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Beni comuni. Un diritto alla libertà oltre lo stato e il mercato

Ugo Mattei   

La modernità ha creato le condizioni affinché solo la sovranità nazionale o l'attività delle imprese private potessero gestire al meglio aria, acqua, terra, energia e conoscenza. Una visione meccanicista che nega il fatto che si tratta di diritti e bisogni individuali il cui riconoscimento e affermazione deve vedere la diretta gestione da parte della collettività

I bisogni di bene comune non producono profitti se il diritto non li rende artificialmente capaci di tali profitti. Infatti il bene comune offre servizi dati per scontati da chi ne beneficia e il suo valore si misura soltanto in termini di sostituzione quando esso non c'è più.

In un certo senso i servizi essenziali resi dai beni comuni sono simili al lavoro domestico che si nota solo quando non viene fatto. Per esempio, i servizi che le mangrovie o la barriera corallina offrono agli abitanti della costa non sono «apprezzati» perché spesso non sono neppure noti ai loro fruitori: in questo senso i desideri che essi soddisfano non sono «paganti». Quando gli italiani distrussero la barriera corallina in Somalia per consentire alle grandi navi da trasporto di attraccare a Mogadiscio per portar via il bottino coloniale, aprirono un varco per gli squali attratti in frotte dal sangue scaricato in mare dal locale macello. La spiaggia di Mogadiscio divenne uno dei posti più pericolosi del mondo per la balneazione. Per ricreare una barriera capace di trattenere gli squali lontano dalla riva ci vorrebbero moltissimi soldi e moltissima tecnologia. Solo nel momento della sostituzione si può avere un'idea (ancorché molto riduttiva e approssimativa) del valore del bene comune. Discorso analogo vale per le mangrovie, distrutte in gran parte per allevare i famigerati gamberetti: esse svolgevano un servizio inestimnabile per proteggere i villaggi della costa dalle onde di tsunami.

Quanto costerebbe costruire artificialmente una simile barriera? La consapevolezza per il valore dei beni comuni può essere creata soltanto attravereso uno specifico investimento sul fronte della domanda lavorando sulla consapevolezza del nostro rapporto con il contesto in cui essi producono il loro servizi.


Nell'arena del marketing


I beni comuni sono entità di cui sussiste un bisogno pubblico e privato che non è pagante a causa di tale mancanza della consapevolezza. Proprio l'opposto della maggior parte delle merci prodotte dal capitalismo attuale di cui non susssiste alcun bisogno reale né pubblico né privato. Che bisogno c'è di un modello di automobili esteticamente diverso, di scarpe griffate, o dell'ennesimo telefonino? Di questi beni il bisogno pubblico sussiste soltanto nella misura in cui si accetti un'idea di crescita e di sviluppo totalmente quantitativa (produrre per produrre) ormai evidentemente insostenibile (proprio perché devastatrice dei beni comuni). Il bisogno privato degli stessi viene creato (inventato) lavorando sulla domanda attraverso uno specifico massiccio investimento anche culturale noto come marketing.

Il marketing infatti è volto a produrre desideri paganti volti all'accumulo o al consumo di beni privati socialmente inutili o dannosi sovente inventandone l'utilità proprio ai danni di beni comuni (si pensi alla pubblicità per l'acqua minerale che fa restar giovani e belli). Il marketing per lo svilupopo del settore pubblico, peraltro reso indispensabile alla stessa ipertrofia del settore privato (ad esempio le costruzioni di strade e i parcheggi per consentire la vendita di automobili) viene indicato dispregiativamente come propaganda.

Il superamento dell'atteggiamento riduzionista proprio dell'equazione fra settore pubblico e Stato offre prospettive non banali. Infatti, il noto ragionamento di Kenneth Galbraith secondo cui la crescita del settore privato (determinata dal marketing) rende necessaria una corrispondente crescita del pubblico (che avviene in modo insufficiente per mancanza di marketing) sconta la fondamentale analogia strutturale fra privato e pubblico interpretati con i tradizionali archetipi di proprietà privata e sovranità statale. La struttura fondamentale di entrambi questi archetipi è infatti il dominio gerarchicamente strutturato del soggetto (persona fisica o giuridica Stato persona) sull oggetto (bene privato territorio). L'opposizione riduzionista a somma zero fra pubblico e privato (più stato=meno mercato; più mercato=meno stato) è tuttavia culturale e politica piuttosto che strutturale perché «inventa» un'opposizione fra pubblico e privato che dal punto di vista strutturale non esiste. In effetti questa falsa opposizione fra due entità che condividono la stessa struttura di dominio esclusivo si colloca pienamente all'interno della logica riduzionista, individualizzante e soprattutto quantitativa propria del paradigma della modernità occidentale.


L'afasia dei riduzionisti


Il marketing del pubblico gerarchico e burocratico è in effetti propaganda nella misura in cui (come quello del privato) non introduce alcun aspetto relazionale (o dialogico) capace di produrre trasformazione qualitativa (sviluppo del capitale sociale?) del significante e del ricettore ma emette segnali solipsistici volti a stimolare una domanda di consumo in un soggetto passivo.

In realtà l'opposizione strutturale autentica è quella fra la logica riduzionistica e meccanicistica della modernità condivisa da proprietà privata e Stato e quella fenomenologica, relazionale, partecipativa e critica propria del «comune». Soltanto quest'ultima logica supera il riduzionismo cartesiano soggetto-oggetto ed il conseguente delirio storico della modernità che ha portato l'umano (soggetto astratto) a collocarsi al di fuori della natura, autoproclamandosi suo dominus. In questo diverso quadro, la consapevolezza del bene comune (e la conseguente trasformazione motivazionale del soggetto) non può essere prodotta dal marketing ma al contrario deve passare attraverso la logica dialettica del sapere critico. In altre parole, per raggiungere la consapevolezza del bene comune occorre una trasformazione del soggetto, una rivoluzione nei suoi apparati motivazionali, una visione del mondo autenticamente rivoluzionaria. Mentre la logica del marketing (o della propaganda) produce motivazioni allineate alla produzione di ideologia dominante riduttivista e incentrata sullo status quo, quella del sapere critico di base produce la trasformazione qualitativa essenziale per la stessa percezione dei beni comuni.


Tra natura e cultura


In definitiva l'investimento necessario per creare domanda di beni comuni (prima di tutto la percezione della loro esistenza e vulnerabilità) si chiama cultura critica ed è a sua volta un bene comune. È cioè la stessa contrapposizione strutturale soggettooggetto che deve smettere di fare i suoi danni epocali perchè ad essa è seguita, inevitabilmente, la mercificazione di entrambi. Il bene comune, a differenza del bene privato (cose) e di quello pubblico (demanio, patrimonio della Stato) non è un oggetto meccanico e non è riducibile in merce. Il bene comune è una relazione qualitativa. Noi non «abbiamo» un bene comune (un ecosistema, dell'acqua) ma in gran misura «siamo» il bene comune (siamo acqua, siamo parte di un ecosistema urbano o rurale). Ecco perché alcune delle tassonomie che cominciano ad emergere sui beni comuni quali per esempio quella fra beni comuni naturali (ambiente, acqua, aria pura) e beni comuni sociali (beni culturali, memoria storica, sapere) devono essere oggetto di riflesione critica approfondita e vanno maneggiate con consapevolezza. Esse veicolano in qualche modo la vecchia logica meccanicistica della separazione fra soggetto ed oggetto che rischia di produrre mercificazione. I beni comuni, la loro stessa percezione e la loro difesa passa necessariamente attraverso una piena posa in opera politica della rivoluzione epistemologica prodotta dalla fenomenologia e dalla sua critica dell'oggettività. Il soggetto è parte dell'oggetto (e viceversa). È per questo che i beni comuni sono legati inscindibilmente ai diritti fondamentalissimi, della persona, del gruppo, dell'ecosistema, della natura e in ultimo del pianeta vivo.

E arriviamo così ad un riepilogo sulla vera rivoluzione culturale necessaria per la declinazione del comune come categoria del politico e del giuridico. La separazione riduzionista fra soggetto ed oggetto tipica della tradizione cartesiana (e scientistica da Galileo in avanti) ha strutturato la filosofia dell'«avere» alle cui radici stanno gli appetiti acquisitivi primordiali che spiegano le origini ed il succeso storico della proprietà privata individuale e dello stato sovrano territoriale. Tanto la struttura del giuridico quanto quella del politico istituzionalizzano la logica dell'avere che è poi quella della concentrazione del potere. Esse hanno strutturato istituzionalmente l'idea dell'umano separato dal naturale e di una oggettiva res extensa separata dalla res cogitans: in altre parole di una realtà oggettiva separata dal suo interprete. È noto come la fenomenologia contesti radicalmente questi presupposti ma come tale critica non abbia ancora trovato una declinazione istituzionale. La cultura giuridica non è riuscita a proporre quindi assetti giuridici alternativi a quelli della modernità, rappresentati dal «regime di legalità» (rule of law) ossia dall'illusione che si possa essere governati da leggi (oggettive e ontologicamente esistenti di per sé) e non da uomini che comunque le interpretano introducendo l'inevitabile componente soggettiva.


Una relazione negata


Il comune è invece nozione che può comprendersi solo in autentica chiave fenomenologica ed olistica ed è quindi incompartibile con la logica riduzionistica dell'avere (e del potere). Si può rendere quest'idea con la locuzione «il comune siamo anche noi». Il comune non è solo un oggetto (un corso d'acqua, una foresta, un ghiacciaio) ma è anche una categoria dell'essere, del rispetto, dell'inclusione e della qualità. È una categoria relazionale fatta di rapporti fra individui, comunità, contesti ed ambiente. In altri termini il comune è categoria ecologica-qualitativa e non economico-quantitativa come proprietà e sovranità statale. Per questo il comune non è riducibile ad un diritto (categoria dell'avere: io ho un diritto) ma si collega inscindibilmente con la possibilità effettiva di soddisfazione di diritti fondamentali che è ad un tempo esperienza di soddisfazione soggettiva e di partecipazione oggettiva alla comunità ecologica. Nella logica del comune scopaiono le barriere fra soggetto ed oggetto e anche quelle fra natura e cultura. Un ambiente visto come bene comune non è un' entità statica ma è allo stesso tempo natura e cultura, fenomeno globale e locale, tradizione e futuro. In una parola il comune è civiltà: proprio come l' acqua che stiamo difendendo dalla primordiale logica del potere, della predazione e del saccheggio di cui invece si nutre il capitale.

Scaffale
Uno statuto giuridico
ancora tutto da sviluppare

Il presente scritto fa parte del volume La Società dei beni comuni a cura di Paolo Cacciari [edito da Ediesse e Carta], che sta per arrivare in edicola e che contiene numerosi importanti interventi. Una prima posa in opera del «bene comune» come genere alternativo rispetto alla proprietà privata e a quella pubblica si ritrova nei lavori della cosiddetta «Commisione Rodotà». Si vedano: Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica (a cura di U. Mattei, E. Reviglio e S.Rodotà, Il Mulino), I Beni pubblici. Dal governo democratico dell'economia alla riforma del codice civile (materiali editi dalla Academia Nazionale dei Lincei). Per un inquadramento ampio della tematica: Privato Pubblico Comune. Lezioni dalla Crisi Globale (volume collettivo curato da Laura Pennacchi per Ediesse). Infine, va segnalato l'importante contributo storico-comparativo di Filippo Valguarnera Accesso alla Natura fra ideologia e diritto (Giappichelli).

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