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Metafisiche del nulla: Schopenhauer, i suoi discepoli e l’inconsistenza del mondo
di Fabio Ciracì*
1. Da Kant verso il nichilismo idealistico
Esiste ormai una nutrita letteratura critica circa la natura teoretica che Schopenhauer attribuirebbe al nulla e non mancano certo saggi e contributi che tendano a considerare il filosofo del Mondo come una sorta di precursore dell’esistenzialismo heideggeriano o sartriano, collocandolo nella più labile cornice della cosiddetta filosofia dell’esistenza[1]. A parte però le interpretazioni attualizzanti a rebours, più o meno giustificabili da un punto di vista ermeneutico, la metafisica schopenhaueriana esige di essere indagata a partire dalle proprie fonti, nel tentativo di essere restituita al suo contesto storico per comprenderne al meglio la sua peculiarità.
L’analisi storico-critica del concetto di nulla all’interno dell’opera schopenhaueriana è resa però difficoltosa dalla polisemia del concetto di nulla in Schopenhauer, che cede spesso ad ambiguità talvolta intenzionali, dotando i termini nulla (Nichts)[2] e non essere (Nichtsein) di un significato estensivo che consente scivolamenti semantici da un piano teorico ad un altro.
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Gli ottanta anni della Teoria generale di Keynes
Perché è ancora un libro attuale
di Maria Cristina Marcuzzo*
Da Moneta e Credito, vol. 70 n. 277 (marzo 2017), 7-19
Dopo la crisi del 2007-2008 il nome di Keynes è rientrato nella lista degli economisti di cui si raccomanda la lettura e di cui si ritorna a dire che sarebbe opportuno seguire le idee. Dopo un bando durato circa venticinque anni, trascorsi tra elogi del mercato e test econometrici diretti a dimostrare l’inefficacia o peggio l’irrilevanza delle politiche economiche, Keynes è riapparso sulla scena mediatica, se non proprio in quella accademica dominante, che continua per lo più ad essere la macroeconomia della restaurazione anti-keynesiana iniziata tra gli anni settanta e ottanta.
Per rivendicare l’attualità della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta voglio partire dall’assottigliamento dello spazio assegnato all’intervento pubblico, nell’opinione economica attuale, quello ‘spazio per la politica’ che Keynes ha aperto con la dimostrazione che il mercato non è sorretto da leggi naturali o immutabili. Lo spirito che ha guidato la rivoluzione keynesiana è che la piena occupazione è un obiettivo possibile da perseguire non lasciandolo libero, ma intervenendo nel gioco delle forze di mercato.
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La fase storica in cui siamo e la nostra strategia politica
di Manolo Monereo
Pubblichiamo un potente articolo del compagno Manolo Monereo, comparso in Spagna col titolo "I dilemmi strategici di Podemos: la speranza come problema politico"
La grande sfida di Podemos è stata la sua
pretesa di essere una forza politica con una
volontà di governo e di potere, ma per
consegnarlo al popolo. Per questo Podemos
è l'obiettivo da battere. Ecco perché i poteri
reali —la trama— lo combattono col fuoco
(e l’inchiostro). [In ricordo di Pietro Barcellona]
1- Elementi della situazione spagnola : la crisi del regime rimane aperta
Podemos ha vissuto la sua prima crisi. Si potrebbe dire che siamo di fronte ad una crisi nella crisi. Mi spiego. Quasi nessuno dubita che viviamo un certo tipo di transizione, un cambiamento di regime dello stesso regime verso un altro che si va definendo gradualmente e la cui risultante finale sembra chiara. Si va consolidando una democrazia limitata e non sovrana in cui domina in modo chiaro ed esplicito un'oligarchia finanziaria-aziendale-mediatica, con l'obiettivo di costruire un modello di società basata sulla disuguaglianza, la scomparsa dei diritti sociali, la precarizzazione del modo di vita delle maggioranze sociali la disintegrazione finale del movimento operaio come soggetto politico e sociale.
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La bolla mortale della nuova democrazia
di Damiano Palano*
La bolla culturale in cui siamo imprigionati elimina dalla nostra visuale punti di vista alternativi e alimenta la nascita di teorie del complotto e partiti esoterici. Come uscirne? Un saggio
L’ultimo discorso da Presidente di Barack Obama, pronunciato a Chicago il 10 gennaio 2017, è passato quasi inosservato, sommerso dall’attesa per l’imminente avvento alla Casa Bianca di Donald Trump. Vale la pena di riproporre un passaggio:
“Per troppi di noi è diventato più sicuro ritirarsi nelle proprie bolle […], circondati da persone che ci assomigliano e che condividono la nostra medesima visione politica e non sfidano mai le nostre posizioni. […] E diventiamo progressivamente tanto sicuri nelle nostre bolle, che finiamo con l’accettare solo quelle informazioni, vere o false che siano, che si adattano alle nostre opinioni, invece di basare le nostre opinioni sulle prove che ci sono là fuori”.
Probabilmente nei prossimi anni dovremo tornare a rileggere quelle parole. Non tanto per il talento oratorio di Obama, quanto per l’allarme sui rischi di quelle “bolle” che ci rassicurano ma che ci danno una visione distorta del mondo. Non solo perché proprio in quelle “bolle” le fake news trovano un privilegiato bacino di coltura, ma soprattutto perché la vittoria elettorale di Donald Trump, al di là degli esiti che avrà il suo mandato presidenziale, sancisce per molti versi la fine della democrazia del pubblico e l’atto di nascita di una inedita bubble-democracy.
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La politica economica al tempo della crisi
Da Keynes alla controrivoluzione monetarista e (non) ritorno
di Amedeo Di Maio e Ugo Marani
Il lavoro che segue costituisce uno stralcio dell’Introduzione al volume Politiche economiche e crisi internazionale. Uno sguardo sull’Europa, curato da Amedeo Di Maio e Ugo Marani con contributi di Paul De Grauwe, Amedeo Di Maio, Pasquale Foresti, Guglielmo Forges Davanzati, Nicolò Giangrande, Ernesto Longobardi, Antonio Lopes, Ugo Marani e Antonio Pedone, per i tipi di L’Asino d’Oro edizioni, di prossima pubblicazione
«Torneranno» disse.
«La vergogna ha la memoria debole».
(Gabriel Garcia Márquez, La mala ora)
Il volume che introduciamo ha come oggetto la politica economica al tempo della crisi; un oggetto inteso in un duplice senso. Da un lato esso ambisce a un esercizio di statica comparata: quanto è cambiato, e in che cosa l’indirizzo di policy, rispetto alla fase che ha preceduto lo scatenarsi della tempesta, prima finanziaria e poi reale. Dall’altro si pone l’interrogativo se le nuove impostazioni si stiano palesando efficaci nel gestire le nuove problematiche che esse affrontano. Con riferimento al primo quesito, il mutamento nell’indirizzo di policy, nelle sue linee generali ed estremamente qui sintetizzate, può essere compreso solo se si risale ai cambiamenti, striscianti e graduali, dei riferimenti teorici, iniziati negli anni settanta del secolo scorso. Infatti, è proprio in quegli anni che la politica economica si allontana progressivamente dalla impostazione cosiddetta keynesiana, ma comunque fortemente viziata dai forti retaggi della teoria liberista tradizionale.
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Il contributo decisivo dei mass media alla violenza
di Marco Nicastro
È ormai stancante per me tornare su questo argomento, già affrontato in un altro articolo uscito tempo fa su questa rivista. Capita spesso che gli appelli delle persone più informate e con intenzioni serie, lontane dal desiderio di visibilità mediatica, rimangano inascoltati. Il problema su cui ancora una volta vorrei soffermarmi è quello della violenza e della comunicazione di questa all'opinione pubblica da parte dei media. Sentiamo abbastanza spesso ormai notizie di omicidi, suicidi, stragi familiari, fino alle più fisicamente lontane, ma non meno coinvolgenti da un punto di vista emotivo, stragi terroristiche o di guerra. La sensazione mia, ma credo sia condivisibile anche da altri (almeno da quello che mi capita spesso di sentire parlando con le persone), è di oppressione dinnanzi a queste notizie, e anche della sensazione che i fatti su cui vertono sia numericamente sempre più rilevanti. Dubito che si tratti di una semplice impressione soggettiva; poco importa dal mio punto di vista, perché se fosse anche solo un'impressione soggettiva di un'accresciuta violenza nella nostra società, un'impressione comunque diffusa e forte, questa non potrebbe poi non avere conseguenze effettive sulla vita del singolo e di molti. Infatti, tanto più una persona o un gruppo di persone si sente attivato e coinvolto emotivamente in qualcosa, anche se poi magari non è effettivamente così, tanto più sarà incline a prendere certe decisioni o a mettere in atto certi comportamenti in risposta.
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Il problema della sintesi del complesso umano
di Pierluigi Fagan
Questo articolo ha in oggetto la conoscenza del fenomeno umano nel suo complesso. E’ un articolo di riflessione sul metodo, sull’unità e diversità delle discipline, degli oggetti, delle menti che tentano di catturarli
Io sono solo e lo specchio infranto
(S. Esenin, L’uomo nero, 1925)
In una articolo del 1960[1], F. Braudel torna su un tema a lui -ed a noi- particolarmente caro, il problema dell’unità e diversità delle scienze sociali. Schematicamente, la conoscenza umana, si modula su tre ambiti generali. Le scienze naturali si occupano del mondo fisico-chimico e biologico, la filosofia, l’arte e la religione si occupano dell’uomo in quanto tale, le “scienze” umane si dovrebbero occupare di quel territorio in comune in cui l’uomo (psicologia) incontra ed entra in relazione con gli altri uomini (demografia, etno-antropologia, sociologia, linguistica), per fare cose (economia, politica, storia evenemenziale cioè basata su gli “eventi”, date, luoghi, uomini illustri; storia delle idee e delle culture) all’interno di un contesto (geografia) e di un tempo (storia di media-lunga durata). Il cruccio di Braudel è leggere con evidenza che l’oggetto generale di questo gruppo di discipline intermedie è comune ed unico -l’interrelazione, l’organizzazione e l’azione umana, singola e collettiva, nel contesto dello spazio-tempo- ma gli sguardi (ed i metodi di osservazione, analisi e categorizzazione) delle varie discipline sono assai diversi. La specializzazione della varie discipline, istituzionalizzata in dipartimenti non solo incomunicanti ma addirittura in competizione tra loro, sviluppando metodi, patrimoni di conoscenza, linguaggi del tutto eterogenei, crea una babele di prospettive che non arriva mai a sintesi.
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Ancora contro l’economicismo
di Ugo Boghetta - Mimmo Porcaro
Contributo al forum “I comunisti, il blocco sociale, i populismi”
Cari compagni,
anche se non ci è possibile partecipare al convegno su “Comunisti, blocco sociale e populismi” da voi organizzato, riteniamo comunque doveroso mandarvi un nostro contributo perché la vostra lettera di invito non chiama ad un generico dibattito ma individua nodi assai importanti, sui alcuni dei quali qui vorremmo esprimervi il nostro punto di vista.
Per cominciare vogliamo sottolineare un fatto che tutti noi diamo talmente per scontato da non riuscire a coglierne appieno il significato: l’arretramento generale dei comunisti in Occidente deriva soprattutto dalla sconfitta del comunismo storico novecentesco, ed è soprattutto a causa di ciò che i comunisti arrivano disarmati, come voi notate, all’appuntamento con l’attuale crisi del capitalismo. Ci sembra opportuno richiamare questo evento “genetico” perché, ad esempio, il “politicismo” che giustamente criticate (ossia la propensione per il lavoro istituzionale, l’allontanamento dal confronto quotidiano con le masse, ecc. ) può essere veramente superato soltanto se si comprende che esso deriva anche dal fatto che la politica (compresa la nostra politica) da molti anni si svolge “in assenza di orizzonte”, ossia senza il riferimento concreto ad un’alternativa radicale allo stato di cose presente.
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Partito, movimento politico organizzato, programma minimo
Sul progetto politico dei comunisti
di Enzo Gamba
In Italia si sta ripresentando, per l’ennesima volta, nel dibattito politico dei comunisti (siano essi organizzati o no) in riferimento al progetto politico da perseguire in questa fase di sconfitta storica (in altre parole: quale obiettivo porre per i comunisti, il “cosa fare” adesso), l’alternativa secca tra partito/unità dei comunisti da una parte e movimento/unità delle “sinistre” dall’altra. Da anni la riproposizione di questo dibattito avviene con una puntualità ricorrente, segnata in primo luogo dalle scadenze elettorali, poi dalle loro successive sconfitte e in ultimo dalle fasi congressuali dove i nodi solitamente vengono al pettine.
Per chi ha anche una minima memoria storica si ricorderà che un dibattito simile ci fu, tra le altre volte, anche verso la fine degli anni ‘80, dopo la batosta elettorale del 1988, e dopo il secondo governo Prodi e l’allora congresso del Prc. Le ipotesi che venivano messe in campo allora per uscire dalla crisi nera in cui ci eravamo cacciati (al punto che in parlamento non vi era più nemmeno una forza organizzata che si richiamasse al comunismo), erano l’ipotesi della “Costituente dei comunisti” in contrapposizione alla “costituente della sinistra”.
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Mariana Mazzucato e Michael Jacobs, “Rompere con l’ortodossia capitalistica”
di Alessandro Visalli
In attesa di leggere e commentare il libro degli autori “Ripensare il capitalismo”, da poco uscito per Laterza in italiano, può essere interessante leggere un articolo uscito su Dissent .
L’autore di “Lo stato innovatore” ed il suo coautore spendono come d’uso la prima parte per illustrare i fallimenti del capitalismo contemporaneo e la sua elevata disfunzionalità. Nella seconda correttamente gli autori dichiarano che le carenze del capitalismo non sono affatto temporanee, ma strutturali.
Sulla base della loro impostazione chiaramente riformista (gli autori sono parte degli organi consultivi del Labour di Corbyn) le linee di ripensamento del capitalismo, per salvarlo in qualche modo, sono tre:
- Il mercato, e i suoi attori, non possono essere pensati come delle entità astratte. Una sorta di ambiente, uno spazio neutro che preesiste agli attori (imprese, investitori e famiglie) che vi “entrano” per condurre scambi e prodursi in comportamenti conformi. Si tratta di un punto molto profondo, tutte le politiche blairiane sono state vendute come “conformi al mercato”, nel tacito presupposto che questo fosse l’ambiente esterno alla cui normatività occorresse solo adeguarsi.
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Una foto in via De Amicis
L'immagine "icona" degli anni Settanta quarant'anni dopo il 14 maggio 1977
di Damiano Palano
Questa recensione del volume Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, a cura cura di Sergio Bianchi (Derive Approdi, pp. 166, euro 20.00), venne pubblicata su "Maelstrom" circa sei anni fa e viene riproposta oggi, a quarant'anni dal giorno in cui la foto fu scattata, il 14 maggio 1977
Nel corso dei decenni, l’espressione «anni di piombo» - entrata nel nostro lessico dopo il film omonimo di Margarethe von Trotta – è andata progressivamente a identificare quel lungo periodo della storia italiana che inizia con il 1968 e giunge fino all’inizio degli anni Ottanta. Nel dibattito pubblico, e nella memoria collettiva, la durata degli «anni di piombo» si è così progressivamente dilatata. Ha cessato di identificare soltanto la stagione del terrorismo e della lotta armata – quel periodo in cui il conflitto sociale e politico si trasforma in una dolorosa, nichilista, «guerra civile a bassa intensità» - ed è diventato qualcosa di più, la formula con cui rappresentare un decennio di follia, in cui l’Italia si muta in una fucina di violenza incontrollabile, di odio viscerale, di follia ideologica. Una simile dilatazione distorce, almeno in parte, la realtà. Quantomeno perché, proprio negli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, l’Italia vive forse uno dei periodi più vivaci della sua storia, una stagione di straordinaria creatività pressoché in tutti campi della sua vita culturale.
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Il Venezuela dall’interno
Sette chiavi di lettura per comprendere la crisi attuale
di Emiliano Terán Mantovani
[Presentazione di Perez Gallo e Simone Scaffidi: La situazione attuale che vive il Venezuela, come noto, è gravissima. Ma i termini della sua gravità non sono forse altrettanto noti, almeno rispetto a quello che propone la narrazione mainstream e alla confusione che regna a sinistra sui posizionamenti da prendere in proposito. Crediamo – e per questo lo abbiamo tradotto – che in questo testo del sociologo venezuelano Emiliano Terán Mantovani si possano trovare degli spunti per un’analisi più articolata, che sappia dare il giusto peso alle questioni realmente in campo, che sappia mettere in luce le differenze esistenti tra la sinistra di governo e la destra di opposizione nel Paese, ma che abbia ben chiaro che compito della sinistra e dell’internazionalismo non è difendere o no a prescindere un governo, ma stare sempre, inequivocabilmente, a fianco de los de abajo.
Non crediamo che questo articolo dia delle soluzioni politiche (come potrebbe?) alla crisi venezuelana e delle parole definitive sullo scontro in atto, ma sicuramente propone delle ottime chiavi interpretative. Uscito su alainet.org e ripreso dal giornale messicano Desinformemonos alla fine di aprile, non può dare conto di tutti gli eventi recenti in continua e rapida evoluzione.
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G7 a Taormina: ciò di cui non si parlerà
di Andrea Fumagalli
Il week-end del 26-28 maggio 2017 si terrà a Taormina il vertice G7, in Italia a 16 anni da Genova 2001 e a otto anni da quello di Aquila nel 2009. È il turno dell’Italia, come vuole la rotazione. Nel frattempo dal 2014, il G8, con l’esclusione della Russia di Putin, è diventato G7. Di che cosa si discuterà a Taormina? Diversi potrebbero essere i temi all’ordine del giorno, a partire dal tema ecologico. Il nuovo presidente americano Trump ha dichiarato che in quell’occasione prenderà posizione sui risultati del vertice di Parigi del 2016. Sicuramente, all’indomani dell’attentato di Manchester, si parlerà anche di terrorismo e di lotta all’Isis, con l’intento di far dipendere da questa emergenza, qualsiasi proposta (in senso restrittivo) di governance dei flussi migratori. Sulle questioni socio-economiche, a parte il comunicato standard finale di parole vuote, non ci sarà praticamente di nulla. Il che non può sorprendere.
Non c’è infatti bisogno di affrontare tematiche economiche, se non alcuni aspetti di natura geo-politica (principalmente legati al rapporto con la Cina). Tematiche, che, in ogni caso, non potranno trapelare nelle dichiarazioni ufficiali, anche se è facile immaginare che terranno banco nel backstage.
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Lo Stato guardiano notturno
di Renato Caputo
L’ideologia liberista dominante nel nostro paese, con la complicità dei populisti, sta riducendo nuovamente lo Stato alla funzione di guardiano notturno di un modo di produzione in crescente crisi
Presentando alla facoltà di economia il “rapporto sullo Stato sociale 2017”, il prof. R. F. Pizzuti ha usato toni forti, descrivendo – come aveva già fatto L. Summers, ex segretario del Tesoro negli Usa – nei termini di stagnazione secolare l’attuale crisi strutturale del modo di produzione capitalistico. L’accumulazione capitalistica non accenna a ripartire – nonostante le alchimie monetariste delle Banche centrali che continuano a drogare il mercato inondandolo di liquidità – a causa del drastico calo degli investimenti e del conseguente “eccesso di risparmio” causati dalla perdurante crisi di sovrapproduzione. Nonostante i tentativi del capitale di rilanciare il processo di accumulazione scaricando gli effetti sociali negativi della crisi sulle classi subalterne, a partire dal radicale aumento della precarietà, la produttività resta bassa. Anche perché la lotta di classe condotta in modo preponderante dall’alto – grazie alla crescita con la crisi della pressione sugli occupati dell’esercito industriale di riserva – gli imprenditori non sono spinti a innovare il processo produttivo, sviluppando ulteriormente il capitale costante, ma puntano a rilanciare l’accumulazione comprimendo i salari, aumentando i ritmi e gli orari di lavoro e rilanciando le esportazioni.
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Essere e agire da comunisti oggi. Apriamo il confronto
di Mauro Casadio*
La crisi di sistema che va avanti da quasi un decennio sta producendo un “passaggio d’epoca” che si manifesta a livello mondiale e che produce i suoi effetti anche nel nostro “specifico” nazionale e continentale. Questa evoluzione abbiamo cercato di analizzarla nel convegno promosso a Dicembre del 2016 riprendendo le parole di Gramsci quando nelle carceri fasciste affermava che “il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”.
Questi effetti si avvertono nei processi di riorganizzazione produttiva, di scomposizione sociale generalizzati e di disorientamento politico dei settori di classe generando dei riflessi sul piano politico-istituzionale scompaginando le vecchie formazioni politiche e producendo i cosiddetti populismi che si esprimono nei differenti paesi in modi diversificati. Questi fenomeni inaspettati sono il prodotto di una rabbia sociale che cresce e che per ora si manifesta sul piano strettamente elettorale e istituzionale, piano che da una parte mette in crisi gli assetti politici ma che può essere utilizzato dalle classi dominanti per il mantenimento della propria egemonia; vedi la gestione che è stata fatta in Francia della vicenda Le Pen e l’uso televisivo in Italia di Salvini per dimostrare che non esistono alternative al quadro politico europeista.
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"L'Antisovrano" ha paura della sovranità popolare perchè non vuole la democrazia
di Quarantotto
1. Il titolo di questo post è agevolmente comprensibile, direi autoesplicativo, per chi segua questo blog.
Ma non si può ignorare il fatto che, specialmente a seguito della vittoria di Macron (quale che ne sia l'effettiva tenuta, alla luce degli eventi che egli stesso non potrà evitare di determinare), in quanto principalmente interpretata come una sconfitta di Marie Le Pen, nel dibattitto politico-mediatico, si registri la tendenza a considerare il "sovranismo" come un concetto programmatico in arretramento. E, dunque, proprio presumendosi la sua subentrata scarsa presa elettorale, in via di ridimensionamento nel linguaggio à la page, cioè elettoralmente remunerativo.
Inutile dire che questo ridimensionamento viene con immediatezza, e quindi molto frettolosamente e in base ad analisi delle effettive propensioni al voto piuttosto rozze ed emotive, legato alla questione dell'opposizione alla moneta unica.
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"Gramsci conteso": vent'anni dopo
di Guido Liguori
Il testo della relazione di Guido Liguori al Convegno Gramsciano il 18 e il 19 maggio 2017, Roma, su "Egemonia e Modernità"
Il contributo che dovrei cercare di dare in questa sede, nell’ambito di una sezione dedicata alla ricerca e al dibattito italiani sui temi del convegno, si intitola “Gramsci conteso”: vent’anni dopo.
Non è un titolo che ovviamente possa essere svolto in modo esauriente. Tanto più nello spazio di una esposizione orale necessariamente sintetica.
Anche intendendo il titolo come relativo solo al concetto di egemonia, come credo vada fatto, nell’ambito di questo convegno che all’egemonia è dedicato, dico subito che ho inteso il compito che mi è stato affidato non come un invito a ripercorrere pedissequamente il dibattito italiano degli ultimi venti anni (per autori e correnti di pensiero di altri paesi, del resto, sono previste in questo nostro incontro sessioni e relazioni apposite), ma solo come tentativo di indicare alcune delle principali idee-guida che hanno nutrito la ricerca e le interpretazioni gramsciane sul tema, in Italia, negli ultimi due decenni.
Per comprendere i caratteri di fondo della ricerca gramsciana in Italia nell’ultimo ventennio occorre in primo luogo partire dal dato della grande diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo, iniziata già nel decennio precedente, ma di cui si è avuta piena coscienza in questo paese soprattutto negli anni Novanta.
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Storia e potere
di Ottone Ovidi
Esiste un legame di mutuo interesse tra la storia e il potere, perché il secondo ha bisogno di appoggiarsi sulla prima per legittimare il proprio ruolo, la prima del concorso decisivo del secondo per imporsi.
La storia è legata ad un sistema di potere o a dei sistemi di potere che la producono e la impongono e pertanto è uno strumento di cui il potere stesso ha bisogno. Ma quello che deve far riflettere non è tanto l’uso strumentale che il potere fa della storia quanto l’interiorizzazione che le classi subalterne, gli oppressi in genere, subiscono facendo propria la lettura vincente.
In questi giorni se ne ha una verifica puntuale in occasione dell’anniversario del ’77 che ha portato molti a tentare ricostruzioni, a organizzare dibattiti, a misurarsi con i movimenti e le lotte politiche che lo hanno caratterizzato, fino a comprendere un giudizio globale degli anni settanta. Si ripete come un mantra la frase “anni di piombo”, omettendo, dimenticando e rovesciando il fatto che questa frase venne coniata proprio dal movimento, con riferimento alla cappa repressiva messa in atto nel nostro paese, a partire dalla promulgazione della Legge Reale.
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Estrarre, mercificare e sorvegliare
di Dario Guarascio
Dario Guarascio sarà ospite, assieme a Marco V. Passarella, del convegno “LAVORO E AUTOMAZIONE“, che si svolgerà il prossimo 3 giugno a Perugia. Per sapere di più del convegno di Perugia clicca QUI
La trasformazione in atto è visibile anche guardando ai dati economici. In pochissimi anni, una manciata di multinazionali del capitalismo digitale – Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple, per citare le più rilevanti – è divenuto il blocco di potere globale più significativo dal punto di vista del valore economico e della capacità d’influenza politica.
Nella Londra di 1984 (Penguin, 2008 p. 326), il solo luogo dove Winston Smith può nascondersi per sfuggire allo sguardo inquisitorio di Big Brother è una piccola intercapedine della sua casa. Asserragliarsi in quel rifugio è l’unica strategia per pensare in modo autonomo fuggendo dall’eterno presente in cui sono costretti gli abitanti di Oceania. La sorveglianza ininterrotta e la sistematica distruzione di tutto ciò che è esperienza e storia annichilisce l’arbitrio, erigendo il riflesso condizionato a norma comportamentale. Nel 1984, lo stato d’emergenza permanente giustifica ogni forma di repressione e rende accettabili le più odiose condizioni sociali. Una comunicazione di massa cacofonica e martellante inverte e mortifica il reale, ad uso e consumo dei governanti. Guerra è pace. Ignoranza è forza. Libertà è schiavitù. Più si dimostra contraddittoria e priva di coerenza e più la cultura dominante stringe il giogo al collo delle masse, conformando i pensieri nei loro meandri più profondi.
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Scalfari, Calabresi e la Storia scritta sui fazzoletti di carta
di Dante Barontini
Ci si può rammaricare di tante scelte fatte, ma chi “si pente” appare agli occhi del mondo doppiamente stupido. Una prima volta per aver fatto, senza averci riflettuto su bene, le scelte che oggi critica; una seconda volta per il tentativo di “rifarsi l’immagine” a distanza di tempo, con comodo, puntando a concentrare su di sé la benevolenza di un pubblico (ritenuto) boccalone.
L’anniversario dell’uccisione di Luigi Calabresi, spietato commissario della “squadra politica” della questura di Milano alla fine degli anni ’60, è stato occasione per Eugenio Scalfari di un pentimento decisamente tardivo, ma – come tutti i “pentimenti” – per nulla innocente.
Sorvoliamo sul curioso “conflitto di sentimenti” di cui da una vita lo stesso Scalfari è protagonista, capace di assumere e promuovere a caporedattore di Repubblica quello che poi è tornato per dirigerla, Mario Calabresi. E al tempo stesso capace di costringere il figlio del defunto commissario a convivere pacificamente per anni con l’uomo condannato in via definitiva – dopo otto gradi di giudizio – come “mandante” dell’omicidio del padre, ovvero Adriano Sofri, ex capo assoluto di Lotta Continua e per almeno due decenni collaboratore, inviato, editorialista di quel giornale.
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Tutto l’onore di un «economista defunto»
Parte II
di Giorgio Gattei
Nella prima puntata di questo “omaggio” ai 150 anni di pubblicazione del primo volume di Il Capitale. Critica della economia politica (e il sottotitolo è tutto un programma!), si è visto come Karl Marx nella sua grande opera abbia voluto estendere il metodo della critica (invenzione intellettuale che si era giocata tra Kant e Hegel) alla political economy di Adam Smith e David Ricardo, Ed egli ne ha riconosciuto l’oggetto nel capitale, ossia in quella maniera del produrre, storicamente determinata, definita dallo “scambio speciale” del denaro con la forza-lavoro come merce: «quel che dà il carattere all’epoca capitalistica è il fatto che la forza-lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma di una merce che gli appartiene, mentre il suo lavoro assume la forma del lavoro salariato» (Il capitale, I, Roma, 1964, p. 203). Resta allora da dire quale sia il soggetto della critica e quale la contraddizione che finisce per opporre questo soggetto al suo oggetto.
Il soggetto della critica.
Non condivido affatto l’idea comune, a cui sembra indulgere anche Diego Fusaro in Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (Bompiani, Milano, 2009), che nel Marx “maturo” si conservi ancora quell’elemento normativo che, oltre a quello conoscitivo, era stato proprio del “giovane” Marx.
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Lo spostamento a destra della politica italiana
Cosa sta succedendo e come reagire
di Ex-OPG occupato "Je so' Pazzo"
Ripubblichiamo questa ottima analisi da "Ex Opg Occupato - Je so' Pazzo" che analizza la fase di una politica italiana sempre più ad destra e che vorrebbe trascinare verso questa deriva autoriaria e razzista tutto il paese. Se loro stanno spingendo su queste tendenze, noi dobbiamo organizzarci per costruire una forza in grado di far pesare i nostri reali bisogni che sono casa, lavoro e servizi pubblici per tutti.
* * * *
È da un po’ di tempo che – presi dall’attività pratica e dalle lotte quotidiane – non scriviamo sulla fase politica del nostro paese. Eppure di cose importanti ne stanno accadendo, e meritano di essere analizzate con attenzione. In queste pagine vogliamo provare a restituire un quadro della situazione, e proporre alcune pratiche per reagire alla barbarie che nel nostro paese sta velocemente avanzando. Nella speranza di aprire un po’ di dibattito e trovare magari qualcuno che condivide le nostre stesse preoccupazioni.
Divideremo il discorso in tre momenti:
1. ricostruiremo velocemente cosa è accaduto dal 4 dicembre, giorno del NO al referendum costituzionale, fino a oggi, in cui la situazione politica italiana si è delineata con maggiore precisione;
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Riletture, la crisi politica: Crouch, Rosanvallon, Urbinati
di Alessandro Visalli
Riprendere in mano qualche vecchio testo può essere utile, a questo fine rileggeremo alcuni libri usciti tra il 2000 ed il 2014 sulla crisi politica che le democrazie occidentali stanno affrontando sotto la spinta di fattori economici, sociali e tecnologici. Sono coinvolti in questa crisi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni.
Probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.
Si tratta di un tema difficile e cruciale, sul quale bisognerà ritornare.
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Xi Jinping e l'ochetta Martina
di Pierluigi Fagan
La Belt and Road Initiative – BRI (che, come acronimo, prende il posto del precedente One Belt One Road – OBOR, detta anche “Vie della Seta”) ha avuto il suo primo summit fondativo. Si tratta di un progetto infrastrutturale (strade, porti, stazioni, ferrovie, reti elettriche – tlc, gasdotti etc.) che vorrebbe innervare l’eurasia, coinvolgendo Medio Oriente ed Africa, per cui sarebbe più giusto dire “afro-eurasia”. Il capofila è la Cina che traina l’economia asiatica (presa senza India e Giappone) che pesa un 21% dell’economia mondo. Assieme all’area russo-centro asiatica, arrivano al 23%. Coinvolgendo Pakistan, Iran e Turchia, si supera il 25%, un quarto dell’economia mondo. Questa rete potenziale di stati-economie ha dalla sua tre carte importanti: 1) la continuità geografica di aree differenti sia in longitudine, che in latitudine; 2) ricca dotazione di energia (Russia, repubbliche centro-asiatiche, Iran); ma soprattutto 3) ampi margini di sviluppo potenziale. Quest’ultimo punto dice che se oggi questa parte di mondo pesa un 25%, fra dieci anni (o forse prima) potrebbe crescere al 30%, è cioè all’inizio o poco dopo l’inizio, di un ciclo di sviluppo potenzialmente lungo.
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Hegel: lo Stato perfetto (e la spina di Marx)
di Fulvio Papi
Cerchiamo di mettere in luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel scritta nel 1820 quando aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino. Gli studiosi di Hegel hanno spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come precedenti importanti della “Fenomenologia dello Spirito” del 1808 come della “Filosofia del diritto”, anzi questi scritti giovanili mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia delle successive opere a stampa. Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista la strada teorica che Hegel ha poi codificato come sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto generale si può trovare una linea di continuità.
Molti anni fa, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, Mario Rossi (un amico di grande valore perduto immaturamente), studiando proprio gli scritti jenensi notava che “la preminenza assoluta di valore della determinazione politica serve a comprendere e a risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire che ogni figura sociale, l’agricoltore, l’artigiano, il medico, il professore vanno compresi nel significato spirituale che essi hanno nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.
Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith, Ricardo, e classici della economia politica.
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