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ilcomunista

Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»*

di Fernando Vianello

In appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77»

federico caffe bigIntroduzione.

«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).

L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).

 

2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.

Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche.

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sbilanciamoci

Macroeconomia, mezzo secolo di regresso

di Sergio Bruno

Nell’esegesi del libro di Francesco Saraceno “La scienza inutile”, i limiti di Keynes e alcuni errori che iniziano ad emergere anche tra gli studiosi di stampo neoclassico, dallo scarso peso al contesto di forti disuguaglianze alla sottovalutazione dei “prezzi ombra” di lavoro, beni e servizi

81S7R6oQVXLDi questi tempi, che piovono dal cielo dei governi, pesanti come chicchi di grandine, quasi solo atteggiamenti e decisioni densi di insipienza, mi vien da pensare come, nella prima metà del Novecento, vi sia stata una vera e propria rivoluzione copernicana nella comprensione dei fatti economici, con studiosi capaci di “vedere al di là del velo delle mere apparenze”, come accadde quando fu faticosamente superato il geocentrismo. Allo stesso tempo mi chiedo come negli ultimi cinquant’anni, invece, possa esservi stato in vaste parti della teoria economica un regresso cognitivo altrettanto sorprendente. Ed è interessante pure come tutto ciò, rivoluzione e controrivoluzione, abbia avuto riflessi importanti sulla cultura espressa dalla sfera politica e da quella della comunicazione influente.

La prima rivoluzione mi sembra tanto ovvia quanto ampiamente sottovalutata e per certi versi non pienamente compresa, quanto meno se si pensa che chi conosce bene i rivoluzionari della prima ora in macroeconomia – Robertson, Keynes, Hansen, Lerner- potrebbe fare fatica a vedere la parentela che questi studiosi hanno con quelli, da Pigou a Coase, che hanno posto con grande anticipo le premesse per una critica radicale all’efficienza dei mercati, evidenziando addirittura come il sistema dei prezzi espresso dal libero agire del mercato sia un pessimo indicatore di valori relativi, e quindi fonte di distorsioni sistematiche nell’uso delle risorse.

Molto più arduo per me, e penso per molti, cominciare ad intravvedere le ragioni dell’emergere e del consolidarsi impasticciato della controrivoluzione; ragioni, ben inteso, che vadano oltre all’ovvio intreccio tra il fascino ideologico del mercato e lo strapotere degli interessi a questo fattualmente legati. Tra questi non mi astengo dal segnalare la opulenta circolazione di studiosi tra organizzazioni che si occupano di banche e moneta a livello internazionale e tra tali organizzazioni e l’accademia.

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economiaepolitica

L’utopia dell’Equilibrio Economico Generale

di Domenico Mario Nuti

equilibrio economico generale 640x443Nella concezione popolare, ma spesso anche in lavori teorici poco rigorosi, troviamo una visione mitica del capitalismo, come sistema di garantita efficienza: in questo mondo ideale ogni individuo massimizza la propria utilita’ soggetto a vincoli di bilancio, uguagliando i tassi di sostituzione fra vari beni che consuma ai loro prezzi relativi; ogni impresa massimizza il profitto uguagliando i tassi di sostituzione fra i vari inputs ai loro prezzi relativi, e il costo marginale del prodotto al suo prezzo. Ne risulta – escludendo alcune difficolta’ che enunceremo piu’ avanti – un equilibrio economico generale che gode di efficienza Paretiana, per cui cioe’ non e’ possibile produrre una maggiore quantita’ di un bene senza ridurre la quantita’ prodotta di un altro bene, ne’ migliorare la posizione di alcuno senza peggiorare quella di qualcun altro.

Purtroppo questo tipo di sistema economico e’ un’utopia, nel senso letterale di un sistema che non esiste e non puo’ mai esistere. Innanzitutto i mercati sono incompleti, rispetto a quelli che sarebbero necessari per convalidare questa visione. Mancano i mercati intertemporali per beni futuri (o a termine), tranne un piccolo numero di mercati per prodotti primari omogenei e valute nazionali e estere, e per orizzonti temporali ristretti. In secondo luogo mancano mercati contingenti, ossia per beni associati a particolari “stati del mondo”, che potrebbero eliminare il rischio (quando la distribuzione delle probabilita’ di eventi futuri e’ nota e quindi il rischio e’ assicurabile) ma in ogni caso non l’incertezza (quando la distribuzione delle probabilita’ non e’ nota – una distinzione introdotta da Knight 1921).

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palermograd

Una crisi, tante teorie

di Marco Palazzotto

Pubblichiamo la relazione introduttiva di Marco Palazzotto all’incontro con Vincenzo Comito, “Banche tra normativa europea e digitalizzazione”, tenutosi a Palermo il 16 maggio 2018. Qui il video dell'incontro

01567Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a vari dibattiti sulla crisi finanziaria scoppiata nel 2007/2008. Tenterò di sviluppare sinteticamente alcune analisi che più meritano attenzione, a mio parere, nella discussione a sinistra.

Un primo esame della crisi si può far rientrare nel filone del cosiddetto ‘marxismo ortodosso’ e fa riferimento alla legge, che Marx espone in buona parte nella sua principale opera Il capitale, chiamata teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto.

In breve: il saggio di profitto (Sp) è dato dal rapporto tra plusvalore (Pv) e capitale (quest’ultimo è pari alla somma tra capitale costante [C] e variabile [V]).

Sappiamo anche che il saggio di plusvalore (Spv) prodotto dalla classe lavoratrice è uguale al rapporto tra plusvalore e capitale variabile (investimento in forza lavoro).

​Marx afferma che esiste una tendenza – apparentemente dovuta al progresso tecnologico, e che si manifesta nei relativi investimenti in capitale costante – che fa aumentare la composizione organica del capitale (rapporto tra capitale costante e variabile). Tale tendenza è dovuta al continuo tentativo di aumentare la produttività per ottenere maggiore plusvalore (diviso in plusvalore assoluto e relativo). Più aumenta il capitale costante in rapporto al capitale variabile (denominatore della formula 1) più diminuisce il saggio di profitto.

Tale teoria, viste le controtendenze in atto nel capitalismo (ad esempio: consumismo nel fordismo del dopoguerra; oppure finanziarizzazione nel neoliberismo) viene criticata, in diversi casi, come poco aderente alla realtà.

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roars

“Le situazioni scandalose non possono persistere all’infinito”

Sulla valutazione della ricerca in economia

Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini intervistano Luigi Pasinetti

pasinettiIl settore dell’Economia è tra quelli in cui più chiaramente si avvertono le contraddizioni e i limiti dei sistemi di valutazione della ricerca accademica in Italia. Una scienza economica ancora fragile, che per evolvere necessiterebbe di apertura, pluralismo e confronto tra i diversi approcci, è oggi condizionata nel suo sviluppo da criteri di valutazione e di selezione delle leve accademiche in larga misura arbitrari e schiacciati su un unico paradigma, benché questo sia sottoposto a crescenti obiezioni epistemologiche, teoriche ed empiriche. Il parere in materia di Luigi Pasinetti uno dei massimi esponenti mondiali del pensiero economico critico, intervistato da Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini.

Nel nostro paese le decisioni sulla qualità della ricerca, sulle abilitazioni scientifiche e sulle procedure concorsuali risultano dominate dalla zelante applicazione di contestati criteri di classificazione delle riviste, talvolta persino più restrittivi di quelli stilati dall’ANVUR. Il settore dell’Economia è uno di quelli in cui più forte si avverte la tendenza a valutare le pubblicazioni in base al ranking delle riviste piuttosto che al contenuto effettivo delle ricerche. In questo ambito, per giunta, si presenta un problema ulteriore: nelle classifiche vigenti sono fortemente discriminate quelle riviste che accettano approcci di ricerca alternativi al cosiddetto “mainstream”, la visione oggi prevalente in economia. L’ovvia conseguenza è che gli economisti, specie più giovani, sono indotti a reprimere i loro interessi verso i paradigmi scientifici alternativi pur di sopravvivere in accademia.

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economiaepolitica

Moneta bancaria: debito o rendita da signoraggio?

di Biagio Bossone, Massimo Costa

adolph menzel flotenkonzertDopo essere stato a lungo un portato fondamentale della teorie economiche post-keynesiane,[1] anche la dottrina mainstream ha di recente riconosciuto che le banche commerciali non sono semplici intermediari di moneta già esistente e accumulata (sotto forma di risparmi), ma creano moneta attraverso la loro tradizionale attività di prestito (McLeay et al., 2014), e, più in generale, ogni qualvolta emettano passività in forma di depositi a vista.

Ne abbiamo accennato nel nostro recente intervento su Economia e Politica, con il quale abbiamo proposto l’“Approccio Contabile” alla moneta e di seguito al quale vogliamo qui svilupparne alcune implicazioni attinenti più specificamente alla moneta bancaria.

 

Depositi e riserve

Se una banca non ha necessità di accrescere il suo indebitamento per potere prestare o vendere depositi, essa deve comunque disporre di sufficienti riserve di moneta legale, contante e depositi presso la banca centrale, rispettivamente per garantire le richieste di prelevamento di contante da parte dei depositanti e per regolare le obbligazioni verso le altre banche che derivano dagli ordini di pagamento scaturenti dalla mobilizzazione dei depositi emessi.

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la citta futura

Il Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty

di Paolo Massucci

451601e2c2a2c10e47fcc6138e9e1f31 XLLa concorrenza perfetta invocata da economisti e governi non intacca i meccanismi che accrescono le disuguaglianze economiche. Al riguardo ecco la proposta di Piketty. La proposta di una imposta annuale sul capitale fortemente progressiva e mondialmente estesa appartiene al filone del socialismo utopista, intrinsecamente irrealizzabile

In questa corposa opera scientifica di quasi mille pagine (Il Capitale nel XXI secolo) Piketty - sulla base dei dati disponibili - presenta in maniera dettagliata, talvolta persino ridondante, lo stato attuale delle nostre conoscenze storiche sulla dinamica della distribuzione dei redditi e dei patrimoni a partire dal XVIII secolo, traendone, in ultimo, insegnamenti per il secolo in corso. La lezione principale - che conferma peraltro molti altri studi nonché la comune esperienza - è che il sistema capitalistico, se abbandonato a se stesso, continua a produrre progressiva divergenza economica all’interno della società, mettendo persino in discussione quello stato sociale faticosamente conquistato dai cittadini europei.

Il testo, non certo sintetico, costituisce uno studio serio che ha il merito di chiarire, su basi oggettive, la distribuzione della ricchezza mondiale, la sua dinamica storica e la direzione futura prevedibile, nonché quello di formulare una possibile soluzione chiara dei gravi problemi, della quale espone anche gli attuali ostacoli da rimuovere per la sua effettiva realizzazione.

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keynesblog

Le illusioni dell’economia dell’equilibrio

di Paolo Leon

Pubblichiamo la prefazione di Paolo Leon al libro Squilibrio – Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico di Roberto Romano e Stefano Lucarelli, Ediesse Libri

unattimoprimaL’economia come scienza compiuta, quando, pur differenziate, le ricerche riposavano su un apparente solido terreno comune, è stata travolta dalla crisi iniziata a settembre 2007. Al progredire della crisi e all’assistere al “doppio tuffo” – simile nell’andamento alla crisi del 1929: il “double dip” – molti hanno scoperto Keynes, ma non le politiche di Roosevelt, che ebbero un effetto lento ma sicuro sulla ripresa. Anzi, gli economisti “standard”, che definisco pseudo keynesiani, hanno creduto che il pensiero di Keynes fosse corretto nella crisi, ma sbagliato quando la crisi si fosse risolta, abbandonando una qualsiasi logica e affidandosi a un misto di realismo e fede.

Anche durante la crisi, del resto, le politiche keynesiane non sono state applicate con la forza sufficiente, mentre prevalgono da allora le cosiddette politiche dell’offerta. Si tratta di azioni volte a limitare il ruolo dello Stato, della democrazia rappresentativa e del sindacato (per ridurre il deficit pubblico e, inevitabilmente, anche la domanda che ne derivava), a stimolare l’aumento della produttività e, riducendo i salari e peggiorando la distribuzione del reddito, a rincorrere una maggiore competitività.

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economiaepolitica

Ripensare la funzione di produzione neoclassica

di Gaetano Perone*

Cobb-Douglas aggregate production function surely represents the cornerstone of the neoclassical theory. However, its good fit implies the respect for a series of unrealistic and increasingly restrictive hypothesis. So, this article attempts to summarize and to analyze the most important objections to Cobb-Douglas function raised by heterodox economists

cobb douglas1. Struttura elementare della funzione Cobb-Douglas

La funzione matematica elaborata da Cobb e Douglas (1928) può essere considerata la pietra d’angolo dell’impianto teorico neoclassico. Stabilendo una relazione piana e diretta fra output di prodotto e input produttivi, essa costituisce la più nota funzione di produzione utilizzata nell’analisi economica aggregata (Prescott 1988, p. 532). Nella sua forma elementare, si presenta come segue:

funzione di produzione neoclassica (1)

Dove Y rappresenta l’output, A un multi-fattore di produttività della tecnologia adottata, K lo stock di capitale fisico, L il lavoro e α e β le quote distributive del reddito che vanno ai profitti e ai salari, e nel contempo l’elasticità di sostituzione statica di L e K. Teorizzata inizialmente per spiegare la distribuzione del reddito, essa è stata successivamente rielaborata da Solow (1956) per descrivere analiticamente i processi di sviluppo economico.

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scienzaepolitica

Dopo il keynesismo: teorie economiche per una (non-) politica economica

di Alberto Russo

In questo articolo viene proposta una breve discussione sull’evoluzione della macroeconomia e della politica economica dopo Keynes. In particolare, viene descritta la diffusione di un nuovo standard di ricerca, dopo la «stagflazione» degli anni ‘70 del secolo scorso, che ripropone la fiducia (pre-keynesiana) nelle capacità di auto-regolazione dei mercati e considera la politica economica (anticiclica) come un possibile ostacolo al raggiungimento dell’equilibrio «naturale» del sistema economico. Infine, vengono discusse alcune prospettive per la macroeconomia dopo la Grande Recessione

1420457688 2 al di la del faro paesaggi e pittori siciliani dellottocento1. Introduzione

Quando nel 1936 John Maynard Keynes pubblicò la sua Teoria Generale, i danni della Grande Depressione erano già evidenti. Con il suo contributo, Keynes individuò importanti misure di politica economica per superare la crisi attraverso l’intervento pubblico, in assenza di meccanismi di riequilibrio automatico del sistema economico. Il grande successo della Teoria Generale è dovuto proprio al bisogno di una nuova teoria macroeconomica in grado di comprendere cosa era andato storto e di indicare le soluzioni di politica economica per favorire una ripartenza dell’economia. La fiducia nell’intervento pubblico e nella politica economica continueranno a caratterizzare la teoria macroeconomica anche nel dopoguerra, fino agli anni ‘70 del secolo scorso, quando un nuovo cambiamento epocale viene accompagnato dall’aumento congiunto di inflazione e disoccupazione durante la crisi energetica.

La rivoluzione anti-keynesiana del monetarismo (di prima e seconda generazione) torna ad una impostazione (pre-keynesiana) contraddistinta dalla fiducia nelle capacità di auto-regolazione dell’economia di mercato, con il corollario che proprio le politiche economiche ostacolerebbero la tendenza del sistema verso il suo equilibrio naturale.

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pandora

“Austerity vs Stimulus”

di Lucio Gobbi

Recensione a: Robert Skidelsky e Nicolò Fraccaroli, Austerity vs Stimulus. The Political Future of Economic Recovery, Palgrave Macmillan, Londra 2017, pp. 183, 25 euro (scheda libro)

VS 640x315Il testo di Fraccaroli-Skidleski, Austerity vs Stimulus, è una raccolta di articoli che ha l’intento di presentare al lettore lo scontro intellettuale che si è combattuto, e che si combatte tutt’ora, rispetto all’importanza della politica fiscale in tempi di crisi. Si potrebbe dire che il testo è una rivisitazione moderna del dibattito Keynes-Hayek rispetto alle dinamiche del ciclo economico e alle politiche necessarie a contrastare i periodi di recessione.

Gli autori ci presentano un “saggio di montaggio” gradevole e che non cade mai in tecnicismi difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori. Terreno di battaglia è la grande crisi finanziaria del 2007 e gli avvenimenti che si sono susseguiti negli anni seguenti in Europa e negli Stati Uniti.

Il libro si articola in cinque sezioni dalle quali emergono tre posizioni di fondo: una pro-austerity, una anti-austerity e una intermedia tra le due.

 

I pro austerity

La sezione dei pro austerity è anticipata da un articolo di Hayek nel quale si sostiene un eccesso di indebitamento pubblico inevitabilmente conduce a una crescita del tasso di interesse e a uno spiazzamento degli investimenti.  Con questo incipit gli autori ci presentano alcuni articoli di Alesina e Giavazzi, di Reinhart e Rogoff oltre che di Nial Ferguson e Basley sul dibattito inglese.

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politicaecon

Altruismo, incentivi e informazione

Due o tre cose che so sull’esperienza socialista

Sergio Cesaratto

Pubblichiamo con qualche trepidazione alcune pagine sul socialismo, partecipando a modo nostro all'anniversario e soprattutto al dibattito sul futuro della sinistra

l afd3c230 28ff 11e2 b58d 2dcb76800008<What does the economist economize? "'Tis love, 'tis love," said the Duchess, "that makes the world go round." "Somebody said," whispered Alice, "that it's done by everybody minding their own business." "Ah well," replied the Duchess, "it means much the same thing." ... if we economists mind our own business, and do that business well, we can, I believe, contribute mightily to the economizing, that is to the full but thrifty utilization, of that scarce resource Love – which we know, just as well as anybody else, to be the most precious thing in the world> (D.H.Robertson 1954, p. 154, citazione di Alice da Lewis Carroll)*

Sommerso dalla didattica e dal chiudere un po’ di lavori, non ho potuto seguire con grande attenzione quanto pubblicato in queste settimane in occasione del centenario della rivoluzione sovietica. Del resto quel poco che ho letto (in italiano o in inglese) non mi è stato di grande ispirazione. Manca una chiave. Questa chiave io non ce l’ho. So due o tre cose che, come al solito, ho imparato dai maestri. Un solo lavoro che ho letto recentemente (Foley 2017) mi è stato di qualche stimolo.

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economiaepolitica

Nobel 2017: Thaler e le contraddizioni della “spinta gentile”

di Emiliano Brancaccio

Nobel 2017 per le scienze economiche assegnato a Richard Thaler dell’Università di Chicago, per i suoi contributi allo sviluppo dell’economia comportamentale. Una branca di ricerca promettente che tuttavia Thaler non sgancia dall’ideale normativo della teoria neoclassica, generando alcune aporie anche sul terreno delle sue proposte di politica economica. A cominciare dalla “spinta gentile” dei governi per indurre i lavoratori a risparmiare di più e a investire nel mercato azionario, della cui razionalità egli stesso ha dubitato

university economics chicago professor richard thalerGli appassionati di cinema lo ricorderanno per un fugace cameo ne “La grande scommessa”, discreta pellicola con velleità pedagogiche dedicata alla crisi del 2008. Intorno a un tavolo del blackjack, in un improbabile duetto con l’ex stellina della Disney Selena Gomez, un novello attore dalla chioma candida, un po’ in carne, molto rilassato, descrive con cadenza professorale un tipico esempio di comportamento irrazionale: la gente è indotta a puntare molto su quei giocatori che vincono da diverse mani, sebbene non vi sia alcun motivo di prevedere che siano destinati a spuntarla anche in futuro. Un’illusione che si riscontra sui tavoli da gioco come sui mercati finanziari, e che può creare le premesse per un tracollo economico [1].

L’attore improvvisato si chiama Richard Thaler, che per “i suoi contributi nel campo dell’economia comportamentale” è stato insignito ieri del Nobel per l’Economia 2017 [2]. Ispirato dalle ricerche di due precedenti vincitori del premio, Herbert Simon e Daniel Kahneman, Thaler è stato uno dei pionieri della ricerca psicologica applicata allo studio delle decisioni economiche.

Nell’Università di Chicago, dove insegna da anni, Thaler ha vestito per lungo tempo i panni dell’outsider: mentre Eugene Fama e gli altri suoi colleghi celebravano le teorie neoclassiche del comportamento razionale ed egoistico, lui accumulava prove che tendevano a confutarle.

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economiaepolitica

Eccesso di risparmio causa della crisi economica?

di Andrea Pannone

eccesso risparmioNel mio articolo pubblicato a febbraio 2017 su questa rivista affermo esplicitamente che l’ipotesi di un eccesso non temporaneo di risparmio sul volume degli investimenti privati, adottata da molti economisti per spiegare la persistente fase di debolezza dell’economia mondiale[1], sia teoricamente insostenibile nella realtà dei sistemi di produzione moderni. Per comprensibili ragioni di spazio, la dimostrazione formale dell’argomento era relegata nell’appendice dell’articolo stesso. Lo scopo di questo scritto  è chiarire meglio i leciti interrogativi lasciati aperti da quella rapida trattazione (si vedano ad esempio alcuni dei commenti dei lettori alla fine del paper).

 

  1. 1. L’ammissibilità dell’ipotesi di eccesso di risparmio

Come noto, la relazione tra risparmio, produzione e investimento è uno dei fondamenti della macroeconomia. In un’economia chiusa con risparmio pubblico nullo (ossia con tasse uguali alla spesa pubblica) il risparmio (S) è la parte del prodotto totale (reddito) non destinata ai consumi privati (famiglie e imprese). Gli investimenti privati (ossia la variazione netta dello stock di capitale fisico a disposizione delle imprese, indicata con I) sono invece, insieme ai consumi privati, una componente della domanda totale del prodotto.

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eticaeconomia

Perché la storia

di Bruna Ingrao

Bruna Ingrao riflette sugli effetti della drastica riduzione dello spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla storia economica all’interno dei corsi universitari in economia. Ingrao sottolinea, in particolare, l’impoverimento che ne deriva per la capacità degli economisti di interpretare la complessità dei fenomeni economici e sociali e richiama l’attenzione sulla necessità di tornare urgentemente a valorizzare le due discipline e la loro capacità di sollecitare la curiosità attraverso la narrazione di uomini, eventi ed idee

grasso spezie tra storia e economiaNelle università si è drasticamente ridotto, nei corsi di economia, lo spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla storia economica. In Italia, come a livello internazionale, si assiste alla progressiva scomparsa della storia nella formazione dell’economista. Scompare dai requisiti della formazione perfino l’introduzione alla storia delle idee economiche; si diluisce la conoscenza degli eventi economici nel tempo: i regimi monetari, le fasi dello sviluppo, le crisi finanziarie, l’innovazione tecnologica, l’evoluzione delle politiche economiche. Le due discipline, marginali o assenti nelle lauree triennali, sono quasi scomparse nella formazione magistrale e dottorale, quasi fossero un ornamento per l’arricchimento culturale degli studenti, non un pilastro della formazione cognitiva.

Un laureato in economia può uscire dal percorso formativo ignorando Smith, Walras o Schumpeter, senza nozione del dibattito passato su liberismo ed economia pianificata, senza saper distinguere tra liberismo e liberalismo, senza conoscere la prima rivoluzione industriale, la grande depressione, l’evoluzione dei regimi monetari, e così via. Ciò porta in prospettiva all’impoverimento culturale della figura dell’economista. Dobbiamo preoccuparcene? E perché? Intendo argomentare che è urgente ripristinare il ruolo della storia economica e della storia delle idee nella cassetta degli strumenti dell’economista, non solo per l’ovvia ragione di evitare l’ignoranza.