Si rafforza il processo di de-dollarizzazione del mercato petrolifero globale
di Demostenes Floros
Il 5 settembre 2023, Natasha Kaneva, resposabile JPMorgan per la strategia sulle materie prime, ha dichiarato a Business Insider che “il dollaro americano, uno dei principali motori dei prezzi del petrolio sul mercato globale, sta perdendo la sua antica importanza”[1]. Com’è noto, tra “biglietto verde” e barile sussiste una relazione tendenzialmente inversa: dal momento che il petrolio è scambiato in dollari, quando la valuta statunitense si apprezza, la domanda petrolifera tende a diminuire e con essa il valore dell’“oro nero”.
Più precisamente, gli analisti della banca statunitense hanno calcolato che, nel periodo 2005-2013, a un aumento dell’1% del valore del dollaro ponderato per il commercio ha corrisposto un calo del prezzo del petrolio di circa il 3%. Tuttavia, questo schema è significativamente mutato nel periodo 2014-2022, visto che a un aumento dell’1% del dollaro ha corrisposto un calo del prezzo del petrolio solo dello 0,2%. Ciò, ha portato Jahangir Aziz, responsabile JPMorgan per le economie emergenti, ad affermare che “complessivamente, rileviamo che l’importanza del dollaro [nell’influenzare il prezzo del barile] è diminuita significativamente tra il 2014 e il 2022”.
Questo cambiamento, evidenzia JPMorgan, è dovuto al fatto che ogni giorno sempre più petrolio non viene venduto in dollari, ma nelle valute nazionali dei partecipanti alle transazioni, a partire dallo yuan, ma non solo.
Nello specifico, secondo i dati della banca statunitense, nel 2023, il 20% del commercio globale di petrolio – pressoché 40.000.000 b/g a fronte dei circa 100.000.000 b/g consumati – è stato regolato in valute diverse dal dollaro (all’incirca 8.000.000 b/g)[2].
La Cina, che dal 2017 è il principale importatore di petrolio al mondo, già nel 2022, con la nascita del cosiddetto petro-yuan durante il China-Arab States Summit, aveva iniziato ad acquistare greggio e GNL da Iran, Venezuela, Federazione Russa e alcune nazioni africane, utilizzando la propria valuta nazionale, attraverso l’uso della propria piattaforma finanziaria, la Shanghai Petroleum and Natural Gas Exchange[3].
Nel 2023, nonostante le sanzioni finanziarie, nonché l’embargo e il price cap al petrolio, imposti dal G7 alla Russia a causa dell’intervento militare di quest’ultima in Ucraina, la Cina ha scientemente deciso di acquistare più greggio russo, pagandolo in yuan[4].
Più precisamente, in base alle statistiche fornite dalle Dogane cinesi[5], nell’anno appena trascorso, la Federazione Russa ha superato l’Arabia Saudita come principale fornitore di petrolio della Cina, avendo trasportato poco più di 107.000.000 t, pari a 2.140.000 b/g (+24% anno su anno), a fronte delle circa 86.000.000 t dell’Arabia Saudita e delle 59.000.000 t dell’Iraq.
Paul Craig Roberts, già Sottosegretario al Tesoro per la politica economica sotto l’Amministrazione Ronald Reagan, il 30 gennaio 2023, aveva anticipato che il passaggio allo yuan come valuta di scambio per i prodotti energetici avrebbe potuto essere una delle conseguenze delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti d’America alla Federazione Russa, per la guerra all’Ucraina[6].
Secondo l’Institute of International Finance[7], da allora, il petrolio russo – così come gran parte del gas naturale – è stato altresì scambiato in rubli, dirham emiratini e rupie indiane (l’India si è infatti rifiutata di pagare in yuan come chiesto dai russi)[8], nonostante la presenza di problemi di convertibilità, parzialmente superati attraverso un riequilibrio del rapporto import/export tra le controparti[9].
Nonostante i proventi del petrolio iracheno siano trasferiti alla Federal Reserve Bank di New York e Baghdad necessiti del permesso degli Stati Uniti per accedere a tali fondi, il 31 gennaio 2024, la Commissione Finanze del parlamento iracheno ha ufficialmente esortato il governo a liberare il paese dalla dipendenza dal dollaro statunitense, raccomandando di vendere il proprio petrolio in valute estere alternative (l’Iraq è il secondo produttore OPEC)[10].
“Il Tesoro degli Stati Uniti usa ancora il pretesto del riciclaggio del denaro per imporre sanzioni alle banche irachene. Ciò richiede una posizione nazionale per porre fine a queste decisioni arbitrarie”, si legge nella dichiarazione. “L’imposizione di sanzioni alle banche irachene mina e ostacola gli sforzi della Banca centrale per stabilizzare il tasso di cambio del dollaro e ridurre il divario di vendita tra i tassi ufficiali e quelli paralleli”. Il Comitato Finanze ha affermato il suo “rifiuto di queste pratiche, a causa delle loro ripercussioni sui mezzi di sussistenza dei cittadini” e ha ribadito il suo “appello al governo e alla Banca Centrale dell’Iraq a prendere misure rapide contro il dominio del dollaro, diversificando le riserve di liquidità dalle valute estere”[11].
La posizione espressa dalla Commissione Finanze fa seguito a quanto dichiarato dal Primo Ministro iracheno, Hussein Mouanes, il 10 maggio 2023, al The Cradle: “E’ chiaro che l’Iraq è economicamente dominato dagli Stati Uniti e che il nostro governo non controlla, né ha accesso alla propria moneta […], crediamo che sia fondamentale abbandonare l’egemonia del dollaro, soprattutto perché è diventato uno strumento per imporre sanzioni ai Paesi. È tempo che l’Iraq faccia affidamento sulla sua moneta locale”[12].
In base all’International Energy Agency[13], nel 2023, l’Iran ha prodotto 2.990.000 b/g, 440.000 b/g in più rispetto al 2022, e prevede un ulteriore aumento di 160.000 b/g nel 2024 (il paese è infatti escluso dalle quote produttive decise in ambito OPEC plus, come Libia e Venezuela). Nel contempo, le esportazioni iraniane di greggio hanno raggiunto 1.290.000 b/g (+50%), massimo da 5 anni a questa parte, di cui il 90% destinato alla Cina, secondo Kpler. Gli oltre 40 raffinatori indipendenti di piccole e medie dimensioni cinesi hanno infatti acquistato il petrolio iraniano – mediamente scontato di 13 $/b rispetto al Brent, nel 2023 – in yuan[14].
Seppur in maniera meno evidente di Federazione Russa e Iran, anche altri grandi produttori di materie prime come il Brasile e gli Emirati Arabi Uniti, nell’anno passato, hanno intrapreso le prime timide iniziative volte a escludere il biglietto verde.
Nello specifico, il 5 ottobre 2023, Brasile e Cina hanno effettuato il primo scambio di merci in valuta locale per un carico di pasta di cellulosa brasiliana[15], mentre il 14 agosto 2023, la Indian Oil Corp. ha acquistato il primo carico di greggio emiratino in rupie (1.000.000 barili)[16].
Secondo quanto riportato da Bloomberg[17], il 6 marzo 2023, la Reserve Bank of India (BRI), cioè la Banca Centrale dell’Unione indiana, ha inoltre esortato le raffinerie statali (Indian Oil Corp., Bharat Petroleum Corp. e Hindustan Petroleum Corp.) a negoziare in rupie almeno il 10% dei pagamenti petroliferi con i fornitori del Golfo, onde preservare il valore della valuta nazionale (a gennaio 2024, il paese ha importato 4.800.000 b/g di greggio, secondo Kpler[18], consolidando la propria posizione di terzo importatore al mondo). Tuttavia, quest’ultimi stanno al momento facendo resistenza a causa del rischio valutario e delle spese di conversione.
Sebbene il dollaro sia tuttora il perno del sistema finanziario globale, la conclusione alla quale giunge JPMorgan è che – per lo meno, nel mercato petrolifero – si stia poco alla volta determinando un processo di de-dollarizzazione marginale.
Quasi fosse un paradosso, il lento declino dell’influenza del dollaro nella determinazione del prezzo del petrolio è stato in parte favorito anche dall’impressionante incremento nella produzione USA di tight oil, ottenuto negli ultimi 15 anni grazie all’uso della tecnica del cosiddetto fracking (fratturazione idraulica) che ha parallelamente comportato un crollo delle importazioni di greggio da parte degli Stati Uniti (seppur in costante aumento dal 2020 in poi, sino ai 6.478.000 b/g importati nel 2023)[19]. Inoltre, da quando a dicembre 2015, fu sollevato il divieto alle esportazioni statunitensi di greggio, quest’ultime sono costantemente cresciute sino al record di 4.000.000 b/g circa, toccato nel 2023 (principalmente dirette in Olanda, Cina e Corea del Sud).
Nello specifico, se dal 2004 al 2007, quando ancora non si utilizzava la tecnica del fracking, le importazioni nette di greggio degli Stati Uniti superavano i 10.000.000 b/g, nel 2023, tale valore si era addirittura ridotto a 2.400.000 b/g, il livello più basso dal 1972[20].
Esattamente come per Paul Craig Roberts, anche per Wang Xiangsui, professore e direttore del Centro per gli studi sulle questioni strategiche dell’Università di Aeronautica e Astronautica Beihang di Pechino, dato il livello di sanzioni finanziarie imposte dagli Usa alla Federazione Russa, è l’affidabilità creditizia del dollaro statunitense ad aver subito un duro colpo. In passato, il sistema dominato dal dollaro si esprimeva come “la nostra valuta, il vostro problema”.
Dopo l’ordine di regolare le transazioni di gas naturale in rubli [e di accettare il pagamento del petrolio in yuan e in altre valute diverse dal dollaro], la Russia [e la Cina] ha ribaltato quel paradigma in “le nostre merci, il vostro problema”, sfidando il sistema monetario mondiale attuale[21]. In merito a quest’ultimo, già a marzo 2022, il Governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, aveva pubblicamente aperto alla possibilità di avere più di una valuta di riserva, oltre al dollaro[22]. Forse, lo yuan? Se la merce di scambio voluta dagli Stati Uniti fosse stata la fine del sostegno cinese alla Federazione Russa, la richiesta indirettamente avanzata dal Governatore della Fed sarebbe stata, ad oggi, completamente respinta al mittente.







































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