cui lo stesso Gramsci non si fidava, o addirittura come un carceriere anziché come un amico di Gramsci. de Vivo individua elementi decisivi che consentono di ricostruire la linea di condotta di assoluta fedeltà a Gramsci tenuta da Sraffa anche a fronte della posizione critica che lo stesso Gramsci aveva assunto sul modo in cui i dirigenti del PCI avevano gestito i rapporti con lui, il capo del partito, rinchiuso in carcere. In particolare, le ricerche di de Vivo consentono di concludere che Sraffa, come esplicitamente richiesto da Gramsci, non trasmise al centro estero del PCI le copie delle due lettere cruciali che questi aveva inviato a Tatiana Schucht il 5 dicembre 1932 e il 27 febbraio 1933, chiedendo che restassero riservate per lei e per “l’avvocato” – ovvero per Piero Sraffa.

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economiaepolitica

Paul De Grauwe e il pendolo dell’economia tra mercato e pianificazione

di Sergio Marotta

il pendolo Limiti interni e limiti esterni del sistema economico

È uscita in questi giorni per i tipi de «Il Mulino» la traduzione italiana del libro di Paul De Grauwe I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia? Si tratta di un testo importante se non altro perché è stato scritto da uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’Unione europea, autore del manuale sul quale si formano le nuove generazioni di economisti nelle università di diversi Paesi dell’Unione.

Ma il libro è soprattutto un esempio di chiarezza nell’esposizione di problemi economici complessi che diventano immediatamente comprensibili anche per i non addetti ai lavori. De Grauwe non è un sostenitore di teorie economiche antisistema, ma è anzi un economista molto ascoltato che insegna alla London School of Economics: fonda le sue tesi sulle teorie di studiosi sicuramente mainstream come Daniel Kahneman, vincitore del premio Nobel per l’economia 2002, o Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales[1], e su teorie politiche di grande successo come quelle di Robinson e Acemoglu[2].

La tesi principale sostenuta nel libro è che il mercato così come oggi lo conosciamo non ha ancora molto tempo innanzi a sé e che le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rosee. Il mercato, infatti, rischia di raggiungere presto i suoi limiti e di andare a sbattere contro un muro. Secondo De Grauwe il muro che il mercato si troverà innanzi è costruito, innanzitutto, dall’interno attraverso l’accentuarsi, oltre ogni limite, della diseguaglianza nella ricchezza materiale. Ciò, alla lunga, non è sostenibile e darà luogo, come è già avvenuto in passato, a una reazione violenta da parte di coloro che si vedono privati dei necessari mezzi di sostentamento e che diventano ogni giorno più numerosi.

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la citta futura

Il disagio dei marxisti: la crisi, la finanza e la caduta del saggio del profitto

di Alan Freeman

Alcune affermazioni sulla crisi che trovano riscontro nella realtà ma possono rendere infelici gli economisti borghesi, ma anche molti marxisti

04clt1brooklyn street art variousInizierò parafrasando George Bernard Shaw: sono state dette molte cose apprezzate sull’economia, e molte cose vere. Però ciò che è apprezzato è sempre falso e ciò che è vero è sempre impopolare.

Detto in altri termini ogni verità in economia infastidisce qualcuno e talvolta infastidisce quasi tutti. Eppure, come disse Rosa Luxemburg, l'azione più rivoluzionaria è dire come stanno le cose. Quindi l'affronto è inevitabile se si persegue la verità.

Perciò intendo dire alcune cose impopolari che, credo, si siano dimostrate vere. Potete decidere se siete d'accordo dopo aver letto i materiali in cui si presentano l’evidenza e le argomentazioni. Li cito alla fine. Alcuni non sono ancora stati pubblicati, ma scrivetemi e invierò un testo preliminare alla pubblicazione.

Potere scegliere di ignorare queste affermazioni se non concordano col vostro modo di pensare. Per aiutarvi sono disponibili molte strategie di diniego: potete liquidarle come assurde o irrilevanti; potete usare la tecnica ad hominem per ridicolizzare gli autori; potete incitare gli altri a schierarsi contro di esse, o semplicemente far finta che non esistano.

Oppure, come Marx, potete riconoscere che la conoscenza procede attraverso la contraddizione e il contrasto. Quindi che è preferibile spendere il tempo per disputare con gli avversari piuttosto che per concordare con gli amici.

In breve, il compito del marxismo, nello spirito di Marx, è di ri-imparare l'arte dell’opposizione. Con questo spirito, comincio con alcune dichiarazioni aggressive che spero vi disturbino. Altrimenti, avrò fallito.

Ecco la prima: non esiste il sottoconsumo e non esiste la sovrapproduzione.

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pandora

“I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?” 

di Massimo Aprea

Recensione a: Paul De Grauwe, I limiti del mercato, da che parte oscilla il pendolo dell’economia? il Mulino, Bologna 2018, pp.192, 16 euro (scheda libro)

pend1 770x375«La storia economica degli ultimi duecento anni è una storia fatta di movimenti ciclici. Movimenti che hanno accresciuto l’influenza dei mercati a spese dei governi e che poi hanno riportato il predominio dei governi a spese dei mercati».

Come aggrappata a un pendolo, l’umanità oscilla continuamente tra gli estremi di stato e mercato, ritenendo di volta in volta l’uno o l’altro più adatto per tutelare il proprio benessere. È questa l’immagine con cui nel suo nuovo libro I limiti del mercato, Paul De Grauwe, noto economista belga, interpreta gli sviluppi del capitalismo moderno.

Ma qual è il meccanismo che innesca un’inversione del pendolo dell’economia? La risposta a questa domanda costituisce il cuore dell’argomentazione del libro e ha a che fare con i limiti dello stato e del mercato. In estrema sintesi, lo stato, senza mercato, non è in grado di generare un livello sufficiente di prosperità materiale; il mercato, invece, senza le necessarie azioni correttive da parte dello stato, esclude dal grande benessere che è in grado di produrre un’ampia fetta della popolazione. In entrambi i casi il malcontento e la frustrazione si accumulano fino ad esplodere in un evento traumatico; a quel punto il pendolo dell’economia inverte la sua rotta e a procede verso l’estremo opposto. In queste oscillazioni del pendolo, dunque, i punti di svolta coincidono con momenti di grande sofferenza per un gran numero di individui. È per questo motivo che gli sforzi di politici ed economisti si devono concentrare sulla ricerca di quell’equilibrio magico tra stato e mercato che consentirebbe al pendolo, finalmente, di riposare.

Quello che è certo, infatti, secondo De Grauwe, è che l’eterno dibattito stato vs mercato è fuorviante e puramente ideologico: stato e mercato sono, in verità, due elementi coessenziali di un sistema economico che si proponga al contempo di generare prosperità e di fare in modo che sia condivisa. Due strumenti che devono lavorare insieme, ognuno ponendo un freno ai limiti dell’altro, per accrescere il benessere delle persone e consentirgli, in ultima analisi, di essere felici.

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economiaepolitica

Il falso liberismo dell’ordoliberismo

di Cristina Re

merkel draghi ordoliberismo 499In Occidente, dalla Seconda guerra mondiale e fino agli anni Settanta del secolo scorso, l’ideologia che ha vinto la battaglia all’interno della società civile diventando egemone è stata quella keynesiana. Dagli anni ’80 in poi è invece avvenuto un netto cambiamento con l’affermazione della egemonia neoliberista, sia pure con differenti configurazioni a seconda dei diversi contesti nazionali. Dapprima in Germania e poi in Europa è stata la variante tedesca “ordoliberista a vincere il dibattito culturale, così da diffondersi attraverso gli “apparati ideologici di Stato”, diventando senso comune e creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. Spesso questo avviene senza percezione da parte della maggioranza della popolazione, tant’è che vi è una grande confusione in merito al suo effettivo contenuto. Nelle prossime pagine, si cercherà di fare chiarezza su questo tema, ricostruendone le idee e il periodo storico nel quale si è affermato.

Il momento fondativo del neoliberismo è collocabile al convegno Walter Lippmann tenutosi a Parigi, nel 1938 e in cui parteciparono, tra gli altri, von Hayek, Röpke e von Rüstow (Dardot e Laval, 2013). Al convegno per la prima volta venne usato il termine “neoliberismo” (Davies, 2014) e questo rappresenta di fatto il primo tentativo di creazione di una vera e propria “Internazionale neoliberista”. Nove anni dopo, nel 1947, Hayek fondò la Mont Pelérin Society con l’obiettivo di darne seguito con un think tank che riunisse tutti gli intellettuali neoliberisti del mondo. La nuova associazione diventerà il baluardo del neoliberismo agendo nell’accademia, nei media e nel business allo scopo di inserire membri e simpatizzanti in ruoli chiave, sia politici che economici, e divenendo famosa grazie anche agli otto premi Nobel assegnati ai suoi membri (tra i quali Milton Friedman e lo stesso Hayek) (Miroski e Plehwe, 2009).

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ilcomunista

Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»*

di Fernando Vianello

In appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77»

federico caffe bigIntroduzione.

«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).

L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).

 

2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.

Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche.

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sbilanciamoci

Macroeconomia, mezzo secolo di regresso

di Sergio Bruno

Nell’esegesi del libro di Francesco Saraceno “La scienza inutile”, i limiti di Keynes e alcuni errori che iniziano ad emergere anche tra gli studiosi di stampo neoclassico, dallo scarso peso al contesto di forti disuguaglianze alla sottovalutazione dei “prezzi ombra” di lavoro, beni e servizi

81S7R6oQVXLDi questi tempi, che piovono dal cielo dei governi, pesanti come chicchi di grandine, quasi solo atteggiamenti e decisioni densi di insipienza, mi vien da pensare come, nella prima metà del Novecento, vi sia stata una vera e propria rivoluzione copernicana nella comprensione dei fatti economici, con studiosi capaci di “vedere al di là del velo delle mere apparenze”, come accadde quando fu faticosamente superato il geocentrismo. Allo stesso tempo mi chiedo come negli ultimi cinquant’anni, invece, possa esservi stato in vaste parti della teoria economica un regresso cognitivo altrettanto sorprendente. Ed è interessante pure come tutto ciò, rivoluzione e controrivoluzione, abbia avuto riflessi importanti sulla cultura espressa dalla sfera politica e da quella della comunicazione influente.

La prima rivoluzione mi sembra tanto ovvia quanto ampiamente sottovalutata e per certi versi non pienamente compresa, quanto meno se si pensa che chi conosce bene i rivoluzionari della prima ora in macroeconomia – Robertson, Keynes, Hansen, Lerner- potrebbe fare fatica a vedere la parentela che questi studiosi hanno con quelli, da Pigou a Coase, che hanno posto con grande anticipo le premesse per una critica radicale all’efficienza dei mercati, evidenziando addirittura come il sistema dei prezzi espresso dal libero agire del mercato sia un pessimo indicatore di valori relativi, e quindi fonte di distorsioni sistematiche nell’uso delle risorse.

Molto più arduo per me, e penso per molti, cominciare ad intravvedere le ragioni dell’emergere e del consolidarsi impasticciato della controrivoluzione; ragioni, ben inteso, che vadano oltre all’ovvio intreccio tra il fascino ideologico del mercato e lo strapotere degli interessi a questo fattualmente legati. Tra questi non mi astengo dal segnalare la opulenta circolazione di studiosi tra organizzazioni che si occupano di banche e moneta a livello internazionale e tra tali organizzazioni e l’accademia.

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economiaepolitica

L’utopia dell’Equilibrio Economico Generale

di Domenico Mario Nuti

equilibrio economico generale 640x443Nella concezione popolare, ma spesso anche in lavori teorici poco rigorosi, troviamo una visione mitica del capitalismo, come sistema di garantita efficienza: in questo mondo ideale ogni individuo massimizza la propria utilita’ soggetto a vincoli di bilancio, uguagliando i tassi di sostituzione fra vari beni che consuma ai loro prezzi relativi; ogni impresa massimizza il profitto uguagliando i tassi di sostituzione fra i vari inputs ai loro prezzi relativi, e il costo marginale del prodotto al suo prezzo. Ne risulta – escludendo alcune difficolta’ che enunceremo piu’ avanti – un equilibrio economico generale che gode di efficienza Paretiana, per cui cioe’ non e’ possibile produrre una maggiore quantita’ di un bene senza ridurre la quantita’ prodotta di un altro bene, ne’ migliorare la posizione di alcuno senza peggiorare quella di qualcun altro.

Purtroppo questo tipo di sistema economico e’ un’utopia, nel senso letterale di un sistema che non esiste e non puo’ mai esistere. Innanzitutto i mercati sono incompleti, rispetto a quelli che sarebbero necessari per convalidare questa visione. Mancano i mercati intertemporali per beni futuri (o a termine), tranne un piccolo numero di mercati per prodotti primari omogenei e valute nazionali e estere, e per orizzonti temporali ristretti. In secondo luogo mancano mercati contingenti, ossia per beni associati a particolari “stati del mondo”, che potrebbero eliminare il rischio (quando la distribuzione delle probabilita’ di eventi futuri e’ nota e quindi il rischio e’ assicurabile) ma in ogni caso non l’incertezza (quando la distribuzione delle probabilita’ non e’ nota – una distinzione introdotta da Knight 1921).