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Verso una nuova etica del lavoro culturale
Da Bianciardi alla bohème e ritorno
di Nicolas Martino e Ilaria Bussoni
Quello che vorrei mettere in luce in questa parte del nostro intervento è la centralità della figura di Luciano Bianciardi come intellettuale, centralità rispetto alla questione strategica dell’«aura» nel lavoro contemporaneo, e sulla quale il nostro deraciné grossetano finì per inciampare, non riuscendo a trovare una via di fuga percorribile rispetto al «ruolo» che gli era stato cucito addosso dall’industria culturale e nel quale a tratti lui stesso finì per trovarsi anche a proprio agio.
Un’ambivalenza di Bianciardi quindi delle sue intuizioni rispetto al ruolo dell’intellettuale e alle trasformazioni del lavoro culturale nella metropoli contemporanea, ma anche dei suoi limiti che gli impedirono di capire fino in fondo tutte le conseguenze di quella grande trasformazione che lui stesso si trovava a vivere nell’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta. Bianciardi è autore, come è noto, di una cosiddetta trilogia della rabbia che comprende Il Lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e La vita agra (1962), il suo libro di maggior successo. Di questi il primo è dedicato al lavoro culturale in provincia nell’Italia del secondo dopoguerra, gli altri due al lavoro nell’industria culturale in un’Italia metropolitana attraversata dal boom economico e sociale. Molti tratti dell’ambivalenza di Bianciardi emergono da queste due opere di ambientazione milanese, ma anche dalla corrispondenza privata e da scritti e interventi di varia natura che Bianciardi disseminò nella sua frenetica attività di collaboratore su testate diverse; una piccola parte di questo materiale proveremo qui a prenderlo brevemente in esame.
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Le immagini della scienza e la pretesa di verità
di Riccardo Falcinelli
Viviamo circondati da immagini, in un numero enorme se confrontato con qualsiasi società che ci abbia preceduto. Gran parte di queste sono pensate per intrattenere, per raccontare, per sedurre, come quelle della fiction, dei videogiochi o della pubblicità. Un’altra parte è fatta per testimoniare o per spiegare: si tratta delle foto giornalistiche e delle immagini scientifiche. In entrambi i casi si mostra qualcosa e si afferma che quanto si sta mostrando è “vero”. Sarebbe però più corretto dire che si pretende sia vero, visto che il rapporto delle immagini con la verità non è dato una volta per tutte ma sempre frutto di un accordo, di una negoziazione tra chi mostra e chi guarda. Condizione stringente nel caso delle immagini scientifiche che esibiscono spesso cose non visibili a occhio nudo: l’atomo, un virus o il DNA li conosciamo infatti attraverso raffigurazioni e non tramite esperienza diretta. C’è dunque da chiedersi quali strumenti figurativi vengano impiegati a questo scopo e perché questi e non altri.
Il 25 aprile 1953 Francis Crick e James Watson presentano su “Nature” l’articolo epocale sulla struttura dell’acido deossiribonucleico che li avrebbe portati qualche anno dopo al premio Nobel. Vi compare un’immagine che, in forme diverse, sarebbe stata destinata a un enorme successo: la prima effigie del DNA sotto forma di elica. Per l’occasione il disegno viene realizzato dalla moglie di Crick – che è pittrice – partendo da uno schizzo del marito. Una nota in calce dice che l’immagine è niente più che uno schema: “purely diagrammatic” recita la didascalia.
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Elvio Fachinelli: il clinico che ridefinì l'osceno
Pietro Barbetta
Tempo fa William Buckley rimproverava Allen Ginsberg di comporre opere oscene per via del suo linguaggio; invitato a una trasmissione televisiva gestita dallo stesso Buckley, Ginsberg rispose che oscene non sono le parole, ma le morti durante l'allora guerra del Viet-Nam.
La biografia culturale di Elvio Fachinelli (1928-1989) sembra una genealogia Biblica. Il suo analista fu Cesare Musatti (1897-1989), il quale – considerato uno dei Padri della psicoanalisi italiana – si formò con Edoardo Weiss (1889-1970), il primo psicoanalista italiano. Weiss era, a sua volta, in supervisione dallo stesso Sigmund Freud. Nonostante le sue origini nobili e ortodosse, Fachinelli fu tra gli psicoanalisti che più cambiarono la psicoterapia in Italia.
In primo luogo rifiutò l'idea di “resistenza del paziente” a favore dell'accoglienza della “persona che frequenta l'analisi”, spostando la responsabilità della terapia sull'"esperto”. Negli anni Settanta nacque e si diffuse la strana idea che se c'è fallimento nella relazione tra il professionista e il suo utente, la responsabilità è del professionista, non dell'utente. Per esempio, se un tempo una persona moriva legata a un letto, si attribuiva la morte alla furia della persona. Basaglia per primo ebbe l'idea di invertire l'ordine delle responsabilità nei manicomi. Don Milani invertì l'ordine delle responsabilità nelle scuole. Lo stesso Fachinelli contribuì, con altri autori, a fondare una scuola libera, nell'epoca in cui veniva messo in discussione il ruolo dell'insegnamento.
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Un casino immenso
di Valerio Mattioli e Raffaele Alberto Ventura
Questo pezzo è uscito sul numero di agosto di Linus. Ringraziamo gli autori e la testata
Alla fine era nell’aria: al di fuori dei canali che una volta avremmo detto tradizionali, e a fianco delle testate che per decenni sono servite come riferimento per il “dibattito politico-culturale” – qualunque significato decidiate di dare alla famigerata formula – si è sviluppata negli ultimi anni una… come vogliamo chiamarla? New wave dell’opinionismo da terza pagina? Giovane scena intellettual-letteraria? Nuova generazione del giornalismo più o meno critico, più o meno militante?
Se non sapete di cosa stiamo parlando fidatevi di noi, che a parlare di robe simili rischiamo un conflitto d’interessi grande così poiché a questo mondo in qualche modo partecipiamo (seppur ai livelli più infimi). Diciamo allora che negli ultimi cinque, dieci anni è venuta a comporsi una costellazione di testate e firme che, se non ha interamente monopolizzato il dibattito di cui sopra, quantomeno ne sta fornendo una versione laterale e col passare del tempo forse persino influente.
L’armamentario è quello di sempre: editoriali di commento, saggi critici, approfondimenti di varia natura, articoli alle volte brillanti alle volte meno, “pezzi definitivi” e via di questo passo.
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Come cura la psicoanalisi lacaniana
di Roberto Pozzetti
Introduzione
La psicoanalisi sorge come metodo di cura di una serie di disturbi psichici e, in particolar modo, dell’isteria a partire dall’incontro di Breuer e Freud con le loro pazienti. Le estensioni di tale metodo e della teorizzazione che ne è derivata alla lettura di fatti sociali, culturali e politici non ne modifica questo statuto essenziale e non ne fa una visione del mondo, una Weltanschauung. Lo sosteneva lo stesso Freud: “La psicoanalisi, a mio parere, è incapace di crearsi una sua particolare Weltanschauung” .
Molte volte è l’orientamento analitico lacaniano a instillare questo dubbio tanto che molti si chiedono se i lacaniani pratichino effettivamente la psicoanalisi e non compiano soltanto delle mere astrazioni, analoghe a quelle dei filosofi.
Lacan fu, al contrario, un clinico rigoroso il quale si dedicò ogni giorno alla pratica della psicoanalisi, dal 1944 presso Rue De Lille, 5. Mantenne un legame con la clinica psichiatrica per tutta la sua vita svolgendo conferenze e incontri di formazione in centri ospedalieri di Parigi e di altre città francesi.
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Traverso e gli intellettuali
di Piergiorgio Giacchè
“Enzo Traverso è uno storico italiano, da anni attivo in Francia”, ci dice la voce di Wikipedia, il dizionario-oracolo dei nostri tempi e mondi. Poi aggiunge che è stato in Germania e infine che da due anni insegna anche in America, a Ithaca… paradossale approdo di un forse definitivo “non ritorno”. Se Traverso fosse un chimico o un fisico o al limite un medico si parlerebbe di “fuga dei cervelli”, ma questa dizione non si applica agli studiosi di storia e di scienze politiche e sociali: certo per sventurata sottovalutazione di chi studia con profitto scienze senza profitto, ma anche per la fortunata licenza di fuggire e viaggiare che è concessa ai ricercatori di scienze umane, sempre visti come privilegiati perdigiorno, insomma come “intellettuali”. Eppure da qualche intellettuale come Enzo Traverso arrivano ancora di tanto in tanto preziose “rimesse degli emigranti”, di quelle che una volta nutrivano regioni intere e che invece oggi alimentano piccole case editrici dai nomi che tradiscono tutta la minorità delle minoranze attive. “Ombre corte” si chiama la casa editrice di un breve libro che ha per titolo Che fine hanno fatto gli intellettuali?, un saggio di Enzo Traverso intervistato da Régis Meyran che ha il doppio torto o il doppio pregio di essere il commento di un intellettuale al tema della sua stessa fine. Non sarà certo un best-seller né lo può diventare dopo questa segnalazione su una rivista come “Lo straniero”, ma non ne parliamo per solidarietà con i minori o con i migranti, ma perché colpiti dall’offerta di un ”libretto-specchietto” dove per una volta noi intellettuali – lettori o scrittori che si sia – non ci si sente narcisi. E finalmente e fatalmente ci si riflette.
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Nel tempo della minorità
Lelio Demichelis
La vittoria dei no al referendum in Grecia aveva dimostrato che l’uomo in rivolta di Camus esiste, che se vuole è capace di dire no e anche di dire sì. L’uomo in rivolta greco ha detto sì all’europeismo dicendo no a questa Europa dell’austerità, della colpa, dell’egoismo, dei mercati, della cancellazione scientifica dei diritti sociali, dimostrando che un agire politico è ancora possibile. Fine della rassegnazione? No, sappiamo com’è andata a finire, la rassegnazione è stata imposta a forza alla Grecia, ma quel no che era un sì rimarrà comunque nella storia. Anche se si conferma, senza se e senza ma come il capitalismo sia strutturalmente conflittuale con la democrazia.
Di più: sono morte le ideologie del Novecento, ma anche le utopie e persino le idee; la lotta di classe l’hanno vinta i ricchi e si è azzerata ogni capacità (specie a sinistra) di innovazione politica, mentre si è dominati dall’imperativo dell’innovazione tecnologica – e l’unica immaginazione al potere è oggi quella di dover diventare uomini economici la cui vocazione (beruf) deve essere quella di adattarsi al mercato e di connettersi in rete, mentre «la flessibilità deve entrare nel Dna delle persone» (Mario Draghi). Condizione esistenziale tristissima e devastante per società e democrazia.
Qui parliamo allora di tre libri, diversi ma tutti importanti per comprendere la nostra condizione (dis)umana nell’epoca del capitalismo tecnologico globalizzato. Pubblicati da Laterza nella nuova e benvenuta collana «Solaris».
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Leggere Marx a Venezia
Enwezor e la rappresentazione del capitalismo alla Biennale d’Arte 2015
di Pietro Bianchi
Vi è una celebre sequenza all’inizio di Grapes of Wrath, il film capolavoro di John Ford tratto dal romanzo di Steinbeck, in cui vediamo Tom Joad che dopo essere uscito di prigione torna nella fattoria di famiglia e la trova vuota, distrutta e abbandonata. La terra è stata confiscata dalle banche e la sua famiglia se n’è dovuta andare verso la California a cercare un lavoro e un salario migliori. Ma com’è possibile – si chiede Tom – che una banca possa impossessarsi della terra dove i Joad vivevano da più di cinquant’anni come se niente fosse? Che cosa è successo? Muley – un uomo che si era accampato tra le rovine della casa abbandonata dei Joad e che si era rifiutato di fuggire in California – interpellato da Tom Joad racconta chi sono i veri responsabili di ciò che è successo. In tre minuti di emozionante flashback John Ford non solo ci fa vedere come funziona concretamente il procedimento di confisca delle terre nell’Oklahoma con grande lucidità politica, ma ci mostra anche in un distillato di fulminante chiarezza uno dei problemi più enigmatici e complessi della modernità capitalistica: come si manifesta il capitalismo? Che volto ha quando appare nelle nostre vite? Qual è la sua immagine?
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Far finta di essere buoni. Per Luca Rastello
di Girolamo De Michele
Se n’è andato per un brutto male contro cui ha lottato per anni Luca Rastello, un bravo compagno che ha fatto cose importanti come giornalista indipendente sempre dalla parte del torto, cioè la nostra, dalle guerre di Jugoslavia (La guerra in casa, 1998) alla TAV (Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è, con Andrea De Benedetti, 2012) dal narcotraffico (Io sono il mercato, 2009) ai migranti (La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, 2010) fino al marcio che si annida nelle cooperative “belle e buone” (I Buoni, 2014). L’aver sollevato, in tempi non sospetti, il velo di ipocrisia sulle cooperative onlus gli procurò censure e attacchi feroci da Maramaldi di fama. Il Povero Yorick lo ricorda con un testo pubblicato su L’Indice n. 7/8 2014 (e poi su carmilla) al quale proprio I Buoni fornisce l’acchito.
* * * * *
C’è una frase, attribuita a Italo Calvino, che Mauro affigge sulla parete dell’ufficio della Onlus “In punta di piedi” in cui lavora: Dove si fa violenza al linguaggio è già iniziata la violenza sugli umani.
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Qualche considerazione critica sull'enciclica francescana
Sebastiano Isaia
«Ciao vecchio Marx, è arrivato Francesco»: così titolava l’altro ieri l’articolo di fondo del Garantista; ovviamente il «vecchio Marx» non ha nulla a che fare, nemmeno in forma mediata, né con il giornale diretto da Piero Sansonetti, né col Papa né con i papisti di “sinistra”. Come si evince con solare chiarezza anche dai passi che seguono: «Oggi abbiamo scelto per aprire il giornale un titolo un po’ giocoso: “Ciao Marx, è arrivato Francesco”. Che però non è solo giocoso. Vogliamo dire questo: oggi il papa assume su di sé, sulla chiesa cattolica, sul mondo cattolico, il compito di dare guerra all’ingiustizia sociale, ai danni culturali e di coscienza provocati dal mercato inteso non come strumento dell’economia – da limitare, da governare attraverso la democrazia e la politica – ma come sistema di pensiero, anzi di pensiero unico, e come insieme di valori» (P. Sansonetti). Già concepire il mercato, nella sua connotazione “positiva”, «come strumento dell’economia» (capitalistica!), e non come espressione e sostanza di rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, significa affermare quella concezione feticistica e apologetica del Capitalismo contro cui Marx non smise mai di polemizzare e ironizzare. Il fatto che si continui a tirare inopinatamente la barba del comunista di Treviri per coinvolgerlo nel salvataggio del Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni, secondo la moda progressista di questi tempi, la dice lunga sulla cultura politica di ex, neo e post “comunisti”. Piuttosto, questi signori dovrebbero chiamare in causa il filosofo della miseria, quel «signor Proudhon» che «è dalla testa ai piedi filosofo ed economista della piccola borghesia» (Marx).
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Fine della rivoluzione e tramonto dell’Occidente
A chi andrà il Mandato Celeste?
Amina Crisma*
La storia dell’Occidente è stata incessantemente animata dalla capacità di immaginare e di progettare un mondo diverso dal presente, ci ricorda Paolo Prodi ne Il tramonto della rivoluzione (ed. Il Mulino 2015), ma tale capacità di visione e di progetto appare oggi perduta: quale futuro ci attende senza quella tensione trasformatrice?
1.Il tramonto della rivoluzione e il declino dell’Occidente.
“Libertà è poter immaginare un nuovo inizio”: tornano in mente le parole di Hannah Arendt, leggendo Il tramonto della rivoluzione di Paolo Prodi (Il Mulino 2015), che sarà presentato insieme all’autore da Massimo Cacciari a Bologna, allo Stabat Mater dell’Archiginnasio giovedì 18 giugno alle 17,30.
Il libro ci propone una limpida riflessione su un tema che troppo spesso viene eluso, e che invece ci riguarda tutti, e da vicino:
“Il mito della rivoluzione è finito. Ma l’Europa, l’Occidente sono nati e cresciuti come “rivoluzione permanente”, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra essere venuta meno. (…) Credo che l’innegabile declino dell’Europa non possa essere compreso soltanto sul piano geopolitico o geoeconomico (…) ma debba essere spiegato con il venir meno della capacità rivoluzionaria dell’Europa nelle sue coordinate antropologiche di fondo”.
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L’enciclica della complessità
di Pierluigi Fagan
Con l’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco, la cultura della complessità termina probabilmente la prima fase della sua vita, la fase in cui si è formata ed in cui ha cercato di affermarsi per il riconoscimento. Con questa enciclica, si può dire che tale cultura possa ritenersi affermata. L’affermazione ovviamente non significa che tale cultura è diventata la cultura di riferimento principale, né che spetti al vertice di una istituzione religiosa timbrarne il riconoscimento ma che, data l’ampiezza e la significanza sia del testo che dell’autore, ha ottenuto lo statuto di visione del mondo nel panorama culturale. Del resto, si deve riconoscere al testo papale. la coerenza di forma e contenuto. Qui, davvero si integrano le visioni ecologiche con quelle economiche, con quelle politiche e geopolitiche, con quelle scientifiche, con quelle filosofico-etiche. Poi c’è anche la teologia ma questo è uno specifico dell’autore e della sua immagine del mondo che è nel suo pieno diritto proporre.
L’enciclica è una circolare che detta la linea o meglio, l’interpretazione del mondo, alla rete vescovile della Chiesa cattolica e quindi, dato il percolare culturale dall’alto al basso, si presume dovrebbe informare il punto di vista della Chiesa nei prossimi anni. La Chiesa però, è una istituzione più plurale di quanto ami dar a vedere e quindi non si deve immaginare un rigido allineamento alla nuova impostazione. Rimane però il segno forte di una impostazione e per questa impostazione non c’è che un termine per esprimerne il concetto: complessa.
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Rimarrebbe pur sempre Spartaco
di Antonio Tricomi
Quella scattata da Guido Mazzoni con I destini generali (Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 115, € 14,00) è una fotografia della nostra epoca, e in special modo della società occidentale, autenticamente spietata perché intellettualmente onesta. Il merito principale del saggista lo potremmo infatti riassumere così: ricavare tale impietosa diagnosi in primo luogo dalla propria esperienza di scacco non già conoscitivo, ma etico-politico o, in altri termini, dalla consapevolezza di non essere legittimato a considerarsi in una qualche misura estraneo alla bancarotta della civiltà che caratterizza il presente solo perché almeno in parte formatosi sui principi – da tempo decaduti – della tradizione umanistica. Mazzoni muove cioè da un’addolorata ammissione di fisiologica correità emotiva – e, per paradosso non proprio estremo, anche culturale – con le mitologie perlopiù regressive che dominano l’età contemporanea. A parer suo, quel letterato, quel filosofo, quello storico che, in nome dell’ormai solo presunta eterodossia della propria educazione, immagini di potersi porre al di sopra o semplicemente al di fuori dell’oggi, e di riuscire a decifrarlo e magari a contrastarne le peggiori retoriche impiegando saperi o richiamandosi a valori che si ostina a credere strutturalmente irriducibili a quelli egemoni, finisce infatti col prodursi in uno sterile, tutt’al più moralistico esercizio di falsa coscienza, che gli vieta di misurarsi con un reale il cui ordito non si lascia più né cogliere criticamente, né lacerare in chiave utopistica da interpretazioni di tal genere.
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Il Capitalismo all’offensiva su tre fronti
Fabrizio Marchi
Ho appena letto questo articolo Tutte zitte se il “raptus” viene attribuito a una madre assassina?di “Eretika” (questo è il nick che utilizza da tempo e con cui è conosciuta), una “femminista critica” – definiamola così – sulla recente sentenza che ha di fatto assolto la madre di Lecco che aveva assassinato le sue tre figlie.
Eretika ha assunto da tempo posizioni sicuramente coraggiose, molti dei suoi articoli sono apprezzabili e condivisibili, per lo meno in parte, e in un’ occasione in cui fu duramente attaccata da alcune sue ex compagne ed ex compagni, presi anche pubblicamente le sue parti, esprimendole la mia solidarietà.
Tuttavia non riesce (non vuole? non può?…) a fare il salto definitivo (e anche il più coerente…), cioè a fuoriuscire dall’ideologia femminista che pure ha sottoposto ad una critica molto severa. Ma questo è eventualmente un suo problema. L’ articolo in ogni caso ha avuto il merito di sollecitarmi ad una riflessione più ampia e la ringrazio per questo.
Per lei l’attuale contesto sociale sarebbe tuttora dominato dalla cultura maschilista e patriarcale, e anche quest’ultimo articolo lo conferma. E’ ovvio che dal mio punto di vista è un’analisi a dir poco obsoleta, perché l’attuale sistema capitalistico tutto può essere e tutto è tranne certamente che maschilista e patriarcale.
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Benjamin sul confine tra lavoro e amore
Fabrizio Denunzio
Il testo di Maurice de Gandillac [pubblicato in calce a questa nota] costituisce il primo confronto della filosofia francese con l’autore dei «Passages». Emergono temi che lo collocano nel solco della riflessione contemporanea sulla società del rischio
La ricezione francese dell’opera di Walter Benjamin si lega alla prima traduzione che ne fece Maurice de Gondillac nel 1959 per conto dell’editore Juillard. Come quella italiana – l’epocale Angelus Novus del 1962 curata da Renato Solmi – anche l’edizione di de Gandillac si basava su una scelta dei saggi benjaminiani più importanti che Theodor W. Adorno aveva raccolto e pubblicato con Suhrkamp di Francoforte nei due volumi che portavano come titolo lapidario Schriften. Molto più dell’Italia, la Francia era quasi naturalmente predisposta ad accogliere un’operazione editoriale di questo tipo, non solo perché Parigi era stata luogo di asilo, sebbene non troppo ospitale, di Benjamin, non solo perché questi ne aveva amato e promosso la letteratura, ma anche perché, pensando soprattutto alle tormentate vicende editoriali dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ne aveva frequentato alcuni dei protagonisti: Raymond Aron, il grande sociologo direttore della sede parigina dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, sulla cui rivista vide la luce la prima versione del saggio; Pierre Klossowski, non solo traduttore di quest’ultimo, ma anche membro di quel Collegio di Sociologia di cui facevano parte Georges Bataille e Roger Caillois, ad alcune delle cui riunioni Benjamin era stato ammesso.
Il breve saggio che presentiamo alle lettrici e ai lettori de «il manifesto», qui tradotto per la prima volta in italiano, è il testo dell’intervento che de Gandillac tenne nel corso dell’importante convegno internazionale svoltosi a Parigi dal 27 al 29 giugno del 1983 e dedicato, non a caso, a «Walter Benjamin et Paris», i cui atti nel 1987 furono pubblicati dai tipi di Cerf.
Sono due i motivi d’interesse che spingono a pubblicare questo intervento: l’autore e l’interpretazione che dà della vita e dell’opera di Benjamin. Sebbene in Italia di de Gandillac non sia stato pubblicato nulla, il suo nome si lega a quello – questo sì molto più noto nei nostri ambienti culturali – di Gilles Deleuze. Esperto di filosofia antica e medioevale, de Gandillac fu direttore di tesi di Deleuze, di quella grande ricerca che conosciamo come Differenza e ripetizione.
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