L’Italia e l’Unione Europea alla prova del Coronavirus
di Salvatore Perri
La pandemia causata dal Covid-19, oltre alle perdite umane, provocherà un tracollo economico difficilmente quantificabile in valore ed in durata. Il declino produttivo, il pesante debito pubblico, le disuguaglianze economiche, rendono l’Italia sempre più dipendente dalle scelte che saranno compiute in sede europea. Gli interventi per salvare l’Italia, e l’Europa, dovranno avere necessariamente due caratteristiche: dovranno mobilitare risorse a lungo termine per gli investimenti e dovranno essere sostenibili politicamente anche per i paesi del nord Europa alle prese con pulsioni sovraniste. Non può essere più rinviata la questione di una figura Europea politicamente forte, con poteri e budget, in grado di concordare con la BCE interventi in una prospettiva decennale di reale integrazione sistemica.
Il Coronavirus e l’Economia Italiana
L’Italia affronta la crisi del coronavirus da una posizione di estrema debolezza. Il sistema produttivo non aveva ancora recuperato dagli effetti negativi della crisi finanziaria globale del 2007, il debito pubblico ha continuato la sua corsa, la produttività è stagnante e non ci sono segnali di convergenza interna dal punto di vista territoriale, e inoltre, si stanno consolidando differenze stratificate anche all’interno del mondo del lavoro con la crescita dei c.d. working poors[1] (Dell’Arringa, 2019). La contrazione economica ed il blocco della produzione di molte merci potrebbe accentuare anche dinamiche negative ben note, dalle delocalizzazioni industriali alle esterovestizioni societarie[2], perché è inevitabile che le aziende tentino di ridurre le perdite con ogni mezzo consentito.
In questo contesto le questioni relative al debito pubblico, ed al suo collegamento con il settore bancario privato, rendono la “questione italiana” esplosiva per l’intera Unione.
Gli strumenti possibili e la loro efficacia
Allo stato attuale, data la gravità della situazione e la prospettiva che l’epidemia del Covid-19 possa cogliere tutti i paesi europei, sono state prese decisioni importanti. Se si esclude l’infelice uscita iniziale della Lagarde[3], la BCE ha messo in campo strumenti e risorse impronosticabili fino a due mesi fa. Il nuovo programma PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program), prosecuzione del Quantitative Easing, utilizzerà 750 Mld e durerà almeno fino fine dell’anno. In questa fase la BCE utilizzerà questo strumento con maggiore flessibilità: non dovrà rispettare il limite del 33% per i titoli di stato, potrà acquistare titoli della Grecia, e soprattutto, acquisterà anche titoli a breve termine, cosa che ha di fatto congelato la fiammata dello spread italiano dimezzandolo in un solo giorno.
Inoltre sono stati rinnovati i programmi di rifinanziamento a lungo termine nei confronti delle banche private (TLTRO) che dovrebbero garantire liquidità sufficiente agli istituti di credito per il rilancio dell’attività economica post-pandemia.
Sul piano politico la situazione invece è in stallo, all’interno del Consiglio si ripropone l’ormai storica spaccatura fra paesi “rigoristi” e quelli maggiormente vulnerabili economicamente. L’applicazione dei vincoli contenuti nel Patto di Stabilità e Crescita è stata sospesa, mentre sul tavolo, finora senza accordo, c’è la proposta di un’emissione di debito comune, il “CoronaBond”, da utilizzare per reperire risorse a basso costo sui mercati finanziari nella fase emergenziale.
Queste risposte, ammesso che vengano implementate tutte ed insieme, sono sufficienti nel perseguire gli obiettivi di rilancio post crisi in una prospettiva di lungo periodo? La risposta non sembra essere positiva.
Gli interventi di rifinanziamento bancario, in fase di recessione, non si sono rivelati in passato efficaci nel rilanciare l’economia italiana. Le basse aspettative sui profitti hanno finito per convogliare i flussi finanziari, destinati a cittadini ed imprese, verso i titoli del debito pubblico a maggior rendimento, creando una circolazione finanziaria che non ha avuto ricadute di carattere reale[4].
Ne dovrebbe entusiasmare troppo la rimozione temporanea dei vincoli di spesa pubblica implicita nella sospensione del PSC, vincoli sospesi temporaneamente, questo vuol dire che l’aumento del deficit si concretizzerà in un aumento del debito, e data la caduta prevista del PIL, in un’impennata del rapporto debito/PIL che sarà strutturalmente ad un livello più alto. Il nuovo programma di acquisti PEPP dovrebbe garantire la sostenibilità del Debito in termini di interessi passivi sui mercati, ma anche questi sono programmi che hanno una loro scadenza.
Stesso ragionamento è applicabile ai “CoronaBonds” che vincolati ad un unico utilizzo emergenziale finirebbero per essere di natura transitoria. L’Italia quindi, in uno scenario post-pandemia potrebbe ritrovarsi in piena recessione ed un debito pubblico fuori controllo, perché allo stato attuale nessuna delle decisioni assunte da BCE e Consiglio è di carattere permanente.
Il problema politico e gli interventi necessari
Il Consiglio Europeo rappresenta i governi e la spaccatura all’interno di esso rappresenta il vero problema politico. Il freno posto da Olanda e Germania ad ogni forma di mutualizzazione del debito o di centralizzazione dei bilanci, è basato sul fatto che si tratterebbe di trasferire risorse che poi ogni stato potrebbe spendere in modo arbitrario, visto che non esiste nessun coordinamento di politica fiscale fra gli stati. Né tantomeno esiste una figura politica di coordinamento in grado di concertare azioni con la BCE, visto che l’Unione non ha risorse proprie da investire in politiche fiscali espansive[5].
La mutualizzazione del debito è stata da sempre osteggiata in quanto vista dai paesi “virtuosi” come un trasferimento permanente verso i paesi ad alto debito incapaci di contenere ed efficientare la spesa pubblica[6]. Mentre un maggiore trasferimento di risorse dagli stati verso l’Unione è osteggiato quasi unanimemente, ed è stato uno degli argomenti forti nella campagna elettorale sulla Brexit (Perri, 2019b), e dei partiti sovranisti in generale (Perri, 2019a).
Esistono, tuttavia, delle proposte diverse e concrete per rilanciare l’Unione come progetto sociale ed economico. Una soluzione efficace sarebbe quella di proporre un’emissione di Eurobond che siano finalizzati, non alla singola emergenza, bensì a garantire un adeguato livello di investimenti in tutti gli stati membri, dato che è stato proprio il crollo degli investimenti pubblici a provocare il declino, non solo italiano (Della Posta, Marelli e Signorelli, 2019; Realfonzo, 2019).
Queste emissioni potrebbero essere garantite attraverso la Banca Europea degli Investimenti (BEI)[7] come suggerito da Paolo Cardenà, piuttosto che dal Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Il ricorso al MES, sia nella versione in vigore sia nella proposta di riforma che viene discussa attualmente[8], prevede che il paese richiedente affronti l’ormai consolidato percorso di riforme neoclassiche fatte di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, e rafforzamento dei requisiti patrimoniali delle banche. Tutte manovre che si sono già rivelate nel tempo ampliamente recessive per i paesi che vi hanno fatto ricorso (Portogallo, Cipro, Grecia, Spagna e Irlanda). Ricorrere al MES seppur privato delle condizionalità relative[9], rappresenterebbe comunque un pessimo segnale verso i mercati, in quanto la sua funzione era destinata all’intervento emergenziale in caso di crisi finanziaria di uno stato o per la ricapitalizzazione indiretta del settore bancario. Di conseguenza si parla di uno strumento di carattere eccezionale, collegarlo alla garanzia su titoli di debito comune segnalerebbe ai mercati che siano forme di finanziamento necessarie ad un solo stato e non a tutti, con un potenziale effetto di divaricazione dei tassi di interesse sui titoli emessi dai singoli stati.
Altri strumenti sono stati proposti, come ad esempio l’utilizzo di crediti non rimborsabili, da parte della BCE ai singoli stati (Daniele, 2020), oppure l’utilizzo di certificati di credito fiscale utilizzabili all’interno dei singoli paesi[10].
L’insieme delle proposte, tuttavia, finisce per scontrarsi con un problema di fondo, l’utilizzo di uno strumento piuttosto che di un altro non può essere fatto in modo discrezionale, stando alle regole dei trattati[11].
Se si conviene a livello europeo che l’eccezionalità della crisi necessiti di risposte adeguate, è urgente che venga nominata una figura politica che sia in grado di coordinare gli interventi e soprattutto di poter dialogare con la BCE al fine far pervenire le risorse aggiuntive all’economia reale. Un ministro delle finanze Europeo che possa rilanciare un processo di convergenza reale delle strutture economiche interne agli stati.
Il passaggio politico è fondamentale, in quanto, se si richiedesse ai soli paesi del Nord Europa di venir meno ai loro principi si potrebbe determinare in tutti questi paesi il rafforzamento di movimenti sovranisti ed euroscettici.
L’attuale assetto dell’Unione finisce per rappresentare una politica spaccata ed un solo organismo Europeo, la BCE, che tuttavia non può prendere decisioni discrezionali dal punto di vista politico. Ed è proprio in questo senso che potrebbero essere interpretate le ultime dichiarazioni di Mario Draghi[12].
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