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Riscoprire Richard Kahn. Pensiero e attualità di un economista keynesiano di Cambridge
di Paolo Paesani
Paolo Paesani ricorda Richard F. Kahn, esponente di punta della scuola keynesiana di Cambridge, traendo spunto da un volume di recente pubblicazione. Paesani richiama alcuni aspetti importanti del contributo di Kahn, sul piano analitico e metodologico, e ne illustra l’attualità anche rispetto alla possibilità d’inquadrarli nell’ambito della costruzione di un nuovo approccio classico-keynesiano allo studio dei problemi economici
Richard Ferdinand Kahn, nato a Londra nel 1905, morto a Cambridge nel 1989, è stato un importante economista britannico, un protagonista del pensiero economico del Novecento, meno noto di altri ma non per questo meno interessante. La recente pubblicazione di una raccolta dei suoi scritti (R.F. Kahn, Collected Economic Essays, a cura di M.C. Marcuzzo e P. Paesani, Palgrave Mcmillan, 2022) offre l’occasione per riaccendere l’attenzione su Kahn e sull’originalità dei suoi contributi.
Richard Kahn è stato prima di tutto un discepolo di Keynes, come recita il titolo della lunga, bella intervista concessa a Cristina Marcuzzo nel 1987 (R.F. Kahn, Un discepolo di Keynes, 1988, Garzanti) e tradotta di recente in inglese. Il sodalizio, intellettuale e personale, tra Keynes e Kahn inizia nel 1927 quando Keynes segue Kahn come tutor a Cambridge (l’altro tutor è Gerald Shove, economista marshalliano di Cambridge) e prosegue ininterrottamente per i diciannove anni successivi, fino alla morte di Keynes. Sono gli anni della elezione di Kahn a Fellow del King’s College nel 1929 (con una tesi sull’Economia del breve periodo), dell’articolo del 1931 sul moltiplicatore, dell’esordio come insegnante all’Università di Cambridge, del Cambridge Circus, il gruppo di giovani economisti che seguono e incoraggiano Keynes nella gestazione della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.
Venuto a mancare il suo mentore, Kahn acquisisce progressivamente una sua propria autorità intellettuale nel solco del Keynesismo della scuola di Cambridge. Come ha ricordato Luigi Pasinetti, in un saggio in memoria di Kahn, c’è stato un momento, fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, in cui “come Chairman della Facoltà di Economia, Professorial Fellow e Fellow Elector del King’s college, organizzatore del cosiddetto ‘Seminario segreto’, sembrava che tutto il processo di formazione del pensiero economico di Cambridge ruotasse intorno a lui”.
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Il dibattito sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. La teoria del profit squeeze
di Xepel
Questo brano è tratto da un testo più lungo che si intitola Su alcuni aspetti della teoria delle crisi. Lo pubblichiamo in quanto introduttivo di una teoria – il cosiddetto “profit squeeze” – che si può riassumere nell’idea che alle origini delle crisi capitalistiche vi sia la capacità dei lavoratori di imporre significative conquiste salariali ai capitalisti riducendone così i profitti. Questo contributo è interessante soprattutto in quanto ribadisce l’importanza sia delle dinamiche economiche globali, sia delle dinamiche della lotta di classe locali [Antiper].
* * * *
Il dibattito sulla legge della caduta tendenziale [*] si intreccia al problema della teoria delle crisi. Negli anni ’70, alcuni economisti inglesi (soprattutto Glynn e Sutcliffe) avanzarono una teoria nota come “profit squeeze”, secondo la quale la caduta del saggio di profitto non era attribuibile alla crescita della composizione organica del capitale, che la svalorizzazione del capitale costante può contrastare indefinitamente, ma alle difficoltà nel contenere la crescita del capitale variabile (i salari) come conseguenza della piena occupazione e della forza del movimento operaio. A dimostrazione che il clima esplosivo di quegli anni aveva contagiato gli intellettuali, uno di questi economisti, professore a Oxford, aderì alla tendenza marxista del partito laburista, il Militant, e vi portò il dibattito sulla sua teoria del profit squeeze.
I partecipanti al dibattito erano d’accordo sul fatto che ci fosse stata una caduta della profittabilità come conseguenza dell’accumulazione di capitale. Non concordavano sul fatto che ciò dipendesse dall’operare della legge.
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Pasinetti e l'approccio classico-keynesiano
di Paolo Paesani
Paolo Paesani, ricordando Luigi Pasinetti, si misura con la sua proposta di sviluppare un nuovo approccio alla teoria e alla politica economica, fondato sulla sintesi tra l’economia classica e l’economia keynesiana. Paesani richiama i 9 elementi che lo stesso Pasinetti aveva indicato come base per costruire quella sintesi e, attingendo anche a un recente volume curato da Bellino e Nerozzi, illustra l’importanza ma anche la difficoltà di approfondire e integrare tra loro quei 9 elementi
Luigi Pasinetti, scomparso di recente, è stato uno dei più importanti economisti teorici italiani del secondo dopoguerra. Uno degli assi portanti del suo programma di ricerca, come sottolinea Sebastiano Nerozzi nel suo ricordo in questo del numero del Menabò, è il tentativo di costruire un nuovo approccio alla teoria e alla politica economica, fondato sulla sintesi tra economia classica ed economia keynesiana, in alternativa al marginalismo e all’individualismo metodologico tuttora dominanti.
Dall’economia politica classica, Pasinetti trae l’idea che il sistema economico debba essere concepito come un insieme di settori produttivi interconnessi che si possono analizzare indipendentemente dallo studio delle scelte degli agenti individuali che si muovono al loro interno. Queste connessioni costituiscono la struttura dell’economia, una struttura che cambia nel tempo per effetto del progresso tecnologico e del mutamento dei consumi secondo una dinamica ciclica. Da Keynes e i keynesiani, Pasinetti trae il principio della domanda effettiva, l’ipotesi, empiricamente fondata, che la propensione al risparmio dei percettori di profitti sia maggiore di quella dei salariati, l’idea che gli investimenti hanno un ruolo centrale nel determinare la dinamica dell’economia e la convinzione che disoccupazione e disuguaglianza siano i mali principali del capitalismo.
In un libro del 2007, Keynes and the Cambridge Keynesians, Pasinetti affronta il problema di definire le basi dell’approccio classico-keynesiano, nell’ambito di una riflessione più ampia sulla rivoluzione incompiuta di Keynes, sui contributi principali di alcuni esponenti della Cambridge School of Economics (Kahn, Robinson, Kaldor, Sraffa, Goodwin) e sui legami tra quei contributi e gli schemi analitici da lui stesso elaborati.
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Ricordo di Luigi Pasinetti
di Nadia Garbellini
Si ringraziano sentitamente Louis-Philippe Rochon e la rivista Review of Political Economy per aver consentito la traduzione in lingua italiana di questo articolo di prossima uscita su Review of Political Economy – April, 2023 – 35 (2)
Scrivere queste righe è straordinariamente difficile. Luigi Pasinetti è il mio maestro, ma soprattutto ero legata a lui da un affetto profondo. Sentirò immensamente la sua mancanza.
L’ho incontrato per la prima volta alla fine del 2006. All’epoca, stavo scrivendo la mia tesi magistrale in Economia Politica, a Pavia. Avevo detestato praticamente ogni cosa studiata in quei cinque anni; avevo fretta di laurearmi e trovare un lavoro, e ho chiesto di essere mio relatore all’unico professore il cui corso alla magistrale avevo seguito con interesse: Gianni Vaggi. Che cambiò ogni cosa.
Mi diede da leggere il libro del 1981, e mi assegnò il compito di confrontarne lo schema teorico con quello (neoclassico) dei modelli di crescita endogena. Io non sapevo nulla di questa contrapposizione – avevo seguito il corso introduttivo di Giorgio Lunghini al primo anno della triennale, ma allora non avevo gli strumenti per cogliere certi aspetti.
Ho scoperto un intero approccio alternativo molto più convincente di quello che ero stata costretta a studiare per cinque anni. C’erano però tante cose che faticavo a capire; avendo scoperto che Pasinetti era Professore Emerito alla Cattolica decisi di provare a scrivergli per porgli alcune domande.
Mi rispose quello stesso giorno. La settimana seguente eravamo a pranzo insieme alla mensa di Via Necchi. Pochi mesi dopo, appena laureata, ho iniziato ad aiutarlo con la correzione delle bozze di ‘Keynes and the Cambridge Keynesians’ (2007) e con il libro sulla teoria del valore che è stato la sua ultima fatica.
Ricorderò sempre quegli anni con grande tenerezza e riconoscenza.
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Il prestito al tulipano: ancora a lezione da Dgiangoz. Cronache marXZiane n. 10
di Giorgio Gattei
1. Allorquando si presenta un sovrappiù di produzione, ossia un surplus rispetto a ciò che serve per riprodurre l’attività economica sulla stessa scala precedente, si aprono due questioni assai differenti. La prima riguarda la spartizione di quel sovrappiù tra i partecipanti alla sua produzione, che in prima battuta sono i lavoratori con il salario ed i capitalisti con il profitto, ed è per questo che l’astronomo “classico” David Ricardo aveva posto a prefazione dei suoi Principi di economia celeste «la determinazione delle leggi che regolano questa distribuzione (come) il problema fondamentale nell’economia politica». Tuttavia esso non è l’unico (sul quale peraltro si è speso fin troppo inchiostro), perchè ce ne è pure un secondo problema relativo alla destinazione di quel sovrappiù: che farsene, servirsene per accrescere la base produttiva già in essere (accumulazione) oppure consumarlo improduttivamente ossia, per dirla con Piero Sraffa, non utilizzarlo «né come strumento di produzione né come mezzo di sussistenza per la produzione di altre merci»? Come al solito questo secondo problema era già stato ottimamente colto da Karl Marx, il massimo geografo di quel nuovo pianeta comparso nel cielo dell’economia che da lui ha preso il nome, che così ne aveva discusso nel Capitale. Critica dell’economia celeste a proposito della “Trasformazione del plusvalore in capitale”: «la produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plusprodotto, nel quale ha sede il plusvalore.
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Keynes e i Keynesiani di Cambridge
Prefazione all’edizione giapponese del 2017
di Luigi Pasinetti
Abbiamo appreso con immenso dispiacere della scomparsa di Luigi Pasinetti, uno dei grandi maestri del pensiero economico italiano. Pasinetti è stato uno straordinario interprete del pensiero di Ricardo e dei Classici ed uno dei protagonisti del dibattito tra le due Cambridge sulla teoria del capitale e della distribuzione. Tra i suoi scritti non possiamo non ricordare il paper “The myth (or folly) of the 3% deficit-GDP Maastricht parameter”, pubblicato nel 1998 dal “Cambridge Journal of Economics” in cui dimostrò – senza mai avere smentita – l’idiozia dei parametri di Maastricht relativi al deficit e al debito. Pasinetti era uomo pacato e anche raffinato, tanto nei modi quanto nel pensiero. E con raffinatezza e pacata determinazione lottò con tutte le sue forze per evitare che la valutazione della ricerca nel nostro Paese divenisse uno strumento di orientamento della ricerca scientifica volto a screditare le tradizioni di ricerca eterodosse [Si veda a tal riguardo La Nota di dissenso del 2006 che abbiamo ripubblicato alcuni anni fa su questa rivista https://www.economiaepolitica.it/editoriale/la-qualita-della-ricerca-scientifica-vqr-e-la-nota-di-dissenso-di-pasinetti/]. La sua è una grande perdita. Pubblichiamo qui di seguito uno dei suoi ultimi scritti, la prefazione alla edizione giapponese del libro Keynes e i Keynesiani di Cambridge, apparsa originariamente nel 2017 e mai tradotta in italiano.
La redazione di Economia e Politica
La bozza (originale) del mio libro Keynes and the Cambridge Keynesians. A Revolution in Economics to be Accomplished è stata consegnata alla Cambridge University Press per la pubblicazione nel maggio 2006. Ciò significa che il libro è stato scritto prima dello scoppio della catastrofica crisi economica che ancora oggi attanaglia le economie di tutto il mondo.
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L’eccesso di capacità e il velo di Maya sugli occhi degli economisti
di Andrea Pannone
Pubblichiamo un articolo di Andrea Pannone, economista già intervenuto nella sezione Transuenze negli scorsi mesi (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/capitalismo-delle-piattaforme-capital-gain-e-revolving-doors). In questo contributo, Pannone si sofferma su una tendenza «strutturale» e poco discussa degli ultimi decenni, il persistente sottoutilizzo della capacità produttiva, che nella sua analisi contraddice la visione neoclassica della capacità autoregolativa dell’economia capitalistica, attraverso appunto la periodica rimozione del capitale in eccesso (in altre parole, le crisi congiunturali). Il sottoutilizzo di capacità produttiva, in questa lettura, è uno dei sottostanti che alimentano la duplice tendenza alla concentrazione dei capitali e alla centralizzazione proprietaria, ma anche il lungo ciclo di espansione finanziaria che ha segnato gli ultimi decenni. E non certo per ultimo, l’acuirsi delle tensioni geopolitiche in corso.
Il contenuto dell'articolo è esclusiva responsabilità dell'autore e non coincide necessariamente con la posizione dell'Ente in cui lavora.
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Introduzione
Già nelle prime pagine del Capitale Karl Marx individua chiaramente la contraddizione intrinseca alla dinamica dell’economia capitalista: la competizione tra capitalisti per incrementare la produttività richiede un incessante investimento nella crescita dei mezzi di produzione che conduce a una condizione generalizzata di sovraccumulazione del capitale costante (e della composizione organica del capitale, ossia del rapporto tra capitale costante e capitale variabile), caratterizzata da un eccesso di capacità produttiva, un’elevata disoccupazione e da un declino del tasso di profitto.
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Verso le conclusioni
di Franco Romanò
L’articolo si collega ai precedenti già pubblicati qui, qui e qui.[E. A.]
Così riprende il testo:
Ora che abbiamo esaminato le diverse idee di costo elaborate da diverse generazioni di economisti, e le difficoltà che abbiamo incontrato, passeremo a discutere quali sono le relazioni fra il valore delle merci e il loro costo di produzione; e in particolare in che senso si può dire che il costo di produzione determina il valore e in che misura deve condividere il suo potere di determinazione con la domanda. Naturalmente la prossima parte della nostra inchiesta sarebbe stata più facile qualora avessimo trovato una chiara e definita concezione di costo di produzione, sulla quale fossero d’accordo gli economisti. In prima istanza abbiamo fallito, ma vedremo pure che nella dettagliata applicazione della nozione di costo alla teoria del valore saremo in grado di portare avanti la nostra analisi per un pezzo un po’ più lungo di strada prima di essere costretti di nuovo rinunciare a fronte di nuove difficoltà che possono finalmente spingere la nostra mente a considerare cosa intendiamo realmente quando parliamo di costo. La difficoltà è dovuta al fatto che. nella determinazione del prezzo di ogni particolare merce, la nozione di spese di produzione sarà sufficiente per molti propositi, senza che sia necessario decidere se 1) ci sia o meno l’ombra di “costi reali” oppure sacrifici dietro di esso; 2) un altro nome per utilità del prodotto (costo di opportunità), esso stesso costo reale in ultima analisi (non in quanto somma di denaro ma somma di cose consumate nella produzione) e se tale concetto abbia o meno un solido fondamento. Per alcuni qualsiasi definizione di costo funzionerà bene. Tutte tranne una e cioè il costo di opportunità nella sua estrema e più consistente interpretazione … che non ha alcunché a vedere con la determinazione del prezzo delle merci.
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Sraffa, Marx e la primavera
di Paolo Di Marco
1- il quadrato magico
Il testo di Sraffa che oggi compare, l’ultimo delle Lezioni, completa il quadro della critica dei fondamenti della teoria economica: quadro in tutti i sensi, dato che abbiamo l’articolo di Sraffa del 26, queste Lezioni, Keynes visto attraverso gli occhi di Anna Carabelli nella edizione completa delle opere, e infine Graeber col suo ‘Debito, gli ultimi 5000 anni’.
Da Sraffa vengono tre elementi di analisi della teoria marginalista: il primo (nell’articolo del 26) è che non necessariamente c’è un solo punto d’incontro tra la curve di domanda ed offerta, quindi un punto di equilibrio non è determinato con certezza, e con esso un saggio del profitto; il secondo che in generale tutte le curve che formano la parte analitica della teoria sono arbitrarie e provengono da sistemi di equazioni indeterminati; il terzo che l’ambito in cui possono avere applicazione pratica è ristretto a pochi casi marginali. Il tutto accompagnato dall’osservazione che la riscoperta della ‘economia volgare’ da parte dei marginalisti e la loro fortuna appare dovuta più alla voglia di abbandonare la teoria classica e con essa l’imbarazzante fardello del valore-lavoro, nonché lo spettro socialista che ad esso si era accompagnato, che non a meriti intrinseci.
Conviene aggiungere una nota matematica che non è sempre palese: quando si dice che in una teoria economica un sistema è sovradeterminato (come nel caso di Marx che aggiunge con l’uguaglianza somma-prezzi=somma-valori una condizione di troppo) o è indeterminato (come nel caso di Marshall- e con lui tutti i marginalisti per l’insieme delle curve di produzione) diciamo una cosa molto precisa: il sistema è sbagliato. Non è una soluzione. Se fosse uno studente che si presenta col compitino fatto gli diremmo: torna a casa e rifai da capo.
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Federico Caffè e la ri-politicizzazione dell’economico
di Emanuele Dell'Atti
È oggi ampiamente diffusa un’immagine stereotipata dell’economia presentata come una “scienza naturale”: un sapere a-storico, a-valutativo e indipendente dalle intenzioni umane. Ma l’economia, anche quando si traveste con gli abiti della neutralità tecnica, è sempre “economiapolitica”: esito, cioè, di precise intenzionalità e di specifiche progettazioni umane.
Lo sapeva bene Federico Caffè, tra i più importanti economisti italiani della seconda metà del Novecento, che si è sempre battuto, attraverso pubblicazioni scientifiche, interventi giornalistici e dibattiti pubblici, per costruire una civiltà più giusta di quella prodotta dall’economia capitalistica: Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè (Meltemi, Milano 2022, pp. 215) è infatti il titolo dell’inedito lavoro sul pensiero dell’economista pescarese scritto dal giornalista e saggista economico Thomas Fazi.
Il volume, a detta dello stesso autore, nasce “per caso”: l’intenzione originaria era quella di scrivere un libro sulla figura di Mario Draghi, utilizzando gli scritti di Caffè – suo maestro – come contrappunto al percorso professionale dell’ex presidente della BCE. Infatti, al netto dei “ridicoli parallelismi” (p. 19) tra Caffè e Draghi messi in risalto dalla stampa dopo l’incarico di governo ricevuto da quest’ultimo a inizio 2021, “del pensiero e della ‘filosofia’ di Caffè non vi era traccia nell’operato decennale di Mario Draghi” (ivi: 20), il quale aveva da tempo abbandonato l’originaria adesione al keynesismo per abbracciare le dottrine monetariste e il dogma del “vincolo esterno”.
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Da Roma a New York: Il keynesisimo eclettico del giovane Modigliani
di Paolo Paesani
Franco Modigliani (Roma 1908, Cambridge Massachusetts 2003) rimane un esempio di come sia possibile coniugare ricerca economica di alto livello, attenzione per i fatti concreti dell’economia, impegno nelle istituzioni, passione civile. Particolarmente significativo, in questo senso, l’interesse di Modigliani per l’Italia, il suo impegno nel formare generazioni di economisti italiani, la sua lunga collaborazione con la Banca d’Italia. La bibliografia su Modigliani si è arricchita, di recente, grazie al nuovo libro di Antonella Rancan (Franco Modigliani and Keynesian economics, 2020, Taylor and Francis). Combinando materiale d’archivio, scritti inediti e contributi importanti alla letteratura primaria e secondaria, Rancan ripercorre il percorso intellettuale del giovane Modigliani, dai suoi primi scritti fino ai contributi degli anni ’50 e 60, collocandoli nel quadro della sintesi neoclassica del pensiero keynesiano.
Fra i contributi principali in questa direzione, Modigliani sviluppa l’idea che la disoccupazione persistente sia dovuta a uno squilibrio di fondo tra offerta di moneta e salari nominali (rigidi verso il basso) (Modigliani, Liquidity preference and the theory of interest and money, Econometrica, 1944) e che in assenza di tale rigidità il sistema economico convergerebbe, almeno teoricamente, alla piena occupazione. La rigidità però è un fatto indiscutibile ed è per questo che spetta ad una politica economica giudiziosa, e in particolare alla politica monetaria, intervenire a sostegno dell’occupazione e in generale agire per stabilizzare l’economia, a fronte di shock dalla portata e dagli effetti inattesi.
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Alcune note sul contributo di Garegnani all’analisi economica
di Antonella Stirati*
Abstract: Garegnani è stato una figura di primo piano nel contesto italiano e internazionale, e la sua attività di ricerca sempre connotata da un forte impegno intellettuale e civile. Nel saggio vengono enucleate le sue principali linee di ricerca concernenti la critica alla teoria marginalista, la ripresa dell’impostazione classica del sovrappiù, e il ruolo della domanda effettiva, i contributi sia metodologici che teorici, i punti di convergenza e di tensione con la scuola postkeynesiana in senso lato
Desidero iniziare queste note su Garegnani con alcuni ricordi personali, e con alcune considerazioni su quanto Garegnani ha trasmesso sia con l’insegnamento che attraverso i suoi contributi riguardo a come esercitare il ‘mestiere’ di economista. In seguito, ripercorro alcune caratteristiche metodologiche molto generali relative al suo approccio all’analisi economica. Cercherò poi di enucleare, sia pure in modo descrittivo e sintetico, le sue principali linee di ricerca e contributi, e quali aspetti di questi ultimi appaiono ancora controversi tra gli economisti postkeynesiani ed eterodossi.
Il mio primo incontro con il nome di Garegnani in relazione al suo contributo alla critica alla teoria neoclassica del capitale è avvenuto al secondo anno del mio percorso universitario. Il corso trattava di microeconomia ed equilibrio economico generale, e il libro di testo era di Augusto Graziani. Il testo riportava alla fine di ogni capitolo una breve bibliografia commentata, e tra i riferimenti vi era anche quello alla controversia sulla teoria del capitale. La cosa già allora mi colpì molto: avevo studiato microeconomia durante il primo anno di corso su un testo del tutto tradizionale, e l’avevo trovato poco convincente – in particolare l’importanza attribuita alle scelte del consumatore mi sembrava aver scarsa attinenza con la realtà economica, che percepivo come terreno di scontri di interesse e di potere piuttosto che fondamentalmente dominata da quelle scelte. Tuttavia, avevo la percezione che quella era una teoria del funzionamento del mercato, e in quanto tale non poteva essere respinta senza motivo. Scoprire che un motivo poteva in realtà esserci, che erano stati denunciati errori di fondo di quella impostazione fu dunque causa di sollievo e anche di ravvivato interesse per la disciplina.
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Michal Kalecki e la piena occupazione
di Federico Fioranelli*
Michal Kalecki nasce a Lodz, in Polonia, il 22 giugno 1899, in una famiglia di origine ebraica. Nel 1917 inizia a studiare ingegneria al Politecnico di Varsavia ma interrompe gli studi prima della laurea. Si avvicina invece allo studio dell’economia leggendo Mikhail Tugan-Baranovsky e Rosa Luxemburg.
Dal 1929 al 1936 lavora presso un Istituto di ricerca economica a Varsavia e scrive dei testi raccolti in Studi sulla teoria dei cicli economici (1972).
Dopo essersi recato a Stoccolma, Londra e Cambridge grazie ad una borsa di studio, dal 1940 al 1945 lavora all’Istituto di statistica di Oxford: in questo periodo pubblica il saggio Aspetti politici del pieno impiego (1943).
Dal 1946 al 1955 è membro della Commissione economico-sociale dell’ONU.
Nel 1954 scrive Teoria della dinamica economica.
Nel 1955, Kalecki torna in Polonia per dedicarsi all’insegnamento e alla ricerca all’Università di Varsavia. I lavori di questo periodo fanno parte della raccolta Sulla dinamica dell’economia capitalistica (1975).
La dinamica dell’economia capitalistica
In Teoria della dinamica economica, Kalecki costruisce inizialmente un modello semplificato ipotizzando che l’economia sia chiusa e dividendo il sistema economico in due classi: i lavoratori e i capitalisti.
Il reddito dei lavoratori è costituito dai salari (W) mentre quello dei capitalisti dai profitti (P). Il reddito nazionale è così la somma di salari e profitti: Y = W + P.
Le imprese, in un’economia in cui hanno potere di mercato, adottano il principio del costo pieno, cioè un criterio che consiste nel fissare il prezzo del prodotto in relazione ai costi variabili, accrescendoli di un margine proporzionale destinato a coprire costi fissi e spese generali e a garantire un margine di profitto. I capitalisti determinano in questo modo il saggio di profitto e il saggio di salario.
Il profitto totale e il livello totale dei salari dipendono invece dalla spesa effettuata dagli stessi capitalisti in investimenti e consumi.
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Sequenza e classi: una risposta ai critici della teoria del circuito monetario
di Marco Veronese Passarella*
[M]entre la teoria del processo economico come insieme di scambi simultanei sembra fatta apposta per descrivere una società priva di classi, l’idea del processo economico come circuito conduce immediatamente ad individuare all’interno del processo economico la distinzione di classe.
Graziani 1977, p. 116
[L]a distinzione di classe si impone come dato primigenio del ragionamento: sono i capitalisti imprenditori, e soltanto loro, che possono dare avvio al ciclo impiegando capitale monetario per l’acquisto di forza lavoro, e questa possibilità li differenzia strutturalmente dai lavoratori, i quali altro non possono fare che vendere la propria forza lavoro.
Graziani 1977, p. 117
Descrizione
Quella descritta dallo schema del circuito monetario non è una mera scansione temporale di fatti stilizzati, ma la sequenza necessaria dei rapporti di produzione e di scambio tra classi sociali differenti e contrapposte nello spazio capitalistico.
1. Introduzione
Un recente, pregevole, contributo di Sergio Cesaratto, Sei lezioni sulla moneta (Diarkos Editore, 2021), mi ha offerto l’opportunità di riflettere sul lascito teorico dell’approccio del circuito monetario di Augusto Graziani, sugli stimoli intellettuali che continua ad offrire e soprattutto sui numerosi fraintendimenti di cui è stato oggetto nel tempo. Benché, infatti, l’autore del libro riconosca i meriti della teoria del circuito, in quanto ha contribuito a disvelare la natura endogena della moneta in un’economia capitalistica di mercato, non mancano gli spunti critici nei confronti dell’impostazione di Graziani. In particolare, Cesaratto si spinge a definirla “un po’ complottista” (Cesaratto 2021, p. 297), dato che pretenderebbe di spiegare le relazioni tra banche ed imprese private come se ciascun settore costituisse un tutto omogeneo, dotato di una propria volontà trascendente quella dei singoli agenti individuali.
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La politica monetaria europea tra ordoliberalismo e New Consensus Model
di Stefano Figuera, Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella
1. Introduzione
L’impianto della politica monetaria europea ha risentito delle vicende storiche e del dibattito teorico della prima metà del secolo scorso. Il paradigma ordoliberale che vide la luce in Germania all’inizio degli anni Trenta ha rappresentato a quest’ultimo proposito un importante punto di riferimento. Lo scopo del nostro lavoro è duplice: da una parte esso intende ricostruire l’influsso ordoliberale sulla politica monetaria europea nel corso del tempo, e dall’altro dimostrare come essa sia stata anche condizionata, a diverso titolo, dagli sviluppi del mainstream teorico, dal neoliberalismo al New Consensus Model (NCM).
2. L’eredità della tradizione ordoliberale
Negli anni Trenta del secolo scorso, ad opera di un economista, Walter Eucken, e di due giuristi, Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth, tutti docenti nell’Università di Friburgo, prese avvio una riflessione sui limiti del liberalismo classico e sul ruolo dello Stato.
In un manifesto programmatico del 1936, intitolato “Il nostro compito”, essi esplicitarono il loro intento, di “rimettere il diritto e l’economia al loro giusto posto”[1], individuando a tal fine alcune linee lungo le quali muoversi.
Nel sistema teorizzato dall’ordoliberalismo il principio base dell’economia è rappresentato dalla presenza di un efficiente sistema di prezzi di concorrenza perfetta. A questo principio base ne vengono affiancati altri sei, dei quali tre attengono a importanti profili di politica economica: il primato della politica monetaria, la costanza della politica economica e il principio dei mercati aperti.
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Diego Giachetti: Dopo la fine del comunismo storico novecentesco
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin

Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio

Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata

Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung

Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare

Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica

Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto






































