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Il populismo al tempo degli algoritmi
di Gigi Roggero e Lelio Demichelis
Pubblichiamo oggi con gli interventi di Gigi Roggero e di Lelio Demichelis la prima parte di uno speciale che, prendendo spunto da alcuni temi trattati nel recente volume di Carlo Formenti La variante populista (già recensito su alfabeta2 da Cristina Morini), si propone di affrontare le nuove declinazioni del cosiddetto populismo. Il dibattito continuerà sabato 4 dicembre con i contributi di Franco Berardi Bifo e di Paolo Gerbaudo.
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La puzza del furore e l’arbre magique della teoria
Gigi Roggero
In questo contributo non ritorneremo in modo sistematico sulla Variante populista di Carlo Formenti (rimandiamo alla recensione La variante rivoluzionaria, pubblicata su Commonware). Ci concentriamo invece su un paio di questioni che emergono dal libro e forse ancor più dai dibattiti intorno a cui il libro gira.
La prima riguarda l’autonomia del lavoro vivo. Si confrontano due posizioni: da una parte quelli che la vedono già pienamente realizzata nella composizione tecnica di classe, dall’altra quelli che – proprio sulla base della composizione tecnica – ne negano la possibilità. Per motivi speculari, entrambe le posizioni sono secondo noi errate.
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Bisogna sognare! Sul referendum, sui prossimi 15 giorni, sull'Italia che verrà
di Ex-OPG "Je so' pazzo"
Ripubblichiamo l'analisi della campagna referendaria e degli scenari che si potrebbero aprire dopo il 4 dicembre scritta dai compagni dell'Ex-OPG "Je so' pazzo". Dopo una campagna che è stata caratterizzata dall'attività e dal protagonismo popolari, si tratta ora di giocarcela fino in fondo in questi ultimi dieci giorni e di non lasciare tutto in mano a Renzi, Salvini o Grillo. Sia che vinca il Sì, sia che vinca il No, dobbiamo continuare a organizzarci per costruire un'alternativa.
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E se noi riuscissimo ad ottenere che tutti o la maggior parte dei comitati, gruppi e circoli locali si unissero attivamente nell’opera comune, potremmo in breve tempo organizzare […] un gigantesco mantice, capace di attizzare ogni scintilla della lotta di classe e dell’indignazione popolare per farne divampare un immenso incendio…
Sulle impalcature di questo cantiere organizzativo comune vedremmo sorgere dei rivoluzionari […] che, alla testa di quell’esercito mobilitato, solleverebbero tutto il popolo contro la vergogna e la maledizione della Russia.
Ecco che cosa bisogna sognare!
Lenin, Che fare?
Mancano 15 giorni al voto del 4 dicembre, siamo ormai entrati nel clou della campagna referendaria.
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Tornare all’utopia
di Valerio Mattioli
La vittoria di Trump e l'ascesa dei populismi europei sono dati di fatto. L'antidoto è uno soltanto: ricominciare a immaginare un futuro alternativo a quello che finora è stato
Negli stessi mesi in cui cadono i 500 anni dall’Utopia di Tommaso Moro, abbiamo capito che ad andare a gonfie vele è il suo contrario. Voglio dire: viviamo in tempi che più distopici non si può, no? Da una parte i viaggi su Marte e le intelligenze artificiali che ragionano per conto proprio; dall’altra – per restare alla cronaca di questi mesi – Brexit, Trump, e un pianeta Terra che entro il 2100 rischia di assomigliare più a Venere che alla Gaia azzurrina immortalata dall’Apollo 17. Poi uno dice la fantascienza.
È istruttivo lo slittamento che ha investito la narrazione mainstream negli ultimi diciamo quindici anni. Dalla sbandierata fine della storia in cui lo stesso concetto di “futuro” veniva acriticamente soppiantato da un eterno presente ecumenico e inviolabile, ecco che proprio il futuro torna ad allungare la sua ombra su quel continuum spaziotemporale che nemmeno la crisi del 2008 è riuscita a ridestare da un torpore pluridecennale. Solo che, l’abbiamo capito: è un’ombra molto, molto minacciosa.
L’elezione a presidente di Donald Trump e l’ascesa dei populismi in Europa sanno di presagio ad almeno un decennio di regressione e tragedie, e nel suo consueto stile iperbolico ma efficace, Bifo parla già di una “guerra nella quale poco di ciò che chiamammo civiltà è destinato a sopravvivere”, ricorrendo a un parallelo storico che più sinistro non si può: “come fece nel 1933, la classe operaia [bianca] si vendica di chi l’ha presa per il culo negli ultimi trent’anni”.
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Democrazia, capitalismo e “rottura populista”
di Carlo Formenti
La lunga recensione (quasi un saggio breve) a "La variante populista" (DeriveApprodi) apparsa su queste pagine e firmata da Alessandro Somma (che ringrazio vivamente per l’attenzione con cui ha letto e analizzato il libro) mi stimola a compiere alcune precisazioni in merito alle tesi da me sostenute, nonché a marcare convergenze e divergenze fra i nostri punti di vista. L’intervento di Somma si articola in varie sezioni, ma può essere sostanzialmente ricondotto a due parti: la prima, in cui ripercorre la pars destruens delle mie argomentazioni (che mi pare condivida in larga misura), la seconda, più breve, in cui analizza le mie proposte politiche e nella quale si concentrano i dissensi. Andrò quindi di fretta sulla prima parte per arrivare al nocciolo della discussione contenuto nella seconda.
Provo a riassumere così le cose su cui siamo sostanzialmente d’accordo: 1) Somma riprende e articola le mie critiche alle tesi di coloro che vedono nel cosiddetto “capitalismo della conoscenza” il presupposto di una transizione spontanea e indolore a una società postcapitalista – critiche che io muovo a partire soprattutto dai lavori di Antonio Negri e André Gorz (anche seguendo le argomentazioni di Dardot e Laval) e dai teorici della New Economy come Yochai Benkler, mentre lui allarga il campo a Paul Mason e al suo Postcapitalismo; 2) riprende inoltre il tema della non neutralità delle forze produttive (cruciale per superare le visioni “oggettiviste” della transizione al socialismo, presenti nello stesso Marx); 3) riprende infine la mia analisi (che arricchisce in relazione al caso Uber) sulle mistificazioni della sharing economy che, assieme alle nuove forme di “lavoro del consumatore” mediate dai social network, rappresenta un nuovo, formidabile dispositivo di potenziamento delle forme di sfruttamento e controllo del capitale sul lavoro.
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Ricordate l'anti-berlusconismo? I pericoli dell'anti-trumpismo
di Cinzia Arruzza*
Durante l’intera campagna elettorale delle presidenziali statunitensi i paragoni tra Donald Trump e l'ex premier italiano Silvio Berlusconi sono stati molti, e sono ulteriormente proliferati da quando Trump ha dichiarato la propria vittoria. Questi paragoni non sono del tutto privi di senso.
Trump e Berlusconi sono entrambi uomini che hanno raggiunto il potere partendo dal mondo del business e non da quello della politica, ed entrambi hanno presentato la propria estraneità all'establishment politico come segno di purezza. Entrambi hanno insistito sul proprio successo imprenditoriale come prova più evidente della loro capacità di dirigere il paese. Come il tiranno di Platone entrambi hanno esibito un’etica basata sul sogno di una perenne e illimitata jouissance e un eros continuo e tracotante (per quanto Berlusconi preferisca pensare a sé stesso come a un seduttore irresistibile piuttosto che uno stupratore). Entrambi si sono permessi battute misogene e razziste e hanno riformulato il linguaggio pubblico legittimando insulti e scorrettezze politiche ed incarnando un esilarante ritorno del represso. Entrambi si crogiolano nella loro estetica kitsch ed esibiscono un colorito da abbronzatura artificiale. Ed entrambi si sono alleati con l’estrema destra per portare avanti un progetto politico fatto di neoliberismo autoritario e capitalismo sfrenato.
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Perché voto NO al referendum
Lettera aperta al PD
di Walter Tocci
Questo post consente due piani di lettura. Il testo principale sviluppa le argomentazioni in modo - spero - semplice e completo ed è sufficiente a illustrare la mia posizione. Le parti a sfondo colorato di approfondimento, invece, trattano argomenti specifici entrando nei dettagli tecnici e storici. Purtroppo il trentennale dibattito istituzionale ha accumulato tanti equivoci che richiedono una critica articolata, ma questa rischia di appesantire il discorso generale. La distinzione permette al lettore di scegliere il livello di lettura secondo i propri interessi.
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Care democratiche e cari democratici,
avverto il dovere di chiarire le ragioni che mi portano a confermare nel referendum il voto contrario già espresso in Senato sulla revisione costituzionale. Ecco alcuni punti che mi stanno a cuore.
La soluzione senza il problema
C’è pieno accordo tra noi sulla esigenza di riforma del bicameralismo, ma forse proprio per il largo consenso sulla soluzione si è smarrito il problema.
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Contro Recalcati
di Andrea Minuz
Si stava meglio quando c'era Alberoni. I padri saranno anche evaporati, ma il Sorrentino della psicoanalisi è ovunque
Non si può parlare dell’ultimo libro di Massimo Recalcati senza interrogarsi sull’ascesa di Massimo Recalcati. Quindi facciamo qualche passo indietro e confessiamolo subito: quando c’era Alberoni era tutto più semplice. I confini erano chiari, netti, giusti. Introiettata la differenza tra innamoramento e amore, guardavamo con distacco le raffiche di best seller con copertine rosa e titoloni in baskerville giallo: Ti Amo; Il grande amore erotico che dura, Leader e masse; Le sorgenti dei sogni. La cosa non ci riguardava. Nulla che non fosse due dita sotto la complessità dell’ultimo Battisti. Al massimo, buttavamo un occhio sui corsivi del Corriere dove, alle soglie di Tinder, Alberoni scriveva «fare all’amore». Alberoni ci spiegava il carisma, l’indebolimento del Super-Io, il capo d’azienda, l’uomo cacciatore, la donna che fa il nido, la crisi dei valori e «le miserie degli accoppiamenti nelle orge dei rave party». Nei suoi articoli, nelle conferenze o nelle interviste su Grazia non avrebbe mai ceduto a parole come «forcluso», «fagocitante», «ieratico», tantomeno al «balbettio monologante della lalangue».
Quando c’era Alberoni, i tomi dei seminari di Lacan erano lì dove dovevano essere, nello scaffale più inaccessibile e forcluso della nostra libreria. Poi è arrivato Recalcati. Le copertine non sono più rosa, né fucsia. Titoli ieratici e sottotitoli minacciosi chiamano in causa l’«inesauribile capacità del mito di offrire spunti di riflessione», la «filiazione simbolica», «l’Altro», l’Oltre e l’Ultra.
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Oltre l’eroe: movimenti, dialogo e traduzione
di Fabio Ciabatti
In un precedente intervento su Carmilla ho sostenuto che in Venezuela una molteplicità di movimenti, sviluppatesi autonomamente, hanno trovato una riunificazione nella catena di vicende che parte dal Caracazo e arriva all’elezione di Chavez. Ci siamo inoltre chiesti come poter rappresentare questo processo di unificazione.
Il primo elemento da considerare è l’evento della rivolta popolare che costringe i movimenti a unirsi spontaneamente e immediatamente per contrapporsi alla violenta repressione dello stato. Di fronte al pericolo estremo, sosteneva Sartre nella Critica della ragione dialettica, gli individui atomizzati si uniscono creando un’aggregazione qualitativamente diversa dalla somma dei singoli, il gruppo in fusione, che cementa la solidarietà sostituendola alla reciproca indifferenza. La rivolta rende evidente una frattura sociale, cementa il campo popolare e dischiude un nuovo orizzonte di possibilità. A questa unificazione immediata ne segue una caratterizzata da una processualità consapevole e orientata. E qui ci torna utile Enrique Dussel1 che descrive questo processo come caratterizzato da un’incorporazione analogica tra le diverse rivendicazioni popolari in grado di conservare la distinzione di ciascuno e di trasformare la prassi di liberazione popolare in una nuova proposta politica collettiva. Ciò si ottiene attraverso un processo di “dialogo e traduzione” tra le diverse istanze conflittuali.
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Redistribuire il lavoro
Ascanio Bernardeschi intervista Giovanni Mazzetti
Il sistema capitalistico non è più capace di riprodurre il lavoro e le politiche keynesiane tradizionali non sono in grado di mediare una nuova fase di sviluppo. Serve una rifondazione che non è mai iniziata
Nonostante la quotidiana narrazione secondo cui l'uscita dalla crisi sarebbe dietro l'angolo, anzi sarebbe già iniziata, temiamo che essa perdurerà ancora per qualche anno e che forse non abbia ancora espresso il peggio di sé stessa.
Da militanti comunisti riteniamo che ci sia bisogno di un ulteriore sforzo di analisi sulle sue caratteristiche e che uscirne in positivo – e non con i massacri sociali fin qui perpetrati, che poi, è dimostrato dai fatti, aprono la strada alla destra peggiore – non sia possibile senza profonde trasformazioni sociali.
Fra gli strumenti di contrasto all'involuzione sociale assume grande rilevanza la riduzione dell'orario di lavoro. Questo giornale si propone di focalizzare il tema con una serie di approfondimenti [1].
Abbiamo deciso di parlarne con Giovanni Mazzetti, già professore all'Università della Calabria.
Confrontarci con lui ci è sembrata una via obbligata perché ha dedicato gran parte della sua vita a questo tema, pubblicando numerosi saggi in proposito, e perché è il responsabile del Centro Studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro a parità di salario e per la redistribuzione del lavoro complessivo sociale, sul cui sito [2] è possibile trovare materiali preziosi, anche di carattere formativo per i militanti.
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La lezione di De Cecco
Riccardo Bellofiore
Un ricordo di Marcello de Cecco, economista sempre stato attento a non separare mai i suoi studi sul potere e sull’economia da un impegno civile e, in fondo, patriottico
La notorietà internazionale venne a Marcello de Cecco dai suoi studi sul sistema monetario internazionale. Il libro più celebre è Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1890 al 1914 (Einaudi, Torino 1979). Il volume era in realtà già comparso in una prima versione dall’editore Laterza, nel 1971, con il titolo Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914. La ricerca risaliva al 1968, ed era stata stimolata dalla svalutazione della sterlina dell’anno precedente, come anche dalla impressione che l’autore sempre più nutriva che il sistema di Bretton Woods, fondato su ‘cambi fissi ma aggiustabili’, fosse sulla via del collasso. Grazie alla partecipazione ad un progetto di Robert Mundell sulle crisi per la National Science Foundation statunitense de Cecco potè studiare, a Chicago e a Londra, la presunta età dell’oro del gold standard, ma anche la sua interna e crescente fragilità. In un articolo del 1973 comparso, ancora in italiano, nella Rivista internazionale di storia della banca, de Cecco proseguì il discorso commentando la crisi bancaria del 1914, ed impiegando materiali che allora non erano ancora stati resi noti, in particolare le Crisis Conferences tenute da Lloyd George in occasione della crisi del luglio 1914, trascritte dalla moglie Julia Bamford (professoressa di lingua inglese all’Orientale di Napoli). Questo saggio divenne l’ultimo capitolo di una versione ampliata in lingua inglese: Money and Empire. The International Gold Standard, 1890-1914, pubblicata da Basil Blackwell nel 1974. Il volume fu riedito dieci anni dopo da Frances Pinter, con il titolo invertito (The International Gold Standard. Money and Empire), una nuova prefazione e la correzione di una serie di errori segnalati dai recensori della prima edizione.
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La deriva della politica costituzionale
di Ida Dominijanni
C’è un tratto poco sottolineato della retorica renziana che consiste nel ricondurre a necessità storica, quando non a dato naturale, ciò che è invece oggetto di scelte politiche soggettive e contingenti. È un tratto importante, perché sintomatico di una contraddizione, e probabilmente di una debolezza, dell’ideologia dell’attuale classe di governo: l’appello ripetuto alla necessità urta infatti visibilmente con le pretese decisioniste del presidente del consiglio e del suo inner circle. Ed è in compenso del tutto organico – a onta della missione “rivoluzionaria” che il renzismo si attribuisce - alla razionalità neoliberale e alla naturalizzazione dell’esistente che essa sottintende e persegue.
In questo intervento vorrei cercare di mostrare come questo circolo vizioso fatto di appello alla necessità, naturalizzazione dell’esistente e retorica rivoluzionaria abbia agito e stia agendo nella propaganda della riforma costituzionale.
A un certo punto dell’iter parlamentare della legge che porta il suo nome, la ministra Boschi l’ha glorificata come la riforma che gli Italiani “aspettavano da 70 anni”: ovvero, a essere precisi, da tre anni prima che la Carta del 1948 venisse promulgata. Giova tornare sull’episodio, perché raramente una sola frase riesce a condensare una tale capacità performativa di falsificazione del passato e di manipolazione del presente e, nei programmi della ministra, del futuro.
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Il fatto che il capitale abbia dei limiti, non significa che collasserà
Agon Hamza & Frank Ruda intervistano Moishe Postone
Hamza & Ruda: Il tuo lavoro stabilisce una cruciale distinzione fra la critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro e la critica del lavoro nel capitalismo. La prima implica una descrizione trans-storica del lavoro, mentre la seconda pone il lavoro come una categoria coerente - capace di "sintesi sociale" - del modo capitalista di produzione. Tale distinzione richiede che venga abbandonata ogni forma di descrizione ontologica del lavoro?
Moishe Postone: Dipende da cosa si intende per spiegazione ontologica del lavoro. Questo ci spinge ad abbandonare l'idea che ci sia, in maniera trans-storica, uno sviluppo progressivo dell'umanità che avviene per mezzo del lavoro, che l'interazione umana con la natura, in quanto mediata dal lavoro, sia un processo continuo che ci porta a continui cambiamenti. E che il lavoro sia, in tal senso, una categoria storica centrale.
Attualmente, questa posizione è più vicina ad Adam Smith che a Marx. Io penso che la centralità del lavoro rispetto a qualcosa che viene chiamato sviluppo storico può essere posta solamente per il capitalismo e non per qualsiasi altra forma di vita sociale umana.
D'altra parte, penso che si possa mantenere l'idea che l'interazione umana con la natura è un processo di auto-costituzione.
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Produttività del lavoro e precarietà: il circolo vizioso dell’economia italiana
di Andrea Fumagalli
Una risposta ad Alberto Alesina e a Francesco Giavazzi
Sul Corriere della Sera del 21 novembre 2016, Alesina e Giavazzi tornano a colpire per ribadire la necessità di politiche neoliberiste e per dar man forte al governo Renzi, lodando la riforma del mercato del lavoro targata Jobs Act.
Lo spunto è di estrema attualità e riguarda lo scarso trend della produttività oraria del lavoro in Italia, soprattutto se comparato a quello degli altri paesi europei e Usa.
Come scrivono i due autori: “In un ventennio la produttività oraria nelle aziende italiane è cresciuta in tutto del 5 per cento. Negli Stati Uniti, nel medesimo periodo, otto volte di più: 40 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania sei volte di più. Anche Spagna e Portogallo hanno fatto meglio: + 15 per cento in Spagna, tre volte più che noi, e + 25 per cento in Portogallo, cinque volte di più”.
Alesina e Giavazzi forniscono spiegazioni per tale deludente risultato. Un risultato che di per sé, dal momento che la produttività oraria, se riferita al solo fattore produttivo lavoro, è un indicatore del tasso di sfruttamento, non sarebbe del tutto negativo, se fosse derivato da un rallentamento dei ritmi e da migliori condizioni lavorative. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che non è così. Anzi, in Italia negli ultimi anni, lo sfruttamento è aumentato, sino a diventare più pervasivo e ad avvolgere parti crescenti del tempo di vita e non solo quello di lavoro.
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L’euro e il rischio Trump nell’Unione
Antonio Lettieri
Prima la Brexit, poi l'elezione di Trump ci dicono che l'"imprevedibile" può verificarsi, specie quando dilaga lo scontento per politiche economiche a vantaggio solo di pochi. Nel 2017 voteranno due (e forse anche noi) paesi importanti, e tutto può accadere. La crisi dell'euro merita una riflessione laica, aperta a diversi scenari possibili
Dopo la vittoria di Donald Trump non solo ci si deve interrogare sulle ragioni del suo imprevisto successo in America, ma anche su quale lezione se ne possa trarre per l’Unione europea. Si tratta evidentemente di situazioni politiche non sovrapponibili. Eppure, non ostante tutte le differenze, gli scenari presentano intriganti punti in comune. Innanzitutto, la crisi economica che in modi diversi ha toccato le due sponde dell’Atlantico; poi la crisi dei tradizionali assetti politici.
Gli stati Uniti e l’Europa sono stati entrambi colpiti dalla Grande recessione. Con una differenza fondamentale. L’America di Barack Obama ha ripreso a crescere in tempi relativamente rapidi e già nel 2014 il reddito nazionale aveva superato quello antecedente alla crisi. La disoccupazione giunta al 10 per cento al culmine della crisi è stata ridotta al 4,9 per cento. Il contrario si è verificato nell’Unione europea e, in particolare, nell’eurozona dove la crisi ha avuto effetti devastanti.
Il confronto fra le politiche adottate per rispondere alla crisi mostra tutta l’assurdità della combinazione di austerità e riforme strutturali adottate nell’Unione europea sotto l’egida della Commissione europea con la complicità degli stati membri dell’eurozona. L’austerità ha bloccato la crescita, portato a livelli esplosivi la disoccupazione e accresciuto il debito pubblico che era finalizzata a ridurre. Le riforme strutturali hanno aggredito le conquiste sociali che avevano caratterizzato la democrazia europea del vituperato Novecento: una politica reazionaria definita, con un’ipocrita torsione del linguaggio politico,“riformista”.
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Referendum, spread, crisi bancaria, OMT, Memorandum e... la grande tranvata
di Quarantotto
1. Ooops! Fanno una scoperta...
ALLARMISTI PER IL SÌ - Ft: "Se vince il No, Italia fuori da euro". Confindustria: "Si fermano investimenti". Ma per Nyt il problema è un altro
Naturalmente non spiegano bene perché il referendum si colleghi all'uscita dall'euro dell'Italia.
Anzi, dicono che per il New York Times "il problema sarebbe un'altro" (come vedremo): non il referendum in sé, ma le sofferenze creditizie in Italia, cioè, l'Unione bancaria che, (ma si ostinano a non voler unire i puntini), coincide con l'euro.
E ciò in quanto l'Unione bancaria è il meccanismo assicurativo dei Paesi creditori all'interno di un sistema in cui le insolvenze diffuse sono la conseguenza degli strumenti di correzione degli squilibri commerciali determinati dalle svalutazioni competitive tedesche, poste in essere in violazione dei trattati, ma tollerate dalle istituzioni €uropee...
E tollerate, anzi avallate, in quanto soggette all'indirizzo politico imposto dal paese che ha vinto la guerra commerciale che l'euro era programmato ad innescare: secondo la previsione della "economia sociale di mercato fortemente competitiva".
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I confini del populismo
Su Laclau e le ambivalenze di un significante vuoto
Francesco Festa
1. Una cosa appare certa. Comunque si fissino i confini del populismo, sta di fatto che le sue manifestazioni si vanno particolarmente moltiplicando. Come quel mito che tagliata una testa ne appare un’altra, e un’altra ancora; oppure come tutti gli incubi della borghesia, quel fantasma che non si riesce ad acciuffare e si aggira terrorizzando la pace sociale. Metafore a parte, di populismo e di partiti populisti, in realtà, si è ricominciato a parlare all’incirca un trentennio fa, anche se è con il cronicizzarsi della crisi e con l’indebolimento dell’Unione Europea che si è imposto come termine più attentamente monitorato dai media e tema più aspramente dibattuto dagli studiosi di scienza politica. E la sua origine e la sua definizione restano tuttavia un rompicapo irrisolto: se non ricorrendo a spiegazioni che non ne sciolgono la questione dei confini. Tanto è vero che l’etichetta populista viene usata per il Front National di Le Pen, l’UK Independence Party di Farage e la Lega di Salvini; un po’ meno per il Movimento Cinque Stelle, mentre, in altro versante, viene utilizzata per i movimenti anti-austerity come Podemos o Syriza.
Quali sono, dunque, i confini del populismo? Che essi siano a geometria variabile, in base al posizionamento, si muovono comunque all’interno di un piano costituzionale.
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Questioni di confine: l'umano e la macchina, il postumanesimo e il conflitto sociale
Adriana Perrotta Rabissi e Franco Romanò
Questo articolo è composto da due parti, la prima che riguarda il tema del confine tra umano e macchina, di Adriana Perrotta Rabissi, la seconda che riguarda postumanesimo e conflitto sociale di Franco Romanò
I parte
Nei tre saggi che compongono il Manifesto Cyborg Donna Haraway indaga il rapporto tra scienza tecnologia e identità di genere. In contrasto con le posizioni essenzialiste di parte del femminismo adotta la metafora del Cyborg come figura in grado di sovvertire l’ordine del discorso patriarcale e mettere in crisi l’epistemologia maschile.
In the three essays composing the Cyborg Manifesto Donna Haraway investigates the relationship between science technology and gender identity. In opposition to the essentialist positions taken by part of the feminist movement,she takes cyborg metaphor as a figure able to subvert the order of speech and consequently putting in crisis male epistemology.
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Preferisco essere cyborg che dea (Donna Haraway)
di Adriana Perrotta Rabissi
Negli anni Novanta del secolo scorso Donna Haraway, filosofa e biologa statunitense, che si dichiara socialista e femminista, si è interrogata sul rapporto scienza, tecnologie e identità di genere e ha scritto tre saggi pubblicati in italiano nel libro, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie, e biopolitiche del corpo, Introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano, 1995.1
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Trump, risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione
di Domenico Moro
1. Populismo o alternanza nella democrazia oligarchica?
La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.
In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti1. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore2, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump.
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Referenzum: Costituzione e interessi di classe
di Italo Nobile
La questione del referendum del 4 Dicembre andrà affrontata sotto diversi aspetti: da un punto di vista del contenuto più strettamente giuridico, da un punto di vista più complessivamente politico e dal punto di vista del rapporto con l’analisi di classe propria dei comunisti.
Una prima operazione di carattere più generale sarà quella di liquidare una serie di luoghi comuni retorici al riguardo, ovvero che il paese aspettava una riforma da trent’anni, che la costituzione va adeguata ai tempi, che opporsi ad essa significhi essere conservatori. Ebbene a questi luoghi comuni ha risposto anche il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ma credo che basti contro di essi un solo argomento. Quantunque sia vero che ci sia bisogno di una riforma (e anche questo andrebbe argomentato), il problema è che la riforma necessaria potrebbe non essere questa. Dunque la discussione dovrebbe riguardare proprio questo punto e perciò gli argomenti di questo tipo senza una discussione del genere non hanno senso.
Una seconda operazione di carattere preliminare riguarda la tendenza propria di noi comunisti a dire che quella italiana non sia “la costituzione più bella del mondo” e che essa ha comunque permesso la legislazione antisociale degli ultimi anni per cui non vale la pena soffermarsi sulla riforma in sé ma sul contesto politico in cui essa è inserita.
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Omaggio a Fidel
di Lia De Feo
Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo.
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Hasta siempre Comandante!
Intervista a Luciano Vasapollo
A poche ora dalla morte del Comandante Fidel Castro, rivolgiamo alcune domande a Luciano Vasapollo, dirigente della Rete dei Comunisti e da molti anni responsabile del lavoro di solidarietà con i popoli dell'America Latina e delle relazioni politiche e scientifiche con i governi e le forze rivoluzionarie di 'Nuestramerica'.
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Rdc – Come potremmo definire in poche parole il Comandante Fidel Castro?
LV – Fidel Castro è una figura che ha fatto la Storia, con la S maiuscola, dell'autodeterminazione dei popoli, combattendo sempre contro quelli che pensavano di poter fare del mondo un loro enorme impero economico.
Grazie alla sua fiducia profonda nella democrazia socialista, Fidel Castro è stato capace di gestire il governo popolare per tutti e 57 gli anni successivi al trionfo della Rivoluzione a Cuba.
Dall'inizio della Rivoluzione, della creazione dello Stato Socialista a Cuba l'isola ha vissuto importanti conquiste rivoluzionarie: la riforma agraria, la redistribuzione delle terre; la nazionalizzazione dei settori strategici come quello della canna da zucchero e delle raffinerie; la riforma culturale a favore dell'istruzione popolare.
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La matrice che ci imprigiona
di Alberto Micalizzi
Siamo imprigionati all’interno di un quasi-mercato manipolato ed etero-diretto da conglomerate ed istituzioni finanziarie il cui obiettivo di fondo è di appropriarsi di risorse dell’economia reale, attualmente di proprietà degli Stati, delle famiglie e delle imprese (vedi mio articolo “Da modelli di sviluppo a meccanismi di appropriazione”).
Ma chi tira le fila di questo sistema? Chi sono i burattinai?
L’architrave del sistema poggia su poche grandi conglomerate definibili come “super-entità” per la forza d’urto, per la trasversalità settoriale e la transnazionalità della sfera d’azione. Tra queste, vale la pena citarne almeno quattro.
• BlackRock, posseduta principalmente da Merrill Lynch (al 49,8%), a sua volta posseduta da Barclays, State Street Corporation, Axa, Vanguard Group e altri. BlackRock gestisce direttamente oltre $5.000 miliardi di capitali, pari a quasi la metà del PIL di tutta l’Eurozona (!).
• The Vanguard Group Inc., posseduta per l’86% da hedge funds tra cui Price Associates, BlackRock e Credit Suisse, con $3.000 miliardi di capitali in gestione (il doppio del PIL italiano).
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Il rischio del "frontismo" e una svolta nella comunicazione politica
Intervista a Carlo Formenti sul voto Usa
Abbiamo intervistato Carlo Formenti, sociologo, giornalista, scrittore e militante della sinistra radicale, sulle prospettive che derivano dalle recenti elezioni presidenziali USA, soffermandoci su alcune delle particolari tematiche emerse durante il processo elettorale: dai cambiamenti nel rapporto tra comunicazione e comportamento elettorale, alla questione del populismo in salsa Trump, passando per la fase di messa in discussione dell'appeal del concetto di "stabilità" e della divaricazione tra democrazia e capitalismo sempre più affermata a livello sociale nel mondo occidentale. Buona lettura.
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Infoaut: Si è ormai tutti d'accordo nel descrivere le recenti elezioni Usa come contraddistinte da un voto di classe, espresso all'interno di una campagna elettorale dove Clinton e Trump hanno di fatto giocato il ruolo di portavoce delle classi avvantaggiate e svantaggiate dalla globalizzazione. Il giudizio sui costi e i benefici di quest'ultima ha quindi giocato un ruolo decisivo per l'esito del voto. Quanto però secondo te questo voto è stato percepito anche in relazione ad una specifica forma di globalizzazione, quella neoliberista attuale, e ai suoi effetti di lungo periodo sulla popolazione scaturiti negli ultimi quarant'anni?
Per quanto ci siano state diverse analisi sui dati, basate sui numeri relativi oppure sui numeri assoluti, con le valutazioni che possono essere molteplici a seconda dei diversi criteri usati, io credo che se guardato nella sua articolazione per Stati ci sia un dato incontestabile.
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La variante rivoluzionaria
di Gigi Roggero
Recensione a La variante populista di Carlo Formenti
Qualche mese fa Franceschini, degno rappresentante della mediocrità politica del suo partito, ha detto che oggi lo scontro oggi non è più tra destra e sinistra, ma tra sistemisti e populisti. Se perfino un dirigente del PD arriva a cogliere qualche elemento di realtà, vuol dire che esso dovrebbe essere piuttosto lampante. Così non è, se guardiamo al dibattito che ha preceduto e seguito le elezioni americane dentro le sinistre conventicole dell’opinione pubblica nostrana, infarcita di paura per il fascismo che avanza e stretto attorno al simulacro democratico che arriva addirittura ad assumere il mostruoso volto di Hillary Clinton. Un merito indiscutibile dell’ultimo libro di Carlo Formenti, La variante populista (DeriveApprodi, uscito in ottobre), è di prendere di petto il tema, senza timore delle accuse e dei latrati che si alzano dalle rancorose e marginali fila del frontismo neo-dem. La tesi del volume è infatti nitida: oggi la lotta di classe nel neoliberismo avviene innanzitutto sul terreno disegnato dal populismo. Secondo l’autore bisogna quindi accettarne la sfida, collocarsi su quel terreno, lì costruire egemonia in senso gramsciano.
Formenti arriva a sviluppare la sua tesi attraverso un confronto selezionato con autori e posizioni che, come sempre nei suoi testi, vengono sintetizzati in forma estremamente chiara e utile.
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Gli Stati Uniti tra "isolazionismo" e "internazionalismo”
di Sebastiano Isaia
1.
Ho trovato molto interessante l’articolo di Dario Fabbri pubblicato da Limes che analizza il voto americano ponendolo in rapporto con l’orientamento geopolitico strategico degli Stati Uniti. Il solo punto debole dell’articolo mi è parso di coglierlo nella definizione che l’autore dà della globalizzazione come «pax americana sotto pseudonimo», cosa che mi sembra quantomeno riduttiva. Infatti, anche Paesi come la Germania, la Cina e il Giappone, per non allungare troppo l’elenco e fermarmi al vertice della piramide capitalistica mondiale, hanno partecipato e partecipano a pieno titolo alla «globalizzazione», concetto che d’altra parte sintetizza, almeno nella mia “declinazione”, la naturale tendenza del Capitale ad annettersi non solo l’intero pianeta (realizzando la Società-Mondo), come aveva capito l’anticapitalista di Treviri in anticipo sui tempi, ma anche l’intera esistenza degli individui, come hanno dimostrato la psicoanalisi e la medicina orientata in senso psicosomatico. La definizione di cui sopra sembra fatta apposta per eccitare l’anima “antiamericana” di buona parte dei cosiddetti “antimperialisti”.
Ho sempre considerato un grave errore di prospettiva, fondato soprattutto sul pregiudizio antiamericano che da molto tempo (diciamo pure da un secolo) alberga in una larga parte dell’intellighentia europea (tanto di “destra” quanto di “sinistra”), spiegare la dinamica della competizione interimperialistica del Secondo dopoguerra ricorrendo esclusivamente, e comunque essenzialmente, al confronto politico-ideologico-militare Stati Uniti-Unione Sovietica.
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