Il Soggettivismo, Spauracchio Dei Filosofi
di Norberto Fragiacomo
Un inquietante fantasma dicono si aggiri per i corridoi dei dipartimenti di filosofia: cattedratici e studenti sbiancano dinanzi alla prospettiva di imbattersi in esso, poiché un incontro fortuito potrebbe comprometterne reputazione, credibilità e carriera.
Mi riferisco al solipsismo (noto anche come idealismo soggettivo, soggettivismo o egoismo), figlio illegittimo e mai riconosciuto della filosofia europea moderna. A questo “ismo” negletto dedicai una decina di anni fa uno scrittarello (scherzosamente) apologetico1, cercando di restituirgli un po’ di dignità; oggi vorrei occuparmi brevemente della sua genesi e dei motivi per cui è reputato una bizzarria sconveniente, se non addirittura blasfema.
Nel pensiero antico – ce lo insegna Emanuele Severino – i concetti di certezza e verità sono sovrapponibili, nel senso che la mente umana è idonea perlomeno in astratto a cogliere la realtà ultima delle cose, a “conoscere il vero”. Soggetto e oggetto-mondo esistono a priori e parallelamente, compito del primo è investigare il secondo e comprenderne il significato.
È appena nel XVII secolo che, con Cartesio, si determina una frattura: per il filosofo francese l’indagine non può partire da un’ipotetica sostanza esterna, che potrebbe avere natura illusoria, ma deve prendere avvio da quel dato indiscutibile che è il nostro pensiero. Anziché ricorrere al modo infinito egli coniuga il verbo alla prima persona singolare: cogito ergo sum, penso dunque sono. È quindi il signor Descartes che, pensandolo, crea l’universo? Niente affatto, perché il transalpino non è certo un eretico, bensì un buon cristiano, e la sua è soltanto una premessa metodologica: è grazie alla mediazione del Dio creatore – un autentico deus ex machina! – che la materia riacquista la concretezza e la tangibilità di cui dapprincipio si dubitava. Può sembrare singolare allo studente di oggi che per dimostrare la sussistenza di qualcosa che tocchiamo quotidianamente con mano si ricorra a un’astrazione o – per dirla con Pascal – a una scommessa, ma dobbiamo tener conto che la secolarizzazione postmoderna ha inciso in profondità sul comune sentire degli esseri umani e sulla loro propensione a credere in determinati fenomeni soprannaturali.
Permane il fatto che, nella visione cartesiana, il processo conoscitivo ha inizio con un quesito che il soggetto, cioè l’individuo, pone a se stesso: il c.d. mondo reale, racchiuso tra parentesi, riapparirà solo in un secondo momento, per grazia ricevuta.
Il primo passo è stato compiuto e non si torna più indietro. Nel ‘700 l’angloirlandese George Berkeley s’inoltra in un territorio inesplorato: secondo lui, convinto nominalista, le idee generali e astratte di cui facciamo uso (quella di mela, ad esempio) sono concetti vuoti, poiché le nostre esperienze sono riferibili esclusivamente a singole “cose” che non esistono tuttavia al di fuori della nostra mente. Queste idee, peraltro più realistiche e coerenti fra loro di quelle frutto dell’immaginazione, sono impresse nell’anima umana da uno Spirito superiore, quello di Dio onnipotente. Se per il contemporaneo David Hume ciò che ci circonda è un quid inconoscibile (sempre ammesso che le sensazioni non ci ingannino), per Berkeley ci dimeniamo all’interno di un ologramma prodotto da una divinità imperscrutabile e noi stessi siamo nient’altro che spiriti. Possiamo allora essere certi dell’esistenza di altri esseri a noi affini? Se il cane che mi abbaia contro è un’idea non potrebbero esserlo pure la vicina di casa e il capoufficio intrattabile? Berkeley pare non porsi la questione, anche perché il potere di Dio è incondizionato e non si vede per quale ragione Egli dovrebbe limitare la propria creatività; curioso però che un pio vescovo contraddica nei fatti la Genesi, facendo riposare il suo Signore durante i primi cinque giorni e per buona parte del sesto. Si osservi che l’immaterialismo berkeleyano – una teoria che all’epoca non suscitò duraturo interesse – ha ispirato di recente registi e scrittori che, messo da parte il buon Dio, hanno dato vita a “incubi riusciti” (la serie Matrix, lo straniante Il mondo di Sofia).
Né Descartes né Berkeley sono quindi dei solipsisti (a esserlo, nella visione del secondo, è semmai l’Onnipotente), ma a quest’eresia filosofica essi preparano involontariamente il terreno, smaterializzando quello su cui il senso comune è persuaso di poggiare i piedi.
Il lascito cartesiano e quello di Hume, illuminista scettico, sono valorizzati da Immanuel Kant, forse il più fecondo pensatore degli ultimi secoli. Il “grande oltremontano” nativo di Königsberg non nega la realtà della cosa in sé (l’universo e tutto ciò che esso contiene), ma afferma che la sua essenza si sottrae completamente alla nostra capacità di osservazione, è pensabile ma non conoscibile; quello che possiamo esplorare è il fenomeno, vale a dire l’aspetto, la modalità in cui l’inafferrabile si presenta ai nostri sensi e al nostro intelletto, programmati per funzionare in una certa maniera (servendosi delle categorie innate di spazio, forma, tempo, causalità ecc.). Solamente alla ragione umana sembra aprirsi un pertugio che le consente di gettare uno sguardo fuggevole sul noumeno, recependo una serie di regole di condotta assolutamente valide che coincidono con l’imperativo categorico. Il soggetto kantiano non è un’entità impersonale, ma ogni singolo uomo vissuto dall’inizio dei tempi: qualsiasi interpretazione di questa dottrina in senso solipsistico sarebbe quindi gratuita e fuorviante.
I grandi maestri hanno quasi sempre emuli e seguaci che, specialmente se brillanti, si propongono di superarli. Johann Gottlieb Fichte si considera il continuatore di Kant e s’intestardisce a “completarne” l’opera: infastidito dalla presenza della sfuggente e misteriosa “cosa in sé” decide di liberarsene e, sulle orme di Descartes, riassegna il primato al soggetto. Fichte non si accontenta di un verbo, optando per il pronome personale Ich, che in tedesco significa Io. L’utilizzo della lettera maiuscola è illuminante, perché dalla lettura (oltremodo faticosa) della Dottrina della scienza emerge con sufficiente chiarezza che l’Io fichtiano è sovraindividuale e coincide con l’umanità passata, presente e futura, non certo con Tizio, Caio o Johann. Nelle stesure più tarde il tedesco, che peraltro aveva esordito come teologo, annacqua e depotenzia la sua proposta filosofica appellandosi a Dio, ma nell’interessante versione iniziale ritroviamo un Io che prima pone se stesso, indi si contrappone un Non Io (il mondo c.d. reale), infine – ma tutto avviene contemporaneamente – limita sé e la propria negazione frantumando (rectius: dividendo) Io e Non Io in una molteplicità di enti individuali. È nella risultante pluralità di io empirici (=uomini mortali in carne e ossa) che si realizza il fenomeno dell’autocoscienza, ed è tramite lo sforzo inesausto di oltrepassare gli ostacoli opposti dalla realtà a sua volta empirica che lo spirito umano si innalza progressivamente verso l’infinito2.
Malgrado questi dati di fatto (e a causa di un’innegabile oscurità espositiva) il fondatore dell’Idealismo incappò nell’accusa di soggettivismo, da lui fermamente respinta (v. infra) – un’accusa che nessuno si sognò di rivolgere al più celebre Hegel, autore di un sistema filosofico astrattamente perfetto nell’ambito del quale il Dio cristiano si “laicizza”, vedendosi ribattezzare Spirito, e l’obbedienza nei confronti dell’autorità diventa un imperativo dettato dalla Ragione (di Stato). A parer mio Karl Marx deve molto più a Fichte che a Hegel, ma questo è un altro discorso.
Edmund Husserl, forse l’ultimo ideatore di un sistema filosofico, prende spunto dal cogito cartesiano, ma lo radicalizza: a fondamento del tutto sta non il soggetto pensante, bensì un pensiero spersonalizzato. Nell’opera Fenomenologia e teoria della conoscenza l’autore sembra scivolare nel soggettivismo quando scrive3: “Tutto si svolge comunque nel mio io e nella mia coscienza; nella sua immanenza io decido non solo del mondo intero, ma anche dell’essere e non essere degli altri soggetti e della conoscenza altrui, come pure della produzione a opera dell’umanità di una scienza comune e di una comune conoscenza oggettiva del mondo. A una riflessione radicale dunque persino il mondo degli esseri umani costituito intersoggettivamente si costituisce in realtà per me attraverso le pure connessioni della mia coscienza” – nel prosieguo, tuttavia, Husserl tiene a precisare (a pag. 2274) che “interpretazioni di questo tipo (…) in verità sono tutte accomunate dall’assenza di domande veramente chiare e determinate, razionali” e che “l’io e la coscienza costituenti non sono il mio io e la mia coscienza, l’io e la coscienza dell’essere umano che conosce”.
L’infamante sospetto di solipsismo va fugato. Nel Saggio di una nuova esposizione della Dottrina della scienza Fichte si difende appassionatamente da numerose critiche, e con riguardo alla questione da noi trattata afferma: “Anche nei filosofi sopra lodati, come Kant e la dottrina della scienza, che non presuppongono l’Io al molteplice della rappresentazione, ma lo costituiscono a partire da esso, la loro unità pensante nel pensiero molteplice è soltanto l’individuo, o non piuttosto l’intelligenza in generale? In altre parole: c’è qualche filosofo di nome che prima di loro abbia fatto la scoperta che Io significa solo l’individuo, e se si prescinde dall’individualità, allora rimane solo un oggetto in generale?” Ancora: “In breve, egoità e individualità sono concetti assai diversi (…) col primo noi ci contrapponiamo a tutto ciò che è al di fuori di noi, non solamente alle persone al di fuori di noi, e comprendiamo in esso non solo la nostra determinata personalità, ma la nostra spiritualità in generale”. Chiaro, anche se solo fino a un certo punto…
La più violenta (e almeno in apparenza efficace) confutazione del solipsismo la ritroviamo però nell’insospettabile Schopenhauer, accanito avversario dell’idealismo alla moda: “(…) altrimenti l’individuo conoscente deve supporre che questo unico oggetto (=il proprio corpo ndr) essenzialmente diverso da tutti gli altri, che unico fra tutti è volontà e rappresentazione al tempo stesso, mentre gli altri oggetti sono semplici rappresentazioni, cioè puri fantasmi; che il suo corpo dunque è l’unico individuo reale a questo mondo, vale a dire l’unico fenomeno della volontà e l’unico oggetto immediato del soggetto (…) L’egoismo teoretico, che proprio per questo considera fantasmi tutti i fenomeni eccetto il proprio individuo (…) non si può mai contestare per mezzo di prove; ciononostante, esso non è mai stato attendibilmente usato in filosofia altrimenti che come sofisma scettico, cioè pro forma. Come seria convinzione, invece, lo si potrebbe trovare in manicomio (…) guarderemo a quell’argomento scettico dell’egoismo teorico, a noi qui contrapposto, come ad una piccola fortezza di confine, che è perennemente inespugnabile, ma la cui guarnigione non ne è mai uscita; perciò si può passarle accanto e lasciarla alle spalle5”. Merita rilevare che nella sua opera principale il pensatore di Danzica si sofferma sulla distinzione tra realtà e sogno (par. 5), mostrandosi insoddisfatto della spiegazione offerta da Kant secondo la quale “la vita ha in sé una connessione generale secondo il principio di causalità, non però con i sogni brevi, benché ognuno di questi abbia in sé la stessa connessione”. A parte il fatto che l’ultimo assunto è facilmente contestabile – poiché nei sogni il nesso tra causa ed effetto è del tutto episodico, visto che situazioni, personaggi ecc. mutano freneticamente e spesso manca una “trama” riconoscibile6 – la distinzione cadrebbe completamente se fosse possibile (con un’apposita macchina o con l’ipnosi) produrre dei sogni coerenti da vivere notte dopo notte, cioè “a puntate”, o anche in un singolo istante fuori dal tempo7. Pur avendo definito la vita reale “una lettura coerente”, Schopenhauer finisce per svalutare l’alterità fra veglia e sogno: è forse la consapevolezza di aver osato l’inosabile a suggerirgli di sviare l’attenzione dei critici indicando loro un falso, ma comodo bersaglio.
Non è ozioso a questo punto domandarsi quali siano le motivazioni sostanziali di un rifiuto così reciso e sprezzante dell’impostazione che definiamo solipsistica. L’interpretazione “manicomiale” avanzata da Schopenhauer va rigettata perché fa di tutta l’erba un fascio, confondendo artatamente i deliri di qualche esaltato con elucubrazioni magari stravaganti, ma non meno di altre meritevoli di discussione. Non va peraltro dimenticato che talora lo spirito umano esorcizza con l’irrisione ciò di cui ha un segreto timore.
Ad avviso di chi scrive varie sono le ragioni della ripulsa, alcune di natura (per così dire) sociale, altre di carattere psicologico. In primo luogo, la pretesa di essere soli al mondo (anzi: di essere il mondo) può esporre al biasimo e al dileggio degli altri membri della comunità in cui il solipsista è – volente o nolente – inserito: egli potrebbe consolarsi negando l’esistenza di costoro, ma l’escamotage può funzionare solo finché non si avverte il bisogno di un aiuto esterno, o più banalmente di un consiglio o di una buona parola. A nessuno piacerebbe comunque passare per “lo scemo del villaggio” e incorrere nello stigma sociale. Immaginiamo però che il soggettivismo si diffonda e “contagi” un gran numero di individui: un’inevitabile conseguenza sarebbe l’allentamento dei legami comunitari, e dunque l’affermarsi di un utilitarismo spinto, il sovrano disprezzo per le esigenze altrui, il venir meno di qualsiasi forma di solidarietà ed empatia nei confronti del prossimo. La società precipiterebbe in una crisi irreversibile, disintegrandosi, e si imporrebbe la legge hobbesiana: homo homini lupus (occorre dire che ad analoghi risultati sta approdando il neoliberismo occidentale, che pure non incentiva la riflessione filosofica né la lettura). C’è infine un freno di matrice psicologica: l’esaltazione derivante dal sentirsi un dio cederebbe ben presto il passo a un opprimente senso di solitudine e d’inutilità e ogni esperienza perderebbe sapore; inoltre il peso e la responsabilità di un intero universo, sia pure virtuale, sono eccessivamente gravosi per il singolo, meglio spartirli con un’infinità di altre coscienze affini.
È tempo di capire se la descritta posizione filosofica, oltre che inattaccabile (“inespugnabile” a detta di Schopenhauer), sia più o meno sostenibile di altre teorie opposte al materialismo8.
Il discorso apologetico di Fichte si fonda su due argomenti: il primo è un rimando alla tradizione filosofica, che giammai ha identificato il soggetto conoscente con l’individuo empirico, il successivo adombra una sostanziale differenza tra i due concetti – a comprova il pensatore ricorda, nella pagina in precedenza menzionata, che a seconda del contesto l’espressione “sono io!” può significare “sono Tizio” oppure “sono un essere umano” (e non, ad esempio, un animale). Schopenhauer, nel passo richiamato, ribadisce la prima affermazione, mentre Husserl sembra riallacciarsi alla seconda, distinguendo fra coscienza costituente e coscienza costituita9.
Residuano però ambiguità semantiche e difficoltà logiche. Il fondatore dell’idealismo critico affida all’io empirico – e non all’Io, che è puro agire inconsapevole – lo sviluppo dell’autocoscienza; inoltre, gli assegna il compito fondamentale di superare gli ostacoli posti via via dalla presunta “realtà”, facendone l’assoluto protagonista della sua trattazione. C’è dell’altro: intelligenza, specie umana, coscienza conoscente ecc. appartengono indubbiamente alla categoria delle “idee generali” di cui il vescovo Berkeley contesta l’autonoma esistenza – sono nomi nudi, evanescenti prodotti dell’intelletto umano. Il problema è che si potrebbe dire altrettanto della divinità che, per Cartesio come per Berkeley, garantirebbe la “tenuta” del sistema.
L’autocoscienza è invece, almeno apparentemente, un dato acquisito, del quale facciamo continuamente esperienza (persino in sogno ci sentiamo noi stessi): cosa vieta allora di concludere che – come scrissi a suo tempo – “il singolo sia il demiurgo che si nasconde a se stesso” autolimitandosi? Il fatto che si nasca e si muoia non costituisce a rigore un ostacolo insormontabile: non v’è alcuna certezza che l’universo sia eterno (“Io sono l’alfa e l’omega”, proclama il Dio biblico) e se il tempo è relativo migliaia di anni possono concentrarsi in un giorno o in un singolo pensiero.
Sotto un certo aspetto, dunque, il solipsismo è la forma di idealismo meno astratta e più coerente con le proprie premesse – che ci offra un efficace rimedio contro la furia del dileguare è però quantomeno dubbio.
La nostra esistenza assomiglia a una sigaretta accesa controvento, il cui scintillio può spegnersi senza preavviso in qualsiasi istante: il tentativo di erigere su simili fondamenta un edificio smisurato è semplicemente patetico.
Schopenhauer lodava Kant per aver posto sullo stesso piano soggetto e oggetto, senza aver dato precedenza all’uno (come fanno gli idealisti) o all’altro (l’opzione scelta dai materialisti): sulla medesima scia si muove Karl Jaspers, che considera impenetrabile il mistero dell’Essere (=cosa in sé10), ma esorta la persona umana a sforzarsi di leggerne la scrittura cifrata per conferire autenticità a un cammino esistenziale breve e accidentato.
L’uomo può insomma dare significato alla propria vita, senza per questo rinunciare alla speranza che dopo ci sia qualcosa e che il caos in cui siamo stati gettati alla nascita abbia un perché.







































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