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Quale cultura per ridisegnare l'Europa
di Sergio Bruno
Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. Ma è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione
Ho detto che, ove si riuscisse ad arrestare l’attuale deriva delle strategie europee, occorrerebbe poi dotarsi di più strumenti culturali, di più lungimiranza, di più etica. Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. A mio avviso è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione. Occorre invece tornare agli insegnamenti suggeriti dall’esperienza storica e da una buona parte degli economisti e dei politici della prima parte del secolo scorso, aggiornando il quadro problematico per raccordarlo meglio alle trasformazioni intervenute da allora.
Il lungo periodo di grande espansione ed evoluzione che è durato dalla fine del 1800 agli anni 1970, sia pure con alti e bassi, con momenti di crisi evidenti come quelli degli anni 1930, con accelerazioni dai risvolti crudeli quali quelle dovute agli sforzi bellici, ha molto da insegnarci. Il processo espansivo ha visto sempre come protagonisti complementari lo stato, le imprese, i sindacati. Le egemonie sono state di volta in volta diverse. Una buona parte di tali esperienze è stata innescata dalle grandi imprese innovative, quelle che maggiormente hanno raccolto i frutti delle grandi invenzioni maturate in sede scientifica a partire dalla fine dell’ 800, spesso contribuendo alla loro maturazione e sempre al loro successo.
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I fatti di Parigi e il complottismo
Una chiave di lettura consolatoria e fuorviante
Marco Santopadre
“Sono stati gli israeliani”, “Gli Usa hanno colpito la Francia perché è contro le sanzioni alla Russia”, “Perché il corpo del poliziotto non sanguina? E’ tutta una messinscena, a Parigi non è mai morto nessuno”, “Dicono che è stato l’Isis? Ma se l’Isis è un’invenzione della Cia!”…
In queste ore sul web, insieme ai tanti messaggi di frettolosa identificazione nei confronti di un giornale della quale la maggior parte degli italiani neanche conosceva l’esistenza e dal quale rimarrebbe probabilmente inorridito conoscendolo meglio, proliferano innumerevoli ricostruzioni e commenti sui fatti di Parigi.
Fatti che, occorre dirlo, non sono del tutto chiari e rivelano non pochi buchi nelle ricostruzioni ufficiali, suscitando quindi parecchie perplessità in chi ha sviluppato nel tempo un sano e sacrosanto scetticismo nei confronti delle versioni di alcuni importanti eventi diffuse dalle autorità e dalla stampa.
E’ possibile che tre “non professionisti del terrore” abbiano messo in scacco uno dei paesi più potenti e organizzati in fatto di sicurezza, intelligence e apparati militari? E’ possibile che la sede di un giornale così gravemente aggredito e minacciato fosse così scarsamente protetta? O che i due fratelli Kouachi abbiano potuto così facilmente organizzare la strage nonostante fossero più che noti alle forze di sicurezza di Parigi? Non è che ‘qualcuno’ li ha lasciati fare?
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Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo…
Appunti sul vittimismo italiano
di Wu Ming 1
Ho cominciato a prendere questi appunti ormai molti mesi fa, dopo aver letto in sequenza il libro di Federico Tenca MontiniFenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (KappaVu, 2014) e il pamphlet Critica della vittima di Daniele Giglioli (Nottetempo). I due libri sono complementari. Tenca Montini e Giglioli affrontano gli stessi nodi di fondo. Il primo lo fa analizzando un case study molto significativo, ricostruendo genesi, sviluppo e affermazione, nel corso degli anni Novanta e degli anni Zero, del discorso sulle «foibe». Discorso quintessenzialmente vittimistico, perfettamente coerente con l’autonarrazione deresponsabilizzante spesso riassunta nell’espressione «Italiani brava gente»; Il secondo, invece, fotografa la tendenza egemone dei nostri tempi, la centralità della «vittima» nell’immaginario italiano e occidentale contemporaneo.
Quella che era partita come riflessione ispirata dalla lettura quasi contemporanea dei due saggi, si è gonfiata come un torrente a fine inverno e ha trascinato a valle detriti di polemiche di cronaca, storiografiche e di costume.
Rimuovere tutte le premesse tranne una
Ovviamente, le vittime sono sempre esistite. Quelle vere e quelle presunte. Anche il vittimismo – il “fare la vittima”, l’atteggiarsi a vittima – non è una novità, e si manifesta da sempre in tutto il mondo.
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"L’eurozona? Insostenibile. Tsipras valuti anche l’uscita dall’euro”
Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
Secondo l’economista l'abbandono della moneta unica è un’opzione difficile, che al momento Syriza non contempla. Ma la storia europea potrebbe intraprendere sentieri molto diversi a seconda di quali forze politiche, per prime, si assumeranno il compito di trarre le conseguenze del fallimento dell’eurozona: “Oggi l’egemonia politica è contesa tra liberisti e razzisti. Se la sinistra affrontasse per prima i nodi dell’euro, le prospettive europee potrebbero farsi meno cupe”.
Le elezioni in Grecia del prossimo 25 gennaio hanno assunto una valenza europea. La vittoria di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras incutono paura alla finanza e ai poteri forti dell’Unione Europea. Il presidente Juncker ha invitato a “non votare in modo sbagliato”, il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato la sospensione dei negoziati sugli aiuti alla Grecia fino alla formazione del nuovo governo, mentre i mercati hanno mandato a picco la borsa di Atene facendo schizzare in alto i tassi sui titoli di Stato. Indicazioni arrivano anche dalla Germania: la Cancelliera Angela Merkel ha ribadito che dopo le elezioni la Grecia non dovrà abbandonare le politiche di austerity e di competitività salariale, mentre il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble ha dichiarato che solo rispettando i “memorandum” imposti dalla Troika i greci potranno rimettere i conti in ordine e avviare la ripresa. Che partita si sta realmente giocando ad Atene? Ne parliamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia all’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti”, un documento pubblicato sul Financial Times nel 2013, alquanto scettico sulle future possibilità di sopravvivenza dell’euro.
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Non chiamatele rivoluzioni
Spazi urbani e nuove forme della politica
Federica Castelli
Gli eventi e le proteste degli ultimi anni ci hanno mostrato l’urgenza di una riflessione politica sulle nuove modalità di partecipazione alla scena pubblica, tra occupazioni e nuove esperienze di autogoverno. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di pratiche politiche radicate nella materialità delle esistenze, nella sua concretezza e nelle sue urgenze; esperienze che difficilmente possono essere fatte rientrare in un’unica analisi, dal momento che ognuna mantiene una propria specificità legata al contesto. Inoltre, non è facile tenere assieme uno sguardo generale e l’attenzione al presente, alla materialità e contingenza delle esperienze. Sono eventi specifici, ognuno diverso dall’altro, ognuno unico a suo modo. Eventi unici, eppure in connessione. Tenere insieme questa unicità con lo sguardo ampio di una lettura generale è difficile e forse anche un po’ pericoloso, ma non è impossibile, se conosciamo i rischi dell’uso ingenuo della teorizzazione.
La mia intenzione è quella di prendere in considerazione alcuni eventi di protesta e di riappropriazione degli spazi urbani degli ultimi anni. Quelli più famosi, quelli che hanno smosso gli immaginari, quelli che hanno creato le scintille e, in un certo senso, quelli che hanno creato un “brand” di protesta, a cui a volte si attinge con troppa facilità. Parlo dei movimenti che dal 2011 hanno riempito pagine di giornali e telegiornali internazionali, hanno fatto esplodere i social network: il movimento degli indignados spagnoli, piazza Tahrir del 2011, il movimento Occupy, negli Stati Uniti, in Turchia e non solo, fino alle risonanze che esso ha avuto in Italia.
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I fondamentalisti e gli Ultimi Uomini
di Slavoj Žižek
[Questo intervento è uscito su «The New Statesman». Ringraziamo l’autore per averci concesso di pubblicare la nostra traduzione italiana. Il titolo è redazionale]
Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.
Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica verso l’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberal occidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.
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Il secondo comandamento
di Raffaele Alberto Ventura
[Di ritorno dalla gigantesca processione parigina per le vittime degli attentati di questa settimana, provo a dire alcune cose che mi sembrano importanti]
«Avete voluto uccidere Charlie ma lo avete reso immortale»: eccolo qua, riassunto in uno slogan di piazza, il capolavoro dei fratelli Kouachi. Hanno preso di mira un giornale che si stava spegnendo nell’indifferenza generale e lo hanno resuscitato a colpi di kalashnikov. Adesso le folle si precipitano in edicola per acquistare Charlie Hebdo, il governo annuncia finanziamenti milionari e le caricature del Profeta vengono pubblicate ovunque. Ma chi crede che questo rinculo costituisca una sconfitta per il terrorismo evidentemente conosce male il terrorismo, la sua storia, i suoi meccanismi. Il terrorismo è una strategia di mobilitazione delle masse: provocare la ritorsione fa parte della sua ragione d’essere. Spingendoci ad abbracciare l’ambigua battaglia di Charlie Hebdo ovvero a fare della blasfemia una bandiera della libertà d’espressione, i fratelli Kouachi hanno scaraventato l’Occidente in una trappola insidiosa. La storia delle guerre civili europee del Sedicesimo secolo avrebbe dovuto insegnarci qualcosa sui modi più ragionevoli di armeggiare con le divinità degli altri. Per questo non possiamo salire sul carro dei vignettisti-martiri. Per questo non possiamo dare il nostro sostegno a chi vuole rendere «immortale» Charlie e le sue provocazioni. E per questo cercheremo di spiegare a chi lo ha pervertito il senso di un concetto fondamentale per la sopravvivenza di questa nostra malandata società multiculturale: si chiama laicità.
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Che succede al prezzo del petrolio?
Domenico De Simone
Molti amici ed estimatori mi hanno chiesto delucidazioni sulla improvvisa caduta verticale del prezzo del petrolio e sulle sue origini. Ringrazio tutti per la fiducia, ma francamente non posso fare molto di più che formulare delle ipotesi, probabilmente vaghe e forse vere solo in parte. Per le previsioni, poi, non ne parliamo nemmeno, osservatori ed analisti potenti ed accreditati e sbagliano regolarmente, nonostante dispongano di mezzi di analisi e di strumenti di calcolo decisamente potenti ed affidabili. Proviamo a ragionare.
La prima idea che viene in mente, e che peraltro è stata sostenuta ed è tuttora sostenuta da diversi osservatori, è che la caduta del prezzo del petrolio è una manovra voluta dagli americani per mettere in ginocchio la Russia e far precipitare il consenso e il potere di Putin e del suo gruppo. A mio avviso, però, questa è un’idea sbagliata, o meglio, in buona parte sbagliata. Intanto la caduta verticale del prezzo del petrolio è certamente riconducibile alla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, seppure in presenza di una domanda mondiale debole e con prospettive persino di riduzione. L’Opec, com’è noto, è politicamente condotto dall’Arabia Saudita che, dall’alto dei suoi dieci milioni di barili al giorno di produzione ne determina di fatto le scelte.
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La deludente verità dell’antisemitismo di Heidegger
Andrea Zhok
In uno degli ultimi numeri di Scenari Stefano Cardini richiamava l’attenzione sull’impatto della recente pubblicazione dei “Quaderni neri” di Martin Heidegger, e invitava a ripensare con più radicalità il nesso tra quel pensiero e la storia politica europea. Sulla scorta di quelle considerazioni ho preso visione direttamente dei volumi 95 e 96 della Gesamtausgabe, dove sono contenute le riflessioni degli anni 1938-1941. Come cercherò di dimostrare, sia pure per sommi capi, queste pagine sembrano effettivamente destinate a modificare le ricezione heideggeriana, non per qualche rinnovato scandalo per l’antisemitismo o nazismo di Heidegger, ma per la collocazione di quelle idee sullo sfondo complessivo del suo pensiero.
1. Antisemitismo e nazismo negli Schwarze Hefte
Il numero di passi in cui il tema dell’ebraismo è discusso nelle pagine in oggetto è piuttosto esiguo. Si tratta in tutto di 5 passi nel volume 96 e di 3 passi nel volume 95. Tuttavia i passi in questione non sono note marginali, ma tesi che collocano il tema dell’ebraismo, e di una specifica forma di antisemitismo, in una posizione strategica all’interno del pensiero heideggeriano. Proviamo di seguito a darne una breve sintesi, con la premessa che, ove possibile, cercheremo di ‘rettificare’ la prosa convoluta che Heidegger predilige, in modo da portare alla luce il nocciolo essenziale delle sue tesi, a costo di perdere alcune nuance.
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Al momento di marciare molti non sanno…
Militant
Ieri a Parigi, a guidare la marcia contro i “barbari tagliagole” c’erano altri barbari, quelli in giacca e cravatta.
Spiccava, per le mani sporche di sangue, il premier israeliano Benjamin Nethanyau, seguito a ruota dal presidente ucraino Poroshenko e dal turco Davotoglu. E c’erano quelli che l’estremismo islamico l’hanno creato, alimentato e finanziato.
E al loro fianco sfilavano quelli che in questi anni hanno votato le guerre umanitarie, lasciando sul campo, sotto le bombe dei B52 e dei droni, migliaia di vittime civili. Ma questo si sa, non è terrorismo, sono operazioni di polizia internazionale.
E poi c’erano quelli che, qui da noi, ogni giorno impongono politiche di lacrime e sangue a milioni di lavoratori.
Non c’era Obama, è vero, però, perchè non se ne sentisse la mancanza, c’era il segretario della Nato Jens Stoltembreg.
Tornano allora in mente, mai così attuali, i versi di Brecht: Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.
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Democrazia?
di Daniele Ventre
Un recente saggio dell’Economist (1) indaga l’evoluzione e la diffusione dei sistemi politici democratici nel mondo, durante il XX secolo e il primo quindicennio del XXI. Lo scenario che viene delineato è estremamente interessante, e inquietante per le sue conseguenze. Ciò che lascia non poco a desiderare è la diagnosi del male profondo e la debolezza delle soluzioni proposte.
Nello scenario delineato dal saggio in questione le democrazie nel secolo scorso hanno vissuto il tempo del loro trionfo. Fra le due guerre, con l’implosione degli Stati liberali in Europa, i Paesi a ordinamento democratico erano ridotti a una ristretta minoranza, rispetto ai regimi autoritari di tipo populista: isole assediate che ben presto furono travolte dalla barbarie che avrebbe condotto al secondo conflitto mondiale. L’esito di quest’ultimo, tuttavia, segnò una netta inversione di tendenza e la divisione del mondo in due blocchi. La fine della guerra fredda segnerebbe una nuova fase della diffusione della democrazia, con il collasso dei regimi del socialismo reale. Dagli anni ’90 del secolo scorso, però, le cose si sono rivelate un po’ più complesse. Di fronte allo stress economico della crisi finanziaria, le sperequazioni sociali e le situazioni criminogene si accrescono.
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Je Suis L'Ouest
Anna Curcio intervista Miguel Mellino
Questa chiacchierata nasce da un disagio, da una condizione di spaesamento di fronte alle analisi che circolano, anche all’interno del movimento, su quanto è successo a Parigi. Concentrare l’attenzione sulla difesa della libertà di espressione o in appelli per porre un freno all’islamofobia mi sembra infatti piuttosto debole, limitante, sicuramente insoddisfacente. Non è però mia intenzione qui produrre una valutazione o un giudizio di valore sui fatti. Semplificando potremmo dire si tratti di un’azione nemica alla costruzione di percorsi di liberazione – in una guerra che non vede nessuno scontro di civiltà, né l’opposizione anti-imperialista a interessi imperialisti, ma piuttosto il fronteggiarsi di differenti forme di oppressione e sfruttamento interne alla stessa civiltà capitalistica. Da questa angolazione, quello che invece ci interessa è soprattutto riflettere sulle genealogie di questa guerra e sulle rimozioni che l’accompagnano. Qual è il tuo punto di vista in proposito?
Sono abbastanza d’accordo. È chiaro che si tratti di uno scontro interno alla civiltà capitalistica. Non è uno scontro di civiltà, le civiltà come entità reificate sappiamo che non esistono, e qui non ci sono due fazioni di cui una è necessariamente più buona dell’altra. Sono entrambe espressione della stessa cosa.
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Il vento della storia o la tempesta capitalista
Lelio Demichelis
Dove è andato al potere, il capitalismo ha distrutto tutte le condizioni di vita precedenti e diverse ma non ha lasciato tra gli uomini altro vincolo e legame che il nudo interesse. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio e posto la libertà di commercio come valore assoluto e supremo della società. Invece dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha prodotto e fatto accettare lo sfruttamento aperto, senza pudori. Sì, perché il capitalismo non esiste se non rivoluzionando di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi l’insieme dei rapporti sociali. L’incertezza e il movimento incessante gli sono strutturali. Mentre il bisogno di mercati sempre più estesi lo spinge ovunque nel globo terrestre, rendendo cosmopolita la produzione e il consumo e creando sempre nuovi bisogni. E nuove crisi, riducendo i mezzi per prevenirle.
Ecco una sintetica descrizione della globalizzazione degli ultimi vent’anni, della modernità liquida baumaniana e del neoliberismo. Dove tutto diventa liquido, incerto, in movimento sempre più frenetico, per una competizione globale di tutti contro tutti. In verità abbiamo semplicemente ripreso (ma rispetto all’originale abbiamo preferito capitalismo a borghesia) alcuni brani del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels del 1848.
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Crisi globale e lotta di classe in Europa.
Intervista alla redazione di «Cuneo Rosso»
Nell’intervista che qui proponiamo, un redattore de «Il Cuneo Rosso» ci espone i contenuti del secondo numero della rivista dedicato a Crisi globale e lotta di classe in Europae caratterizzato da un’ampiezza di sguardo e da uno sforzo analitico che hanno pochi termini di paragone in Italia. Ovviamente, come si evince anche dalle risposte ai nostri quesiti, le singole conclusioni cui sono giunti i compagni de “il cuneo rosso” possono suscitare discussioni anche accese. Si pensi, ad esempio, all’aspra critica che viene riservata alle campagne per il recupero della sovranità monetaria, che però viene sviluppata su un piano coerentemente classista, distante anni lue da certo europeismo “progressista”. Per non dire delle drastiche valutazioni sullo stato del proletariato a livello continentale, che si prestano ad approfondimenti e disamine, da svolgersi possibilmente in occasione di presentazioni della rivista.
Questo secondo numero de «Il Cuneo Rosso», dedicato allo scontro di classe in Europa e in Italia nella crisi globale, viene dopo un primo incentrato sull’Intifada araba. Qual è, secondo voi, il nesso tra i due temi?
Il nesso fortissimo è quello della grande crisi capitalistica esplosa nel 2007-2008, e tuttora irrisolta.
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Dominio della vita, falsificazione della cultura e impegno intellettuale
(Appunti sulla democrazia)
di Federico Sollazzo
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola “libertà” non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio
M. Horkheimer
Siamo sicuri di essere finalmente entrati nel regno della libertà (un noto imprenditore politico direbbe, delle libertà)? Di essere al di fuori, per dirla con Jean-Francois Lyotard (La condizione postmoderna), da una grande narrazione? O forse, siamo talmente dentro ad una nuova grande narrazione, ad una nuova, ebbene sì, ideologia, da non riuscire a percepirla? Proprio come, per dirla con David Foster Wallace (Questa è l’acqua), quel pesce che non sa cos’è l’acqua. Un’acqua che non viene ex nihilo, ma che rappresenta la modificazione dell’acqua di prima. Un’ideologia che non è venuta al mondo dall’oggi al domani, ma che rappresenta genealogicamente l’evoluzione, l’ottimizzazione della dominazione, della precedente forma ideologica ormai obsoleta. Se questo ha un senso, si dischiude una nuova prospettiva sull’osservazione della realtà e dei grandi fenomeni sociali recenti e correnti, dalla Seconda guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino, dalle correnti primavere arabe ai vari movimenti occidentali di protesta, dal fenomeno del’imperialismo culturale a quello del contro-impero, che sembra non essere altro che la lega dei dittatori locali. In breve, gli interessanti fenomeni che stiamo vivendo sembrano essere nient’altro che un traumatico passaggio di consegne – nonché un’interazione dagli esiti difficilmente prevedibili e variabili di conteso in contesto – fra vecchi, obsoleti e nuovi, aggiornati modelli di controllo sociale. Dunque, contrariamente a quello che viene abitualmente detto, una transizione nella continuità.
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Se l'Europa dell'austerità e i suoi alleati marciano alla testa del corteo parigino
Redazione
Oltre ad arrivare a commettere una strage aberrante, la serie di gesti sciagurati di Ahmedy Coulibaly e dei fratelli Kouachi e della loro rete logistica è riuscita a rianimare un morto anzi, a far esistere un qualcosa di mai nato: l'unità emotiva continentale attorno ai governanti dell’Europa dell'austerità.
Opera di rivitalizzazione che, tanto più, ha funzionato in terra francese. "Siamo un popolo", ha titolato Liberation, come se gli eventi parigini avessero posto fine ad un lungo interrogativo che metteva in forse l’esistenza stessa dei francesi. “Era da tanto che non ci sentivano così fratelli”, commenta poi il quotidiano fondato da Jean-Paul-Sartre che, a suo tempo, dubbi sulla sensazione di sentirsi un popolo di fratelli grazie alla reazione dopo un attentato ne aveva seminati (visitò Andreas Baader della RAF in carcere proprio, tra le tante, per non legittimare l’adesione emotiva alla convergenza tra senso della democrazia e stato di polizia).
E così, tra fratelli del radicalismo islamico e fratelli civilizzati francesi, il comunitarismo di Allah e quello repubblicano francese si trovano uno davanti all’altro. Durerà l’esistenza di questo confronto? I paesi occidentali sono spoliticizzati, reazioni come quelle di Parigi, più che preludere a un fiorire di “fratellanze” o organizzazioni di base, appartengono a quei fenomeni di elaborazione del lutto e del trauma collettivo come accade dopo i terremoti. Fenomeni pronti a dissolversi velocemente in caso di assenza di nuovi traumi. Le differenze dei governi europei, sulle politiche per affrontare fenomeno del radicalismo islamico, si sono poi già manifestate.
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Polarizzazione e disuguaglianza*
Rapporti di produzione e distribuzione del reddito
Francesco Schettino
L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.
Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale.
[K.Marx, Il Capitale, i, 23]
Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata.
Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttiva e sviluppo dei loro fattori dall’altro.
Subentra allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale.
[K.Marx, Il Capitale, iii, 51]
Se si potessero elencare i fenomeni maggiormente percepiti dall’intera popolazione lavoratrice come emblematici della crisi esplosa alla fine del 2007 – e i cui effetti sono ben lungi dall’essere assorbiti – di certo in testa a tale speciale graduatoria verrebbe posta la disoccupazione, a cui seguirebbe, come conseguenza più immediata, l’indigenza (assoluta o relativa).
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La guerra in casa
I fatti di Parigi e gli apprendisti stregoni
Rete dei Comunisti
La guerra arriva fino nel cuore dell’impero: quanto è successo a Parigi è esattamente questo, che ci piaccia o meno. Gli spot che da mesi invadono le tv, entrando nei nostri salotti e nelle nostre cucine, che ci raccontano che con la nascita del Mercato Comune Europeo prima e l’Unione Europea poi ormai da più di 60 anni non ci sono più guerre in Europa, oltre a essere falsi probabilmente non sono più neanche rassicuranti.
I 12 morti nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo di mercoledì, l’uccisione di ieri dei presunti attentatori e degli ostaggi, sono vittime di guerra. Non sappiamo quanto consapevoli ma questo sono, e non ascrivibili a superficiali o mistificatorie spiegazioni sulla follia o il terrorismo.
Sono chiari fatti di guerra, che ogni parte in campo conduce con i mezzi che ha a disposizione, con le strategie militari che decide di attuare o che le condizioni oggettive e i rapporti di forza gli permettono.
Le dinamiche, gli autori dell’attacco, il tipo di vittime, sono elementi che si prestano facilmente a interpretazioni nel migliore dei casi fuorvianti, se non false e tendenziose, rievocando i temi del fanatismo, della libertà di stampa o complessivamente intesa, della difesa della democrazia, dello scontro di civiltà, perdendo di vista, o facendolo volutamente perdere, il legame tra i fatti e le reali situazioni economiche, politiche, militari internazionali.
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Mi dispiace, però io non sono «Charlie»
di Karim Metref (*)
In questo momento l’uccisione delle undici persone e in modo particolare dei giornalisti/artisti nella sede del periodico satirico «Charlie Hebdo», sta prendendo le pieghe di un nuovo, mini 11 settembre. E fioccano ovunque messaggi di sgomento, di cordoglio, di solidarietà, di condanna… Anche io sono sgomento, lo sono per ogni persona che muore nel modo in cui sono morti questi ultimi. Sono solidale e feroce sostenitore della libertà di espressione. Sono triste perché alcuni dei vignettisti di «Charlie Hebdo» (Wolinski in modo particolare, che ho anche conosciuto ad Algeri un secolo fa) mi appassionavano e hanno accompagnato con loro feroce e dissacrante satira tutta la mia adolescenza e i miei desideri di allora (ma anche di oggi) di mandare tutto il mondo a farsi f…
Ma, mi dispiace, io non scriverò che «sono Charlie Hebdo». Non metterò una bandiera nera sul mio profilo Facebook e non posterò nessun disegno di Charb e nemmeno di Wolinski che mi piace tanto… E se avete tempo di leggere il mio lungo ragionamento vi spiego il perché.
«Charlie Hebdo» nasce nel 1992 ma la squadra che lo fonda viene da una lunga storia di giornali di satira libertaria. Quello che si può considerare come l’antenato di Charlie è «Hara-kiri» dove lavoravano già vari membri dell’attuale redazione. «Hara-kiri» se la prendeva con i potenti, con De Gaulle, con l’esercito, con la chiesa e fu varie volte chiuso e riaperto sotto varie forme e titoli.
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Strage di Parigi: complottismo?
di Aldo Giannuli
Ci sono due forme di imbecillità perfettamente speculari: il complottismo e l’anticomplottismo. Il complottista ideologico pensa che nulla accada per caso, si ritiene furbo perché convinto che quel che appare sia sempre e solo finzione e che dietro ci sia sempre una qualche macchinazione di poteri forti, magari ai massimi livelli mondiali in cui si immagina esista un vertice unico ed onnipotente. L’anticomplottista, parimenti ideologico, non sopporta spiegazioni che cerchino di andare al di là delle apparenze, i bollettini di Questura sono la sua Bibbia, si ritiene furbo perché deride sistematicamente qualsiasi dubbio e chi lo formula. Lui ha solo certezze.
Ciascuno dei due pensa che l’altro sia un cretino, ed hanno ragione tutti due. Sembrano opposti, ma in realtà, ragionano allo stesso modo. Sia l’uno che l’altro non cercano di capire criticamente un avvenimento, ma semplicemente lo assumono come conferma di quello che già pensano e chiunque accenni ad una interpretazione non contrapposta, ma semplicemente diversa, è esecrabile e da ridicolizzare, se necessario leggendo anche quel che non c’è scritto o il contrario di quel che c’è scritto.
Perché ciascuno di loro (complottista o anticomplottista) legge quello che gli pare e non quel che c’è scritto effettivamente. E tutti e due sono abbastanza cafoni.
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Parigi brucia
Redazione di Contropiano
Non si spara sui giornalisti. Nemmeno quando lavorano per la televisione serba di Belgrado, nel 1999. Oppure per quelle – laiche, in paesi islamici – irachene o libiche, rispettivamente sotto i regimi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. E incidentalmente non si spara neanche sulle ambasciate, come avvenne per quella cinese, sempre a Belgrado, ad opera dei cacciabombardieri Usa, francesi, inglesi, italiani. Ci sarebbe sembrato normale ascoltare, anche in quei casi, parole simili. Ma non sono state pronunciate, se non da isolati guardiani delle libertà sbrigativamente apostrofati come ”filo-qualcun-altro”.
Non si spara neanche sulle donne e i bambini, eppure avviene ogni giorno, con record ormai inegualiati da parte dei democraticissimi Stati Uniti in ogni angolo del mondo; o da parte della democratica e molto occidentale Israele; o con macabra regolarità da parte della Turchia, membro della Nato e alleato silente dell'Isis contro i curdi di sinistra, a Kobane come altrove.
Non si spara su chi fa informazione. Siamo una redazione che assolve a questo dovere civile consapevole del fatto che ogni parola digitata sulle nostre tastiere darà fastidio a qualcuno. In genere più potente. Pensiamo dunque anche che non si arrestano i giornalisti, come avviene sempre nella Turchia membro della Nato proiettata a esportare la “libertà”. Né si promette loro di ridurli sul lastrico per legge, come avviene in Italia, con legge approvata nelle ore precedenti la strage di Parigi.
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La meritocrazia è il contrario della democrazia
di Carlo Scognamiglio
Così il sociologo laburista Michael Young smontò una delle parole chiave di tutte le svolte autoritarie. “L’avvento della meritocrazia” è di nuovo in libreria. Popoff l’ha letto
Se dovessi segnalare l’operazione editoriale più lucida dell’ormai trascorso 2014, non potrei che attribuire il giusto merito alle Edizioni di Comunità, per la ripubblicazione, dopo molti anni, dello straordinario libro del sociologo laburista Michael Young (1915-2002): L’avvento della meritocrazia. Ascrivibile al filone letterario della “distopia”, cioè dell’utopia negativa, il libro fanta-sociologico pubblicato da Young nel 1958 introduceva nel dibattito culturale il termine “meritocrazia”, colorandolo a tinte fosche e inquietanti, a tutto dispetto della faciloneria con cui viene oggi adoperato.
Su un piano propagandistico, la politica dei palazzi non rinuncia mai a far propria la bandiera di un riscatto dei meritevoli da collocare nelle posizioni sociali commisurate alle capacità di ciascuno. E la propaganda funziona particolarmente bene, in uno Stato come il nostro dove familismi e nepotismi d’ogni genie hanno reso insopportabile qualsiasi competizione pubblica o privata per aggrapparsi a un chimerico ascensore sociale.
Su un piano personale, invece, non manca mai sulla bocca di ciascun “deluso” – sia esso escluso da un concorso accademico, da una promozione ospedaliera, o bellamente ignorato da un potenziale datore di lavoro – la lagnanza sull’assenza di meritocrazia in questo nostro benedetto Paese. Ebbene sì: perché tutti coloro che lamentano quella deficienza, presumono naturalmente di appartenere all’area dei meritevoli.
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Hegel? Sì, ma non troppo
Francesco Alarico della Scala
In tempi come i nostri, pensatori della caratura di Costanzo Preve si contano sulla punta delle dita, soprattutto nell’ambiente filosofico, dominato, nel suo settore accademico, dal relativismo assoluto che pone sullo stesso piano tutte le “opinioni” (fuorché le voci di protesta contro la naturalizzazione ed eternizzazione dello status quo, beninteso) e si preclude pertanto la via ad ogni ricerca della verità, dalla falsa oggettività ideologica del politicamente corretto mirata a far apparire come “oggettivi”, neutrali, super partes fenomeni sociali e politici storicamente relativi e superabili, in primis lo stesso modo di produzione capitalistico.
Preve condusse sempre una lotta tenace contro queste e consimili tendenze della filosofia accademica, svuotata del suo significato genuino e declassata al rango di ancella dello stato di cose presente. Tale orientamento lo fece pervenire a riflessioni estremamente preziose e ad efficaci critiche del pensiero debole, del relativismo assoluto, delle innumerevoli richieste di riconoscimento relative del proletariato (vale a dire della base teorica del socialriformismo), della desocializzazione del pensiero filosofico e della sua storia e delle altre ideologie oggi imperanti. In questo campo il contributo di Preve va certamente sottoscritto e apprezzato: l’acutezza delle sue critiche dell’ideologia contemporanea ha aperto gli occhi a molti, facilitandone l’uscita dal tunnel della degenerazione irreversibile della “sinistra” radicale.
Diversamente stanno le cose per quanto riguarda l’interpretazione del pensiero di Marx avanzata da Preve, la sua concezione del marxismo, la quale – come egli stesso più volte ammise – sarebbe tutt’oggi rifiutata dalla gran parte dei marxisti.
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Per un 2015 antimperialista e col coltello fra i denti
Militant
Riportiamo di seguito la nostra introduzione all’ultimo lavoro di Emilio Quadrelli e Giulia Bausano, un libro che descrive la necessità del ritorno ad una nuova politica antimperialista adatta ai tempi che corrono. Un libro che centra il problema, non tenta di sfuggirvi con sterili scorciatoie ideologiche e affonda i ragionamenti nella piaga della ritirata storica delle sinistre di classe nell’Europa occidentale. Per noi è stato un onore contribuirvi. Buona lettura e buon anno nuovo, che sia un anno di lotte, d’odio e d’amore
Pensare una nuova politica antimperialista
Il lavoro di Emilio Quadrelli ci costringe a riflettere sul nuovo scenario imperialista declinato nelle sue molteplici forme. L’attualità ci restituisce due evidenze che caratterizzano la politica globale: da una parte la dinamica imperialista è tornata a qualificare i rapporti politici internazionali; dall’altra l’assenza di una riflessione generale, e della conseguente produzione di politiche, che contrastino questo movimento. Allo sviluppo di nuove (apparentemente) forme di imperialismo non ha fatto seguito lo sviluppo di una rinnovata coscienza antimperialista. Oggi il campo da gioco globale è caratterizzato quindi da una fase imperialista nuova, composta da più attori, tutta da interpretare, che però non vede una riflessione politica altrettanto generale. La risposta alle politiche imperialiste è affidata alle singole popolazioni, o ai singoli gruppi che subiscono in prima persona la violenza delle politiche economiche di aggressione, ma sconnessi da una visione generale che possa incidere sulle politiche imperialiste. Qualche volta, nel corso di questi anni, sono state possibili anche singole e momentanee vittorie di resistenza, ma mai un riequilibrio dei rapporti di forza. La nave imperialista, magari senza una visione strategica o di lungo periodo, viaggia oggi a vele spiegate senza nessuna forza capace di declinare l’internazionalismo in capacità politica tale da rallentarne o impedirne il passo. Capire perché è avvenuto questo significa allora gettare le basi per la ricostruzione di una visione politica che, oggi più che mai, non può che fare i conti con lo scenario internazionale. Nella fase attuale non esiste più politica nazionale, questa è un’altra delle evidenze del presente scenario. Ogni evento politico, economico o sociale è direttamente internazionale, coinvolge immediatamente più attori e le sue ricadute incidono subito, senza mediazioni, sulle popolazioni degli altri paesi. È esattamente da questo presupposto che dobbiamo partire per capire cosa sta succedendo nel mondo e nei suoi rapporti politici.
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Ridateci l'Iri
di Bruno Casati
L’italia produttiva affonda. Per tenerla a galla non bastano più moda e turismo, ma nemmeno i “distrettini” del made in Italy che, senza una grande industria alle spalle, sono in sofferenza. Siamo alla desertificazione industriale: dal declino si è scivolati nel dissesto.
E nessuno si sogna di investire in Italia. I capitalisti italiani, da tempo, si sono eclissati. Quelli esteri, indifferenti rispetto al Jobs act, si guardano bene dal metterci i quattrini a rischio nel paese che, secondo l’autorevole classifica di Transparency international, è ormai il più corrotto d’Europa (e quella classifica non considerava gli scandali Expo, Mose e Mafia Capitale). Ora però è squadernato un ultimo caso di crisi industriale, quello dell’Ilva di Taranto o, se si vuole, dell’acciaio italiano, che, per la sua rilevanza materiale e simbolica, costringe anche gli indifferenti che ci governano a metterci la faccia.
Perché l’Ilva è diventata un mistero doloroso, visto che, pur passata di mano da un manager ottantenne come Bondi a uno più giovane come Gnudi, continua comunque ad affondare inesorabilmente e in un silenzio tombale. ora questo silenzio viene rotto, all’unisono, dal segretario generale della Fiom e dal Presidente del Consiglio. Pare dicano le stesse cose, ma non è così.
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